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CON FRANCESCO D’ASSISI, UOMINI E DONNE DELLA MISERICORDIA

perdonoassisiL’Anno Santo della Misericordia, indetto da papa Francesco, è un “dono” dello Spirito Santo fatto alla Chiesa e all’umanità intera, perché ogni uomo possa riscoprire la dolcezza dell’abbraccio Misericordioso del Padre, ma non è solo questo. Avendo ricevuto questo “dono”, tutti noi siamo chiamati a “restituire” al nostro prossimo l’“abbraccio” del Padre, facendoci testimoni di Misericordia.
È giunto di nuovo per la Chiesa il tempo di farsi carico dell’annuncio gioioso del perdono. È il tempo del ritorno all’essenziale per farci carico delle debolezze e delle difficoltà dei nostri fratelli. Il perdono è una forza che risuscita a vita nuova e infonde il coraggio per guardare al futuro con speranza.” (M.V.10).
Come essere “testimoni di Misericordia”? Papa Francesco ci indica la strada maestra: “Come ama il Padre così amano i figli. Come è misericordioso Lui, così siamo chiamati ad essere misericordiosi noi, gli uni verso gli altri.” (M.V.9).
Non basta, però, essere testimoni, la nostra testimonianza deve essere credibile e per essere tale è necessario che ciascun credente viva in prima persona la misericordia; “il suo linguaggio e i suoi gesti devono trasmettere misericordia per penetrare nel cuore delle persone e provocarle a ritrovare la strada per ritornare al Padre”. (M.V.12)
Il Papa esorta tutte le parrocchie, i movimenti e le associazioni … a diventare “oasi” di misericordia.
Questo invito coinvolge anche l’Ordine Francescano Secolare, fondato circa ottocento anni fa da San Francesco d’Assisi, per coloro che volevano vivere il Vangelo senza separarsi dal “mondo”, conservando lo stato di laici e diventando “luce del mondo e sale della terra”.
La chiesa attende anche da noi, Francescani Secolari, la testimonianza dell’esperienza del Vangelo vissuto alla maniera di Francesco, uomo della “fraternità e della misericordia”.
La misericordia, infatti, fu il primo frutto dell’avvicinamento di Francesco d’Assisi al Signore, come affermò lui stesso: «Il Signore dette a me, frate Francesco, d’incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo». (Testamento di S. Francesco, Fonti Francescane 110)
«Ci sono stati alcuni – afferma padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap – che sono arrivati a Cristo partendo dall’amore per i poveri e vi sono stati altri che sono arrivati ai poveri partendo dall’amore per Cristo. Francesco appartiene a questi secondi… Francesco ha dapprima sperimentato la misericordia di Dio verso di lui, la misericordia come dono gratuito, ed è questo che lo ha spinto e gli ha dato la forza di avere misericordia dei lebbroso e dei poveri».
Il poverello di Assisi chiedeva anche ai suoi frati, in particolare ai suoi “superiori” – considerati i “servi” dell’Ordine – di essere uomini della misericordia; nella “lettera a un ministro”, Francesco così li esortava: «Non ci sia alcun frate al mondo, che abbia peccato, quanto è possibile peccare, che, dopo aver visto i tuoi occhi, non se ne torni via senza il tuo perdono, se egli lo chiede; e se non chiedesse perdono, chiedi tu a lui se vuole essere perdonato. E se, in seguito, mille volte peccasse davanti ai tuoi occhi, amalo più di me per questo: che tu possa attrarlo al Signore; ed abbi misericordia per tali fratelli» (Lettera a un ministro — FF 235).
San Francesco aveva l’ardente desiderio che la Misericordia del Signore arrivasse ad ogni cuore, ferito dal peccato e dalla sofferenza, soprattutto quella provocata dai conflitti che al suo tempo coinvolgevano tutto il tessuto sociale: conflitti tra i popoli, con la guerra fra la Francia e la Germania e le Crociate in Terra Santa tra i cristiani e i musulmani; ma anche conflitti all’interno delle famiglie e all’interno della Chiesa.
In questo contesto, in una notte del 1216, Francesco, mentre era immerso nella preghiera alla Porziuncola, come sempre faceva, vide una luce, una luce molto forte e, sopra l’altare, vide il Cristo e alla sua destra la Madonna e gli angeli, che gli chiesero cosa desiderasse per la salvezza delle anime. La risposta immediata fu: «Santissimo Padre, benché io sia misero e peccatore, ti prego di concedere ampio e generoso perdono».
«Egli, alzatosi di mattina, chiamò frate Masseo da Marignano, suo compagno, col quale si trovava, e si presentò al cospetto di papa Onorio, e disse: “Santo Padre, di recente, ad onore della Vergine Madre di Cristo, riparai per voi una chiesa. Prego umilmente vostra santità che vi poniate un’Indulgenza senza oboli».
Il papa rispose: «Questo, stando alla consuetudine, non si può fare, poiché è opportuno che colui che chiede un’Indulgenza la meriti stendendo la mano ad aiutare, ma tuttavia indicami quanti anni vuoi che io fissi riguardo all’Indulgenza». San Francesco gli rispose: «Santo Padre, piaccia alla vostra santità concedermi, non anni, ma anime». Ed il papa riprese: «In che modo vuoi delle anime?». Il beato Francesco rispose: «Santo Padre, voglio, se ciò piace alla vostra santità, che quanti verranno a questa chiesa confessati, pentiti e, come conviene, assolti dal sacerdote, siano liberati dalla colpa e dalla pena in cielo e in terra, dal giorno del battesimo al giorno ed all’ora dell’entrata in questa chiesa». Il papa rispose: «Molto è ciò che chiedi, o Francesco; non è infatti consuetudine della Curia romana concedere una simile indulgenza». Il beato Francesco rispose: «Signore, ciò che chiedo non viene da me, ma lo chiedo da parte di colui che mi ha mandato, il Signore Gesù Cristo». Allora il signor papa, senza indugio proruppe dicendo tre volte: «Ordino che tu l’abbia».
Questa è la prima testimonianza storica ufficiale – il racconto è risalente al 1310 ed è inserito nel diploma del Vescovo Teobaldo di Assisi, scritto per chiudere la questione e inviato a tutte le sedi episcopali d’Italia – che racconta come a Francesco venne l’idea di chiedere questa straordinaria indulgenza, disponibile per tutti, senza limiti di tempo e senza necessità di elemosina. Era una rivoluzione per l’epoca: nel Medioevo, infatti le indulgenze erano lucrate solo nei grandi santuari della cristianità (Gerusalemme, Santiago, Roma) e questo richiedeva anche uno sforzo economico per raggiungerli.
