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VITO MANCUSO E DON ANDREA GALLO A “CHE TEMPO CHE FA”

VITO MANCUSO E DON ANDREA GALLO A “CHE TEMPO CHE FA”

DAL SITO RAI




NEL NOME UNA MISSIONE

jorge-bergoglio-papa-francescoNEL NOME UNA MISSIONE. Forse è la volta buona. Forse oggi, a distanza di mezzo secolo, il rinnovamento all’insegna del Vangelo che papa Giovanni XXIII e il Vaticano II avevano voluto e intrapreso, può finalmente diventare realtà. Forse i cardinali elettori hanno veramente ascoltato lo Spirito Santo, operazione che non contiene nulla di magico, ma è solo la pura disposizione della mente e del cuore a volere sempre e solo il bene, perché quando un uomo dispone la sua mente e il suo cuore nella ricerca del bene lo Spirito della santità agisce in lui, sia egli credente o non credente. E questo io sento che i cardinali elettori hanno fatto, allontanando ogni calcolo politico o diplomatico, ogni ragionamento all’insegna del potere, e scegliendo un uomo di Dio. Si è trattato di una scelta assolutamente inaspettata, il nome di Jorge Mario Bergoglio non figurava quasi mai tra le liste dei principali papabili. Ma si è trattato soprattutto di una scelta completamente innovativa: da ieri abbiamo il primo papa non europeo, il primo papa latino-americano, il primo papa che ha scelto di presentarsi al mondo come “vescovo di Roma” e soprattutto il primo papa che ha scelto di chiamarsi Francesco…. Nell’unione di queste quattro assolute novità, unite alla preghiera che ha da subito caratterizzato la sua prima apparizione da papa, io intravedo quella speranza di rinnovamento all’insegna del Vaticano II che Francesco I può realizzare e di cui la Chiesa ha un immenso bisogno. Né si può tacere il fatto che Bergoglio nel Conclave del 2005 fu il principale antagonista di Ratzinger: i cardinali elettori quindi non solo non hanno scelto un ratzingeriano di ferro come Scola o come Schönborn, ma hanno scelto colui che a Ratzinger contese la maggioranza dei voti in Conclave. Questa scelta contiene un giudizio non del tutto positivo sugli otto anni di pontificato dell’attuale papa emerito. Ma ciò che maggiormente colpisce è il nome che il nuovo pontefice ha scelto per sé. Che cosa significa aver deciso di chiamarsi Francesco? Bergoglio non è un francescano, è un gesuita e se avesse seguito il suo cuore avrebbe dovuto chiamarsi Ignazio, visto che è sant’Ignazio di Loyola il fondatore dei gesuiti. Ma egli ha scelto di chiamarsi Francesco, sottolineando con questo non la sua storia personale (anche se chi lo conosce racconta che vive da sempre in assoluta semplicità, lontano dal lusso che la qualifica di arcivescovo di Buenos Aires gli permetterebbe) ma l’intento animatore del suo programma di governo all’insegna della testimonianza profetica e della radicalità evangelica. Francesco è il santo che più di ogni altro nel secondo millennio cristiano ha rappresentato l’ideale della purezza evangelica, l’ideale di vivere le beatitudini, lontano dalle seduzioni del potere e della gloria. Penso che tutti abbiano in mente l’affresco di Giotto nella Basilica superiore di Assisi che rappresenta il sogno di Innocenzo III: egli vede un uomo vestito con un semplice saio che sorregge una chiesa che sta per cadere,e ovviamente quell’uomo è Francesco il poverello di Dio, di cui a Innocenzo III in sogno viene anticipata la venuta. Ora a nessuno è dato sapere che cosa abbia sognato in queste notti Jorge Mario Bergoglio quando sentiva approssimarsi la scelta dei cardinali elettori su di lui, ma certamente il fatto che egli abbia scelto di chiamarsi Francesco indica nel modo più esplicito la sua chiara percezione della gravità della situazione che la Chiesa cattolica sta vivendo e soprattutto la sua convinzione riguardo alla via per uscirne: la radicalità evangelica, la povertà, la mitezza, la lontananza dal potere, l’amore per ogni uomo e per gli animali, la cura per tutto il creato. Il primo, indispensabile passo che la Chiesa deve compiere è tornare a credere al Vangelo anzitutto nelle sue strutture di comando: l’evangelizzazione, prima di riguardare il mondo, riguarda la gerarchia della Chiesa, in primo luogo la Curia, e dalla scelta effettuata sembra che i cardinali abbiano capito alla perfezione tutto ciò e abbiano individuato chi, tra di loro, era l’uomo giusto per questa svolta all’insegna della mitezza e insieme del rigore. Ieri, sentendo parlare per la prima volta il nuovo papa, mi ha molto colpito il suo rivolgersi ai fedeli e al mondo chiamandosi più di una volta “vescovo di Roma”. Anzi si può dire che ieri sera Bergoglio non si è presentato al mondo, infatti non ha detto una sola parola in spagnolo per la sua terra, non ha detto una sola parola in inglese rivolgendosi alla mondovisione. Si è presentato solo alla sua diocesi, alla città di Roma, e non a caso ha fatto il nome del suo vicario per la città, il cardinal Vallini, volendolo accanto a sé sul balcone. Questo è molto importante. Mostra infatti che le indicazioni del Vaticano II e soprattutto del Nuovo Testamento sono quanto mai chiare a papa Francesco I. Da papa egli vuole anzitutto essere un vescovo, il vescovo di una città, e anzi sa che può essere veramente papa in fedeltà al Vangelo e al Vaticano II solo nella misura in cui non cesserà mai di essere vescovo, cioè una guida concreta a contatto con i problemi reali della gente reale. Bergoglio è un gesuita, è mite e insieme austero, amante della semplicità, della povertà, di una vita all’insegna dell’essenziale, privo di decorazioni barocche e dal linguaggio semplice e asciutto. Assomiglia molto a Carlo Maria Martini, di cui certamente era amico. E forse quei 200 anni con cui Martini nella sua ultima profetica intervista dell’8 agosto scorso segnò la distanza tra la Chiesa e il mondo («la Chiesa è rimasta indietro di 200 anni») con Francesco I sono destinati a essere colmati.