La richiesta di Francesco scandalizzò la curia del suo tempo.
Così, forse per non contrapporsi troppo al volere dei vescovi i quali avevano paura di ledere, con questa concessione, gli interessi dei grandi pellegrinaggi, l’indulgenza richiesta da Francesco fu limitata nel tempo (solo il 2 agosto) e nello spazio (solo nella chiesetta della Porziuncola).
Teobaldo infatti racconta delle immediate rimostranze dei vescovi, che temevano che questo luogo, facile da raggiungere e senza offerta obbligatoria, facesse scomparire l’importanza delle indulgenze nei luoghi santi e a Roma. Per questo il Papa, non volendo comunque annullare ciò che aveva già concesso, contenne la richiesta di Francesco; questa limitazione, però, non scoraggiò affatto il Poverello, tanto che il 2 agosto dello stesso anno, dopo aver predicato davanti alla chiesetta e ai vescovi ivi radunati, disse: «Io vi voglio mandare tutti in paradiso e vi annuncio una Indulgenza che ho ottenuto dalla bocca del sommo pontefice. Tutti voi che siete venuti oggi, e tutti coloro che ogni anno verranno in questo giorno, con buona disposizione di cuore e pentiti, abbiano l’Indulgenza di tutti i loro peccati» …
Francesco aveva in mente un perdono più vicino all’uomo comune, al povero, al semplice e soprattutto possibile per tutti: ecco perché scelse un luogo facilmente raggiungibile e chiese al papa che fosse una concessione “senza obolo”, con la sola clausola della confessione sacramentale e della conversione del cuore.
A ottocento anni dall’approvazione dell’indulgenza per la chiesetta della Porziuncola, papa Francesco indice il Giubileo della Misericordia, con lo stesso proposito del Poverello d’Assisi: portare a tutta l’umanità – e a tutto il creato – l’abbraccio misericordioso del Padre.
Icona di questo Giubileo è Gesù, strumento della misericordia del Padre, che carica sulle sue spalle l’uomo smarrito, con tutte le sue ferite, corporali e spirituali.
Quell’uomo rappresenta tutta l’umanità, ma in particolare i più deboli, i poveri, gli emarginati: gli ultimi, come amava definirli San Francesco.
Tutti noi Francescani Secolari, sull’esempio del Santo di Assisi, siamo chiamati ad avere compassione per il prossimo che soffre ai margini della strada, lasciandoci coinvolgere nella vita dell’altro, donando amore, tenerezza, misericordia.
Anche perché, aspetto importantissimo, «la misericordia rende l’uomo capace di rendere lode a Dio», osserva fra Paolo Martinelli, vescovo ausiliare di Milano.
«In Francesco d’Assisi – afferma Martinelli – questa capacità è espressa in modo mirabile nel Cantico di Frate Sole. Non è un inno spensierato, come potrebbe sembrare a prima vista, ma scritto da Francesco alla fine della sua vita dopo un lungo cammino di sequela di Gesù fino alle stimmate, dove il Poverello diventa uomo conformato perfettamente a Cristo, anche e soprattutto nel dolore della Sua passione. Francesco vive il rapporto con la realtà in modo così sublime e pieno perché è un uomo profondamente riconciliato con se stesso, con gli altri, con le cose e con Dio. La misericordia lo ha reso cantore della lode per tutte le creature che è espressione di un nuovo umanesimo: l’uomo è tale se è capace di lode, ecco la vera statura dell’uomo!».
Fra Paolo Martinelli suggerisce, in particolare a noi Francescani, di: «Essere uomini nuovi in Cristo, capaci così di conversione e di agire fuori dagli schemi e dalla logica del mondo, per poter essere rigenerati dalla misericordia di Dio al fine di rinnovare le nostre relazioni con noi stessi, gli altri, il creato e Dio. Con questa forza e consapevolezza tutti i francescani – religiosi, suore e laici – vivranno il Giubileo come tempo favorevole per sperimentare e donare misericordia».
Mi piace, a questo punto, concludere con le parole del Ministro nazionale dell’Ordine Francescano Secolare d’Italia, Remo Di Pinto che nell’annunciare il 2016 come anno straordinario della missione – non a caso denominata Per-Dono – afferma: «Vogliamo fare esperienza dell’abbandono silenzioso a un abbraccio d’amore: quello del Padre che viene incontro a ogni uomo per mettergli l’anello al dito, fargli indossare l’abito della festa e i calzari. I calzari ci invitano a metterci in movimento, si devono consumare per la strada, come Francesco, perché possiamo diventare testimoni del Perdono ricevuto… Ciò che serve ad ogni uomo e ad ogni donna è fare esperienza dell’amore misericordioso del Padre, sentirsi accolto con profonda dolcezza da uno sguardo, da un abbraccio forte, dolce, caldo e rassicurante che è più forte di ogni peccato, che dona il coraggio di affidarsi e dona speranza. Per i francescani secolari e per i giovani della Gioventù Francescana, questo è l’inizio del pellegrinaggio verso la misericordia di Dio, per divenirne segno nel mondo. È l’inizio del viaggio che ci conduce alla Porta Santa per divenire noi stessi Porta Santa, immagine piena della fraternità che contraddistingue la nostra esperienza, che ci rende responsabili dell’altro, non attraverso una immagine chiusa e perfetta di seguaci privilegiati o di famiglie portatrici di felicità artificiale, che giudica chi non è conforme a modelli inavvicinabili, come isole irraggiungibili. C’è piuttosto il bisogno di condividere la fragilità, la debolezza, ma insieme a questa i segni del perdono, esperienza di un incontro: questo riduce le distanze e accoglie, questa è fraternità, porta di speranza! … Gesù chiede di perdonare e di donare. Essere strumenti del perdono, perché noi per primi lo abbiamo ottenuto da Dio. Con questo spirito ci siamo proposti di vivere un Anno della missione, a cui abbiamo dato proprio il titolo “Per Dono”: per essere segno di fraternità nella Chiesa, con la Chiesa, per la Chiesa, che dice a ciascuno con il Vangelo: «Annuncia ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ha avuto per te» (Mt 5,19)».




IL SERVIZIO AI FRATELLI

san-francesco-e-lebbroso-mosaicoFrancesco d’Assisi si fa servo perché vuole seguire Gesù Cristo, così si spoglia come Cristo si è spogliato dalla sua natura divina:
Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce.” (Fil 2, 5-8)

La scelta di Francesco è anche una scelta sociale, sceglie di stare con i minores, cioè con gli ultimi. La regola di Francesco è: prendersi cura dell’altro, questa è l’anima del suo servizio. Come una madre si prende cura del proprio figlio, così Francesco invita i suoi seguaci a prendersi cura del fratello spirituale. Ai piedi della croce Gesù dona Maria a Giovanni come per dire che lui deve imparare da Maria a fare da madre alla chiesa, quindi l’anima del servizio è di essere come una madre, per il proprio fratello. La premura di Francesco per il fratello è, quindi, lo stile della madre.
Se dobbiamo amarci tra noi non dobbiamo amarci come fratelli, ma come una madre ama il proprio figlio. Il sentimento che deve animare il nostro essere a servizio della fraternità è, quindi, il prendersi cura.
In particolare, il servizio è finalizzato affinché gli altri possano entrare o rimanere nella volontà di Dio. L’accompagnamento, l’esortazione, la correzione, il rimprovero deve essere come quello di una madre e questa deve essere la caratteristica di chi è incaricato a prendersi cura dei fratelli.
Il servizio è la caratteristica che Francesco assume nel seguire Gesù Cristo e nel servizio Francesco, come Gesù, si rivolge in particolare agli ultimi (la minorità).
L’impegno fondamentale di un francescano è vivere il Vangelo alla maniera di San Francesco, cioè facendosi servo di tutti soprattutto degli ultimi. I francescani secolari devono accogliere i fratelli con atteggiamento umile e cortese, così come farebbe una madre, perché sono un dono di Dio.
San Giacomo diceva di non poter dire di amare Dio che non vediamo, se non amiamo il fratello che vediamo. I francescani si rendono, quindi, fratelli degli ultimi, per i quali si sforzano di creare condizioni di vita migliori. Quando facciamo un’opera buona è come se stessimo “restituendo” i doni che abbiamo ricevuto. I carismi che lo Spirito ci ispira abbiamo la responsabilità di viverli anche nel sociale, questo è importante per dare un contributo alla realizzazione di un mondo migliore.
I francescani devono essere presenti nella società, attraverso la testimonianza coraggiosa, sia individuale che comunitaria, devono essere capaci anche di andare contro corrente.
In tale ottica, anche il lavoro è una missione a contribuire alla crescita della società, oltre che a procurare i beni per il sostentamento personale.
Il lavoro deve essere vissuto con responsabilità; anche la preparazione professionale è un servizio che si offre alla comunità.
Nel cammino di formazione del Francescano, come citano le Costituzioni, non può mancare il servizio. Quando un novizio bussava alla porta della fraternità di Francesco, lui lo mandava presso i lebbrosi, quello era per lui il noviziato. Il servizio, quindi, è posto come condizione necessaria al cammino di formazione iniziale e permanente del Francescano secolare.
I punti 31.1 e 31.2 delle Costituzioni dell’Ordine Francescano Secolare, parlano delle elezioni del ministro. L’ufficio del ministro è un impegno a servire il fratello con disponibilità (anche se non lo si fa con piacere) e responsabilità. Si tratta di una chiamata al servizio; il Signore chiama a servire con uno sforzo maggiore la fraternità, a spendersi di più, non è una chiamata per i meriti, ma è un discernimento fatto dai fratelli attraverso lo Spirito Santo.
Il punto 32 delle Costituzioni afferma che il compito del consigliere è temporaneo, perché nessuno deve legarsi alla poltrona. Si deve essere disponibili tanto ad accettare che a lasciare il servizio, accettando di metterci in disparte, anche dopo aver dato tanto, perché siamo tutti “servi inutili”.
Al punto 100 le Costituzioni parlano del servizio all’interno della Chiesa, attraverso la collaborazione anche con altri gruppi, partecipando alla vita della diocesi e ai consigli pastorali della parrocchia, per mettere a servizio della Chiesa il nostro carisma francescano.
Quando svolgiamo il nostro servizio con gioia stiamo annunciando Gesù Cristo.




IL SALUTO ALLE VIRTÙ DI SAN FRANCESCO D’ASSISI

il saluto alle virtùIl saluto alle virtù è una laude di San Francesco. La laude è una sorta di poesia che si utilizzava, all’epoca di san Francesco, per dare degli insegnamenti, attraverso il racconto di storie.
Anche Francesco utilizzava questo metodo per la sua predicazione. In quel tempo, la predicazione era consentita solo ai chierici. I predicatori itineranti, come Francesco e i suoi frati, potevano solo fare delle esortazioni al popolo.
I predicatori ufficiali dovevano dare i contenuti alle predicazioni, i predicatori itineranti, invece portavano al popolo il messaggio dell’esortazione.
«In ogni sermone che viene proposto alla riunione dei fratelli allo scopo di edificare, due cose sono necessarie, la lettura e l’esortazione, affinché la lettura sia aumentata la scienza e dall’esortazione sia corretta la vita. La lettura serve infatti all’aumento della scienza, l’esortazione alla correzione della vita» (sermone anonimo).
Francesco parla di Gesù, partendo dalle virtù che furono di Gesù. Le virtù sono lo stile di vita di Gesù. Quando Francesco annuncia la mitezza, la povertà, l’umiltà, ecc. in realtà annuncia Gesù che ha incarnato quelle virtù.
La parola latina virtus deriva dal latino di vir = uomo e si riferisce ai valori dell’uomo da utilizzarsi in battaglia: forza fisica, coraggio, ecc.
Francesco quando parla di virtù si riferisce allo Spirito Santo che infonde la forza per essere uomini virtuosi. La virtù è, quindi, un dono di Dio.
Nell’ammonizione 27 (Fonti Francescane 177), Francesco contrappone la virtù al vizio che è l’opposto della virtù. Francesco dice che per perdere un vizio, bisogna esercitare la virtù:

Dove è amore e sapienza,
ivi non è timore né ignoranza.
Dove è pazienza e umiltà,
ivi non è ira né turbamento.
Dove è povertà con letizia,
ivi non è cupidigia né avarizia.
Dove è quiete e meditazione,
ivi non è affanno né dissipazione.
Dove è il timore del Signore a custodire la sua casa,
ivi il nemico non può trovare via d’entrata.
Dove è misericordia e discrezione,
ivi non è superfluità né durezza.

Bisogna vivere secondo lo Spirito, perché solo così potremo vivere una vita virtuosa.
Anche di Maria, Francesco tesse le lodi attraverso le virtù. Francesco dice che le virtù sono un dono dello spirito, perché rendono gli uomini da infedeli, fedeli a Dio. Lo Spirito di Dio gratuitamente riversa nel cuore dell’uomo il dono delle virtù, per farlo diventare Santo e per renderlo consapevole della sua fede. Esercitare le virtù ci rende consapevoli della effettiva sequela di Gesù.

IL SALUTO ALLE VIRTÙ (Fonti Francescane 256-258)

Ave, regina sapienza,
il Signore ti salvi
con tua sorella, la santa e pura semplicità.
Signora santa povertà,
il Signore ti salvi
con tua sorella, la santa umiltà.
Signora santa carità,
il Signore ti salvi
con tua sorella, la santa obbedienza.
Santissime virtù,
voi tutte salvi il Signore
dal quale venite e procedete.
Non c’è assolutamente uomo nel mondo intero,
che possa avere una sola di voi,
se prima non muore [a se stesso].
Chi ne ha una e le altre non offende,
tutte le possiede,
e chi anche una sola ne offende
non ne possiede nessuna e le offende tutte.
e ognuna confonde i vizi e i peccati.
La santa sapienza
confonde Satana e tutte le sue insidie.
La pura santa semplicità
confonde ogni sapienza di questo mondo
e la sapienza della carne.
La santa povertà
confonde la cupidigia, I’avarizia
e le preoccupazioni del secolo presente.
La santa umiltà
confonde la superbia
e tutti gli uomini che sono nel mondo
e similmente tutte le cose che sono nel mondo.
La santa carità
confonde tutte le diaboliche e carnali tentazioni
e tutti i timori carnali.
La santa obbedienza
confonde tutte le volontà corporali e carnali
e ogni volontà propria,
e tiene il suo corpo mortificato per l’obbedienza
allo spirito e per l’obbedienza al proprio fratello;
e allora l’uomo è suddito e sottomesso
a tutti gli uomini che sono nel mondo,
e non soltanto ai soli uomini,
ma anche a tutte le bestie e alle fiere,
così che possano fare di lui quello che vogliono
per quanto sarà loro concesso dall’alto del Signore.

Questa è l’icona di Gesù. Nel brano 775 delle Fonti Francescane, Tommaso da Celano afferma che il saluto alle virtù fu scritto proprio da San Francesco. La prima considerazione è che le virtù hanno origine da Dio. Le virtù, dunque, sono sempre un dono, anche quando sono acquisite. Le virtù possono fruttare solo con la morte, conversione, di se stessi. Dio mette nel mio cuore il seme affinché io sia caritatevole… io devo mettere l’impegno a morire a me stesso. Francesco ci esorta ad avere cura almeno di una virtù. Sarebbe utile individuare un nostro vizio e pensare alla virtù che ad esso si contrappone, esercitandomi su di essa.
Dobbiamo lottare contro le nostre fragilità che ci rendono esposti al pericolo, per fare questo abbiamo bisogno del dono della Grazia. Dal peccato originale non potremmo mai rialzarci se non ci aggrappassimo a Gesù, attraverso il Battesimo. La Grazia è necessaria all’uomo per diventare perfetto.
Esiste una sinergia tra le virtù. Se hai una virtù le possiedi tutte. Questo perché la virtù ha una sola origine: lo Spirito Santo che si manifesta in modi diversi. L’esercizio della virtù confonde i vizi. Il vizio stesso è confuso davanti all’esercizio delle virtù. L’impegno nelle virtù diventa lo stimolo alla conversione. Voglio conformarmi a Cristo e lo posso fare solo vivendo le sue virtù, morendo a me stesso, ai miei vizi.
Le sei virtù si equilibrano tra loro, perciò se non le hai tutte è come se non ne avessi nessuna. Francesco propone l’esercizio delle virtù come un cammino, per cui la pienezza delle virtù può dipendere da tanti fattori che possono variare da persona a persona.
La virtù per eccellenza è Gesù, LUI è la fotografia delle virtù.
San Paolo quando parla dei frutti dello Spirito Santo, parla delle virtù, per questo la virtù è un dono che va chiesto al Signore, tutti però possono avere il Dono dello Spirito, anche un ateo. Si chiude alla virtù l’uomo che non vuole la Grazia e nemmeno l’illuminazione dello Spirito. La virtù è per tutti anche per chi non crede; il fedele a Dio è colui che segue questa spinta, anche se non crede.




CREDO IN UN SOLO SIGNORE GESÙ CRISTO …

Credo in un solo Signore Gesù Cristo … Questa parte del “Credo” raccoglie i più grandi temi della nostra Fede:

  1. I titoli di Gesù;
  2. Il rapporto tra Gesù e il Padre;
  3. Il rapporto tra Gesù e la sua umanità;
  4. La coscienza di Gesù.

I TITOLI DI GESÙ

Ci sono tre titoli importanti che riguardano Gesù:

a)    CRISTO. Cristo è la trascrizione italiana della parola greca Christòs che traduceva la parola ebraica Mashìah, da cui la parola italiana messia. Entrambe le parole significano «Unto». Presso gli ebrei si ungeva con olio qualcuno che si voleva consacrare a Dio (Gn 28,18). La persona sul cui capo era versato olio profumato era considerata come rappresentante di Dio, quindi l’“unto” era il “rappresentante di Dio”. Cristo è unto dal Signore che lo consacra; questo è il più importante titolo di Gesù.

b)    SIGNORE. Il Signore è chi vince la morte. Quando gli Apostoli scrivono i Vangeli, i fatti sono già avvenuti, perciò lo chiamano Signore anche prima di raccontare la Resurrezione di Gesù. Il nome di Dio, nell’Antico Testamento, non era pronunciabile – YHWH – perciò era indicato col nome di “Signore”. Il primo credo che troviamo nella Scrittura è: “Gesù Cristo è il Signore”.

IL RAPPORTO TRA GESÙ E IL PADRE

Che rapporto c’è tra il Padre e il Figlio? A questa domanda tanti hanno cercato di dare una risposta. Vuol dire che c’è un Dio più grande e uno più piccolo? Quando diciamo “generato non creato”, affermiamo che nel rapporto tra Padre e Figlio non c’è subordinazione, ma si trovano sullo stesso livello; il primo Concilio di Costantinopoli (381) parla di stessa sostanza Se Dio è Amore, ha bisogno di qualcuno con cui relazionarsi e costui è l’immagine di se stesso.

IL RAPPORTO TRA GESÙ E LA SUA UMANITÀ

Con l’incarnazione del Cristo, Dio vuole partecipare la sua materia divina alla nostra natura umana, ma che rapporto c’è tra l’umanità e la divinità di Gesù?

Siamo tentati di pensare che Gesù fosse talmente tanto Dio da schiacciare la sua umanità. Come uomo, invece, Gesù ha avuto tutte le nostre fragilità. Ha lavorato con le mani di uomo e ha pensato con la testa di uomo.

L’incarnazione è il primo atto d’amore di Dio che aveva il fine di indicarci la strada per diventare come Lui. Gesù, infatti, ci dice di essere la via per arrivare alla perfezione umana che abbiamo perso col peccato originale e la strada che ci propone è proprio quella della sua umanità.

Il Concilio di Calcedonia (451) afferma che Gesù è vero Dio e vero uomo evidenziando che la Sua umanità e la Sua divinità non si mescolano.

Qualcuno degli antichi Padri affermava che Maria fosse la madre dell’uomo – Gesù e basta. Invece Maria è Madre dell’uomo – Dio di quest’unione umana – divina. Maria tesse la carne all’uomo – Dio e non solo all’uomo o solo a Dio.

Nel grembo di Maria avviene una nuova creazione; lì, dal nulla, Dio crea la carne umana dell’uomo – Dio del Figlio di Dio. Questa carne è plasmata nel grembo di Maria già come uomo – Dio e non è uomo su cui si innesta, poi, la divinità.

LA COSCIENZA DI GESÙ

Gesù cresce in età, sapienza e grazia (Lc 2, 51-52). Lui già da bambino intuisce di avere un rapporto speciale con il Padre. A dodici anni, nel tempio di Gerusalemme, Gesù dice a Maria e Giuseppe “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio? (Lc 2,49)

Questo doveva suonare come una bestemmia per gli ebrei; nemmeno Maria comprende quelle parole, però le conserva dentro di sé.

Gesù inizia la sua missione a trent’anni. Fino a quell’età vive nella sua famiglia e da essa impara tutto ciò che utilizzerà nei suoi insegnamenti. Non ha iniziato prima la sua missione, perché non aveva ancora raggiunto la pienezza della maturità umana. Col crescere, Gesù comprendeva sempre più di essere il prediletto del Padre e questa sensazione gli è ratificata nel giorno del suo Battesimo. Da quel momento Gesù cambia completamente il suo modo di essere; parla con autorità e si scontra col modo di vivere la fede nel suo tempo.

Il Padre era sempre con lui, soprattutto nella preghiera, in particolar modo in quella del Getsemani.

Che volontà aveva Gesù: umana o divina?

Gesù ha una volontà divina che cresce sempre più in Lui, ma ha anche una volontà umana che è libera e che si è donata: la volontà umana segue liberamente quella divina. È bello pensare che Gesù abbia scelto, liberamente, di fare la volontà del Padre: “Padre, se possibile, allontana da me questo calice …” (Mt 26,39).  

dall’incontro di formazione di p. Gianluca Manganelli
con la Fraternità Ofs di Avellino – Roseto

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GESU’ NON HA SCELTO IL PALAZZO

A 50 anni dal Concilio vaticano II, queste riflessioni di Don Gallo sulla Chiesa contemporanea, i suoi rapporti col Potere e la coscienza dei cristiani invitano ad una fede vissuta con sempre maggiore consapevolezza critica

Come prete, ho vissuto con commozione la primavera del Concilio vaticano II. Quella stagione è finita? Vorrei con tutto il cuore che la mia amata Chiesa cattolica, della quale sono presbitero da oltre cinquant’anni, non volesse mai avere un “posto speciale” nella storia. Essa è sale, è lievito, è chicco di grano. Non ha nulla da spartire con il Potere.
Gesù non ha scelto il Palazzo, ha scelto di nascere in una mangiatoia.
Vorrei guardare alla gloriosa storia della Chiesa come a una cattedra alta, che accetta la discussione, che apre le braccia a tutti, che accoglie con gioia il confronto. Una Chiesa che evangelizza sempre.
La comunità dei discepoli porta la Buona Novella a tutte le culture, rispettandole, visitandole, rinverdendole.
I tentativi di “presenza” dei cristiani devono essere portati davanti alla croce per essere giudicati e riconciliati dalla Parola di colui che ha tanto amato il mondo da dargli il suo unico figlio.
I cristiani – da prete dei poveracci lo dico – non devono avere una loro cultura, ma devono “abitare” la cultura degli uomini, conferendo a essa, semmai, quell’orizzonte che solo la fede può dare.
La croce del Vangelo non ci consegna una cultura, ma si incultura, non fa di noi una città, ma abita le case degli uomini.
Allora né i migranti, né i poveri, né i giovani, né gli operai, né i soggetti ghettizzati, né il cuore antico della gente, né la ragione comune laica, si troveranno fuori casa e subiranno scandalo.
Non vogliamo, cari fratelli e sorelle in Cristo crocifisso e risorto, per la nostra Chiesa, una sorta di “corsia preferenziale”, sottratta alla verifica di tanti credenti e non credenti, che cercano, con onestà intellettuale, di ordinare il traffico delle idee nella storia contemporanea, con profondo spirito critico reciproco.

Non mi sembra più possibile continuare a sostenere: «Cristianesimo uguale occidente». Ci vuole estrema chiarezza quando si parla di “radici cristiane”.
Dal famoso “caso del crocifisso” emerge in modo chiaro una politica – non solo leghista – incolta, arrogante e accomodante, pronta a riconoscere per il proprio tornaconto elettorale l’utilità sociale della religione. Questa però è vista come una religione che fornisce coesione, forza e motivazioni trascendenti di fronte al “nemico”, o quando addirittura esso viene appositamente creato, poiché spesso si sente anche questa urgenza, in questa società così frammentata, quella di crearsi un nemico.
La virtù della vigilanza, della lotta spirituale, del discernimento, deve attuarsi più che mai nell’attuale contesto, in cui la Chiesa non è osteggiata, anzi è ascoltata e omaggiata come Chiesa che serve, che mostra un’utilità sociale.
La croce di Gesù tiene aperto il futuro, contro tutte le chiusure e le ghettizzazioni delle frontiere, delle fabbriche, dei partiti, della scuola pubblica, del servizio civile, degli uffici, dei pubblici ministeri e dello stesso parlamento.

Lo specifico del cristiano consiste, tutto e per intero, nella fede stessa e in null’altro.
La fede non fornisce alcuna certezza politica, anzi, obbliga il cristiano a rivedere criticamente ogni sua scelta e lo spinge a ricercare insieme a tutti gli uomini, alla pari, la risposta più adeguata all’incessante domanda di costruzione di un mondo più giusto, più umano. Il cristiano non è mai “contro”: è con gli uomini di tutto il mondo.
Da prete di strada spero, con l’aiuto di Dio, di incontrare ancora numerosi cattolici, vescovi, preti, monaci, fratelli cristiani, che mi annuncino la Buona Novella, con coerenza evangelica.
Con il crocifisso di Gesù, unico mediatore tra Dio e gli uomini, unico sacerdote, i cristiani con i loro pastori devono smascherare le disumanità, con la capacità di destare il salutare “scandalo” dell’Evangelo; devono avere il coraggio della denuncia profetica contro tutte le ingiustizie, con vigilanza e istanza critica, contro i rischi dell’assurgere del potere politico ed economico a idolo, con tutte le donne e gli uomini che Dio ama.

“Camminare domandando”, nella via della non violenza, della pace, alla scoperta delle cause della struttura oppressiva.
Tutti, credenti e non credenti, possono giungere al ritrovamento di un nuovo significato: cercare la verità e sperare sempre nella possibilità di un mondo migliore; tutto ciò per i singoli e la stessa convivenza civile, costruendo una vera e unica famiglia umana.
C’è un ampio spazio per i credenti di tutte le religioni, e anche per i non credenti, nella nostra laicità del villaggio globale.
La fede ha il diritto e il dovere di criticare, di essere proposta all’uomo come senso del suo destino, d’innalzare la voce in nome dei propri valori, e il credente in questo fa parte della polis, ha il diritto di far ascoltare la sua voce tra gli altri uomini. Tuttavia non spetta alle religioni (e qui parlo della religione cristiana) definire o reggere la società, cadendo magari nella deriva del fondamentalismo o peggio dell’integralismo, come la storia insegna.
Una parola, una testimonianza che sia “eco di Dio”. I cristiani non hanno la loro cultura ma devono abitare la cultura degli uomini. Il Vangelo, infatti, è una proposta: il messaggio del Vangelo non ci consegna una cultura, una civiltà, ma si in-cultura; non fa di noi una città cristiana, ma abita le case degli uomini.
Il compito dei cristiani è di essere sale, luce, di illuminare sentieri possibili, di offrire indicazioni di senso, di speranza, di dialogo tra le culture e le civiltà, tra le religioni.

Nella Chiesa, purtroppo, è ancora inverno… e nella nostra intera società è notte. Ma tanti cristiani sono capaci, nel mondo, di urto, con risolutezza, con forza, contro la mondanità, contro l’idolatria, senza integralismi, senza pretendere privilegi e prebende, senza indire ancora crociate.
La mia amata Chiesa, nel processo di omologazione, stabilisce una Santa Alleanza tra il popolo di Dio e le leggi del mercato. Se il pensiero unico neo-liberale presenta il capitalismo come il fine, lo scopo della storia politica ed economica, allora questo è l’unico mondo possibile! E lo stesso discorso vale se il pensiero unico vaticano presenta il cattolicesimo come fine della storia religiosa.
A farne le spese è la teologia del pluralismo religioso, e si afferma sempre più dogmaticamente la Chiesa cattolica depositaria esclusiva della rivelazione divina, piena e definitiva. Come può quindi il dialogo con le altre religioni essere una forma di arricchimento, se si continua a ragionare così? Senza dialogo di base, come può la Chiesa adempiere alla sua missione evangelizzatrice di incontro e non di scontro tra religioni, tra civiltà, tra etnie? Volendo convertire tutte le persone e i popoli, il cristiano rischia un’evangelizzazione forzata come quella avvenuta durante la conquista dell’America, o ritorna come alla lotta anticomunista (il “nemico”) alleandosi con l’antico nemico, il liberalismo. Per passare oggi alle guerre di religione, per finire nello scontro di civiltà: «L’islam che ci invade, allarme su tutti i fronti!»

Per sfuggire a ogni fondamentalismo è indispensabile, a mio avviso, invece, una profonda interpretazione del pluralismo religioso e una vera vocazione al dialogo.
Permettetemi una metafora: l’identità, e allo stesso modo la coscienza, ha perso il suo stato solido, ormai scorre liquida e mutevole a seconda dei contesti. Cambia continuamente, senza più centro. E questo crea insicurezza, fragilità, anche paura.
Il bisogno di educare coscienze mature e responsabili non deriva da una generica esigenza morale, ma da una concreta urgenza di questo tempo. Siamo tutti compagni di strada, alla ricerca, non necessariamente allo sbando. Solo partendo da questo presupposto i cristiani riusciranno ad aprire cammini assieme agli altri uomini, e si sforzeranno insieme di edificare la polis senza titoli di privilegi, senza ricette infallibili, senza pretese di egemonia.
Il Vangelo, infatti, ispira i loro progetti, ma non ne detta la forma di realizzazione. Questa è da ricercarsi insieme agli altri cittadini non cristiani. Nessun fondamentalismo, quindi, né tanto meno integralismo, che sono sempre figli dell’angoscia di salvezza e di dominio, deve inficiare l’attiva presenza dei cristiani nella società.

La Chiesa in questi anni ha frenato e bloccato la riforma del Concilio vaticano II. Il messaggio di Gesù è che prima della fede viene l’etica, cioè il comportamento di ciascuno. E in questa testimonianza, in questa realizzazione del suo appartenere alla famiglia umana e quindi alla sfera civica che cresce sempre più, ecco che può vivere la sua fede, altrimenti egli è un incoerente – questo concetto c’era già nel Collegio apostolico – è un traditore del messaggio di Gesù. Bisogna incrociare questi valori che vengono da lontano (io li chiamo di sinistra), la solidarietà, la pace, il rispetto della natura, con una nuova storia del civismo, dei giovani, e soprattutto con la irrinunciabilità del protagonismo delle donne, che non hanno più paura degli uomini, e quindi vogliono la parità.
Vorrei terminare questo primo Vangelo esprimendo un augurio: liberarsi dalle paure. Il Male sta dove manca la speranza del Bene. Come diceva papa Giovanni, nella Pacem in terris: «Non ascoltate i profeti di sventura».

Don Andrea Gallo
Da Il Vangelo di un utopista, Aliberti Editore

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IL CONCILIO HA 50 ANNI

Il 5 dicembre 2012, presso la Chiesa S. Francesco d’Assisi si è tenuto l’incontro sul tema: “Il Concilio ha 50 anni. I testimoni, la Chiesa, la società“. Hanno preso parte al dibattito il maestro Ettore De Conciliis, autore del Murales della Pace che occupa tutta la parete alle spalle dell’altare e Mons. Luigi Bettazzi – uno degli ultimi Padri Conciliari ancora in vita – che in un’intervista a Repubblica affermava: «Nominato vescovo nel 1963, ho potuto partecipare alla seconda, terza e quarta sessione del Concilio. Assieme al cardinale Lercaro, ho avuto la fortuna di conoscere bene Giuseppe Dossetti … Mi chiamano in tanti, soprattutto per parlare di pace. E altri vogliono che io racconti loro il Concilio. Io allora ero il più giovane vescovo presente».
In questa pagina sono riportati i video dei due interventi; purtroppo la seconda parte dell’intervento di Mons. Bettazzi non è di buona qualità, perchè fatta con mezzi di emergenza.

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UN’UNICA FAMIGLIA UMANA

C’è un episodio che vorrei ricordarvi, che riguarda Einstein, lo scienziato. Einstein, ebreo, doveva lasciare la Germania perché era iniziata la persecuzione degli ebrei, dei rom, degli omosessuali. Arrivato all’ufficio immigrazione a New York, gli chiesero i documenti, e un funzionario gli domandò, quasi urlandogli contro: «Di che razza sei?»
Einstein lo guardò sorridendo e rispose: «Umana!»
Io sono un prete, sono un cattolico. Ma prima di tutto, come ogni mio fratello e sorella, appartengo alla razza umana. Ricordate il dibattito sulla questione del crocifisso nelle scuole? Qualche anno fa il movimento universitario leghista ha chiesto al rettore dell’Università di Bergamo l’urgente acquisto di crocifissi da appendere alle pareti delle aule dell’ateneo statale.
Si strepitava con orgoglio padano: «Il crocifisso è simbolo di valori cristiani, ultimo baluardo di fronte al fondamentalismo», come se fossimo alla vigilia di una guerra di religione, come se si stesse per partire per una battaglia di Lepanto.
Ma il crocifisso bisogna portarlo nel cuore o appenderlo ai muri di uno spazio pubblico, anche quando la sua presenza non esprime un sentimento condiviso? La fede è forse salva, in questo modo? Gesù, umile e mite di cuore, non si è mai imposto a nessuno, mentre noi abbiamo la pretesa di appenderlo sul muro delle classi e degli edifici pubblici.
Mi domando ancora: se in questi luoghi non c’è il crocifisso, un cattolico viene meno alla sua fede e forse è esentato dal praticare quotidianamente, tra i fratelli, i consigli evangelici? C’è vera relazione tra il crocifisso ostentato, magari con sentenza del magistrato, e la testimonianza cristiana?Il primato della parola di Dio esige che la Chiesa sappia far sorgere ambiti comunitari, luoghi di libertà, di presa di parola, di comunicazione fraterna, di ascolto dell’altro. Tutto quello starnazzare intorno al crocifisso è veramente sorto per difendere la croce del Vangelo? Non credo proprio!

Il cristiano, nel suo impegno sociale e politico, non creda di costruire il regno di Dio sulla Terra, tanto meno di edificare la città di Dio nella città dell’uomo: il cristiano deve trarre dal regno veniente i criteri di relativizzazione delle realtà quotidiane, la lucidità per il discernimento degli idoli, la distanza critica rispetto all’opera delle proprie mani, l’umiltà di chi si colloca accanto agli altri uomini, non in posizioni di superiorità.
La Repubblica italiana, con la sua Costituzione, è democratica, laica, antifascista (non è un optional, l’antifascismo, per nessun cittadino).
La decadenza della nostra classe politica (di sinistra, di centro, di destra) è preoccupante. Si potranno abrogare tutte le leggi (altre sono in arrivo), ma chi ci salverà da questa vergognosa decadenza da basso impero? Si vuole andare dallo Stato laico, ancora così imperfetto, allo Stato pluriteocratico? Quale ecumenismo si cerca? C’è veramente nell’aria uno Stato confessionale nuovo?
È necessario, oggi più che mai, aprire una riflessione, un vero approfondimento dei segni dei tempi, del nuovo millennio.
I cristiani, con gli altri uomini, riconoscendo di non aver nessun titolo che li abiliti più degli altri a tentare di realizzare qualunque progetto sociale, faranno la fatica della riproposizione, che non è imposizione, dei valori evangelici. Di tempo in tempo, di luogo in luogo, reinventeranno i segni di comunicazione e i segni del linguaggio culturale, ricercheranno una nuova antropologia in mezzo agli altri, apriranno cammini di giustizia e di pace, interculturali, interreligiosi e soprattutto democratici.
La Chiesa non ha bisogno di alleanze strategiche con i responsabili di una società alla deriva, incapace di governarsi, una società smarrita fondata sulla monopolizzazione della comunicazione, la cui arma principale è la menzogna.
L’obiettivo prioritario, a mio avviso, deve essere la lucida difesa della laicità di tutti: apparteniamo tutti a un’unica famiglia umana.
La libertà religiosa per tutti, e per me, prete cattolico, impedire che il pernicioso fascino di una religione civile abbia il sopravvento. Per questo le argomentazioni di chi vuol ridurre il crocifisso a simbolo ed emblema della cultura nazionale mi hanno provocato un’amarezza profonda.
Non sappiamo più «dare a Cesare quel che è di Cesare»… e lo vogliamo dare a Dio.
Sono queste le prospettive del mio cristianesimo?

Don Andrea Gallo
Da “Il Vangelo di un utopista“, Aliberti Editore

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ABRAMO: PADRE DELLA FEDE

Abramo in un quadro del Caravaggio

La Fede è un dono che va alimentato continuamente e, per farlo, è necessario confrontarci con le “fonti” della nostra Fede e, in particolare, con i Padri della Fede, il primo dei quali è il Patriarca Abramo.
La figura di Abramo inizia a comparire, nella Bibbia, dal 12° capitolo della Genesi.
Da questo punto in poi, la Genesi ci racconta vari episodi riguardanti la vita del nostro Patriarca.
Il primo incontro di Abramo con Dio avviene nella Terra di Sichem, dove, molto tempo dopo, Gesù incontrò la samaritana presso il pozzo di Giacobbe.
Il Signore chiede ad Abramo di partire verso una terra che non conosce, ma che sarà Lui stesso a mostrargli.
Dai dodici capitoli della Genesi, in cui si tratta della figura di Abramo, scaturisce la figura fragile del Patriarca, ma anche come Dio entra silenziosamente tra le trame della vita di ogni giorno.
Abramo è il “Padre della Fede”, perché è modello di come ci si pone dinanzi a Dio.
«Il Signore disse ad Abram: “Vàttene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra”» (Gen 12,1-3).
In questo brano Dio adopera un imperativo “vattene” a cui fa seguire una promessa che è più grande dell’imperativo. Dio, infatti, dice ad Abramo che, se si fiderà di Lui, sarà benedetto; non solo lui, ma tutte le genti.Perché Dio chiama Abramo? Abramo non aveva discendenza e Dio gli promette una discendenza; non aveva una terra e Dio gli promette una terra.
Al tempo in cui viveva Abramo, un uomo senza figli, né terra, non era nessuno, ma è Dio stesso che glieli offre, a patto che si fidi di Lui.
Dinanzi alla grandezza della promessa di Dio, Abramo trema, perché non crede sia possibile ciò che Dio gli sta’ promettendo; questo perché i suoi limiti non riescono a farlo abbandonare a Dio.
La Fede, però, è proprio questo: è un salto nel buio, nella piena fiducia in Dio.
«Dopo tali fatti, questa parola del Signore fu rivolta ad Abram in visione: «Non temere, Abram. Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande». Rispose Abram: «Mio Signore Dio, che mi darai? Io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Eliezer di Damasco». Soggiunse Abram: «Ecco a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà mio erede». Ed ecco gli fu rivolta questa parola dal Signore: «Non costui sarà il tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede». Poi lo condusse fuori e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza». Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia».(Gen 15,1-6)
Nel capitolo quindici della Genesi, Dio si presenta come lo scudo, la protezione di Abramo: senza scudo si è sconfitti.
Un po’ alla volta, il Signore mostra ad Abramo la storia che aveva scritto per Lui. Abramo scopre il disegno di Dio, giorno dopo giorno, cambiando ogni volta direzione al proprio cammino, fidando continuamente in Dio.
Gli anni, però, passano e la promessa di Dio ad Abramo non si realizza. Abramo ha paura e nomina Eliezer suo erede, nonostante Dio gli avesse promesse che avrebbe avuto come suo erede un suo discendente.
Dio interviene di nuovo nella vita di Abramo, confermando che non sarà Eliezer il suo successore e sarà Sara la madre del suo erede.
Questo cui fa riflettere su come i tempi del Signore non siano i nostri: Lui non si pone il problema del tempo!
A volte i tempi di Dio sono lunghi, mentre noi vorremmo immediatamente realizzate le nostre preghiere.
Allora Dio chiede ad Abramo di andare oltre i suoi limiti umani e di avere fiducia, perché le sue promesse saranno realizzate.
Abramo, allora, credette ancora nel Signore: così la nostra fiducia in Dio si rinnova giorno dopo giorno.

Da una formazione di p. Gianluca Manganelli




IL MIO DIO SI CHIAMA LIBERTÀ

Teologo e filosofo, Vito Mancuso è anche uno scrittore che sa come  dialogare con i lettori, credenti e non credenti. I suoi libri vendono decine di migliaia di copie, diventando veri e propri casi editoriali e  dimostrando che  c’è “ una domanda di spiritualità molto forte nel nostro paese alla quale l’offerta della religione tradizionale per molti aspetti non riesce ad andare incontro”(Mancuso) .

E’ stato definito  «il teologo che vuole rifondare la fede»  per le sue posizioni non sempre allineate con le gerarchie ecclesiastiche. Qui parla del suo ultimo libro, in una intervista  rilasciata in occasione della consegna di  un premio letterario.

 Vito Mancuso è a Reggio Calabria, vincitore del Premio Rhegium Julii “I.Falcomatà” dedicato alla saggistica con il volume Obbedienza e libertà. Parlare con Mancuso è immergersi nei suoi silenzi, disimparare le regole ordinarie di conversazione per reimpararne di nuove, seguendo un ritmo meno sincopato, più ampio, disteso, profondo.

Nel volume afferma che la sua è una teologia laica: potrebbe sembrare un ossimoro…

La laicità non è uno stato della persona: ci sono dei preti o dei monaci perfettamente laici e viceversa dei laici perfettamente clericali o anticlericali (la stessa cosa in positivo o negativo). La teologia laica è quella modalità di intendere e sviluppare il discorso teologico non per appartenere a una istituzione, quindi non per essere funzionale a una struttura di potere, ma per servire la verità per se stessa, così come si manifesta nella coscienza umana. E’ una teologia che si potrebbe esemplificare con la frase di Albert Schweitzer, “la sincerità è il fondamento della vita spirituale”: una teologia che ama la verità e da questo amore prende il coraggio di fare emergere tutte le aporie del discorso tradizionale, cercando di risolverle e sapendo che solo così si può servire la coscienza contemporanea…

Scrive che la verità libera quando ci si chiede continuamente che cos’è la verità… però la teologia di fatto nasce per dare una risposta a questa domanda…oppure no?

Io penso di no. Penso che il centro del Vangelo, dove Gesù dice “Io sono la verità”, mostri che la verità non vada intesa come un contenuto (perché altrimenti non avrebbe nessun senso che un essere umano dica: “Io sono la verità”), ma come metodo. “Io sono la via, la verità e la vita”: la verità è al centro, della via e della vita, è un metodo. Solo così si capisce la fede.  In un altro passo del Vangelo Gesù dice: “Chi fa la verità viene alla luce”. Anche qui la verità non è un contenuto, perché un contenuto lo si dichiara, lo si professa, non lo si “fa”. La verità (radice di veritas in latino è la stessa di primavera) è un metodo in grado di far fiorire la vita, di fare sì che le cose, e l’energia primordiale di cui noi consistiamo, si dispongano in modo tale da creare maggiore organizzazione: vitale, mentale, spirituale. Questa concezione legata alla prassi è precisamente la concezione evangelica: il cristianesimo non è nato per servire un sistema dottrinale, anzi il fondatore del cristianesimo è stato messo a morte perché considerato una minaccia per un preciso sistema politico-dottrinale. Il cristianesimo nel suo nucleo originale ha potuto sorgere e svilupparsi proprio per questa disposizione metodologica: io mi dispongo nella vita in modo tale da ricercare sempre qual è il punto di vista per servire la verità, e per fare questo sono disposto anche a infrangere alcuni dogmi, alcune usanze, alcune dottrine, come faceva Gesù quando violava il sabato o le leggi di purità rituale e così via…

Però a questo punto la verità diventa un telos, un obiettivo da raggiungere, a cui tendere,  ma che non si raggiunge mai…

Si raggiunge sempre ma non si può mai definire, concludere. Se la verità è la logica della vita, ogni situazione ha una logica che la rende vera. In questo momento, stiamo facendo un’intervista: esiste una logica del nostro discorso? La stiamo servendo? Siamo in una situazione autentica? Io ritengo di sì. In questo momento stiamo facendo la verità. La stiamo definendo? No, perché dopo di questo incontro ce ne saranno altri, etc… e ogni volta dovremmo cercare la logica mentale e operativa in base alla quale disporsi. Non è una formula in base alla quale uno possa pensare di possederla.

Il punto fermo però, in questa analisi e nel libro, è l’oggettività del bene, cioè il bene definibile universalmente cercando dentro la coscienza , quindi la capacità dell’uomo in quanto tale di sapere riconoscere “naturalmente” il bene…

Esatto. C’è bisogno di fidarsi dell’istinto naturale di cui siamo formati, perché la logica che ha portato all’esistenza il nostro corpo e che lo mantiene è la logica dell’armonia relazionale, tra le componenti subatomiche, poi atomiche,  molecolari e così via. Il fondo del mio pensiero è il principio della relazione: uno deve semplicemente essere fedele a questa logica e trasmetterla al di fuori di sé. La religione, intesa come religio, legame, è in funzione di questo, armonia attraverso la relazione, dentro di sé, tra se stessi e gli altri, tra se stessi e la natura. Ai ragazzi del liceo (lo scrittore ha incontrato gli studenti del Campanella, ndr) ho chiesto:  la famosa frase kantiana, “Due cose riempiono la mia anima: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me” rimanda a una sola realtà o a due realtà? La legge morale dentro di me è della stessa pasta del cielo stellato sopra di me? Qui ci sono diverse scuole ma la religione è quella disposizione della mente e del cuore che ti fa capire che quanto più sei fedele alla legge morale dentro di te tanto più sei fedele alla legge cosmica che ti ha portato all’esistenza, e viceversa. Questa è la religio. Un’unione tra me e il cosmo.

Nel volume parla del postmodernismo come una sorta di neopaganesimo. Eppure, la concezione antidottrinale della verità cui fa riferimento  mi fa venire in mente, per assurdo forse, quella espressa da Eco ne “Il nome della rosa” (“Forse il compito di chi ama gli uomini é di far ridere della verità, fare ridere la verità, perché l’unica verità è imparare a liberarci dalla passione insana per la verità)

Beh, la concezione che ho della verità, identificazione della legge cosmica che ci pervade e informa l’energia e che è stata individuata nelle diverse tradizioni con nomi diversi, più che alla contemporaneità la vedo affine ad una dimensione classica. Se per paganesimo si intende questa dimensione, quindi non l’accezione comune (cancellazione di ogni riferimento trascendente, immoralismo etc) ma un discorso che partendo dalla realtà materiale vuole condurre un rigoroso discorso spirituale io non vedo contraddizione, anzi, probabilmente aggiungo che in quello che definivi postmodernismo, che è la condizione in cui ci muoviamo, il bisogno fondamentale della coscienza umana sia quello di giungere a sanare la frattura scientifica/materiale e umanistica/spirituale. Se devo dare una spiegazione dell’attenzione che vedo attorno a quello che scrivo è perché probabilmente la gente vede che questa frattura viene ricucita.

Alla fine però non abbandona la dimensione gerarchica della Chiesa. Tutto quello che dice, scrive, sembra condurre più ad una dimensione orizzontale, reticolare, e invece lei mantiene quella gerarchica…

Noi viviamo di dimensione orizzontale e verticale. Non esiste nulla (che conosca io) in natura che prescinda da una gerarchia: la natura non conosce nulla che non abbia una funzione gerarchica. Questo però non significa cadere nel verticismo, nell’autoritarismo,  significa capire che ci sono dei sistemi gerarchicamente configurati, tali solo nella misura in cui ascoltano le dinamiche orizzontali. Io sono un figlio spirituale del card. Martini: è stato il mio punto di riferimento, con il quale avevo un rapporto vivo, intenso ma asimmetrico, un rapporto in cui lui mi dava del tu e io del lei. Io ho avuto beneficio da questo rapporto, soprattutto nella mia giovane età, perché avevo bisogno di una guida, di un supporto, e ancora adesso ne ho bisogno.  Ho sempre aderito a questa guida perché non era una guida che imponeva se stessa ma che diceva l’ultima parola dopo avere ascoltato la prima, la seconda, l’ennesima, una parola che sorgeva dalla sintesi, dall’ascolto, dal discernimento.  Quindi io ritengo che la struttura verticale, non verticista, sia qualcosa di positivo: ha un fondamento naturale ed anche biblico. Gesù sceglieva: c’erano le folle, i 72 discepoli,  i 12 discepoli, i 3 preferiti, e poi uno solo, Pietro o Giovanni a seconda delle scuole… Ma deve essere una gerarchia tale che chi sta sopra stia in funzione del basso:  va cambiato proprio il flusso di energia, dal basso verso l’alto e non viceversa.

In questo senso pensa che il Sud del mondo possa dare un contributo?

Sì. Ed è una bella domanda questa. Penso che soprattutto il sud del mondo possa fare scaturire questo. Purtroppo c’è da dire che quando tentava di emergere, soprattutto attraverso la Teologia della Liberazione, il vertice verticista ha fatto di tutto per soffocarla e di fatto c’è riuscito. Adesso dobbiamo combattere per la liberazione della teologia.

Poi sorride. E sembra il sorriso di Siddharta. Der suchende. Colui che cerca.

Intervista di Josephine Condemi

Tratto da: A Vito Mancuso il premio Rhegium Julii “I.Falcomatà”




Le storie di Diario italiano del 01/11/2012

L’argomento di questa puntata delle storie di “Diario Italiano” sono Francesco e Chiara d’Assisi, visti da una prospettiva diversa che troppo spesso accantoniamo, perchè scomoda, a causa della radicalità che richiederebbe alla nostra vita.
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