Vito Mancuso, La Repubblica 14 marzo 2013

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SPIRITUALITÀ IGNAZIANA E CARISMA FRANCESCANO

papa Francesco
papa Francesco

Un figlio di sant’Ignazio di nome Francesco. Anche questo singolare accostamento fa parte della pacata sorpresa costituita dall’elezione del cardinal Bergoglio a vescovo di Roma. Un gesuita – il primo della storia – eletto successore di Pietro che sceglie come nome quello del santo di Assisi, con un’audacia evangelica che nemmeno i quattro papi francescani di un passato ormai lontano avevano osato intraprendere. Ma cosa accomuna spiritualità ignaziana e carisma francescano? Una risposta esauriente l’avremo certamente dal ministero petrino che si è inaugurato la sera del 13 marzo, ma qualcosa può già essere detto.
Innanzitutto credo che in Ignazio di Loyola come in Francesco d’Assisi ci sia l’esigenza e la capacità di andare all’essenziale, al cuore del messaggio evangelico: con l’adesione alla Parola di Dio, l’obbedienza alla sua autorità, al suo essere regola di vita e di comportamento. Tutto il resto – carismi, studi, strumenti, parole e gesti – le deve essere subordinato per poter imitare Cristo, per seguire Gesù ovunque lui vada e chieda ai suoi discepoli di andare. Da questo ascolto prioritario e amoroso della Scrittura, da questo rapporto quotidiano con il Vangelo nella sua nudità nascono la saldezza e il discernimento per andare ad annunciare la buona notizia a tutti: senza venir meno di fronte alle difficoltà e alle situazioni più estreme, senza lasciarsi distrarre da scopi secondari, senza confusioni tra volontà propria e volontà di Dio.
Poi, strettamente legata a questo, un’ardente passione per la missione, per farsi “Cristofori”, portatori di Cristo là dove egli desidera essere portato: tra i saraceni come agli estremi confini della terra d’oriente come d’occidente, accogliendo e capendo le diverse culture o parlando il linguaggio universale della semplicità disarmata. E, in questo andare verso i lontani, la capacità di restare saldamente radicati alla propria identità evangelica, al prezzo di una solitudine di frontiera per i figli di sant’Ignazio o della radiosa povertà dei discepoli mandati a due a due senza denaro né bisaccia per i seguaci del santo di Assisi.Ma un altro elemento, ancor più manifesto, unisce la spiritualità ignaziana al nome di Francesco, ed è Francesco Saverio, uno dei primi compagni di Ignazio di Loyola, missionario nelle estreme terre dell’Asia, capace di intuire la sfida appassionante che le genti di oriente portano alla corsa della Parola di Dio, uomo di frontiera disposto a morire come chicco di grano perché il seme del Vangelo potesse germinare anche in terre così feconde e lontane.
Sono tutti tratti che ritroviamo fin dai primi gesti di papa Francesco e, ancor prima, nella scelta del suo motto episcopale: “Miserando et eligendo”, avere compassione, chinarsi sui miseri e scegliere, chiamare alla sequela di Cristo. Così non sorprende che Francesco – l’unicità del suo nome da papa lo spoglia anche dell’attributo “regale” del numero ordinario – alla prima uscita nella chiesa di Santa Maria Maggiore chieda come prima cosa di “lasciare aperta la chiesa” perché possa entrare tutta la gente semplice, pellegrini come lui, e poi, rivolto a quanti vi esercitano il ministero della confessione, insista per ben tre volte a usare misericordia. Sì, sono questo camminare insieme con il popolo cristiano, questo fare syn-odos, “cammino insieme” vescovo e popolo, e l’uso della misericordia, la “medicina” indicata già da papa Giovanni per la chiesa, questo “cuore per i miseri”, questa elezione dei piccoli e dei poveri che paiono già caratterizzare inequivocabilmente il ministero del sorprendente gesuita di nome Francesco.

ENZO BIANCHI: La nuda missione – Avvenire, 15 marzo 2012

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HABEMUS PAPAM

papa FrancescoHABEMUS PAPAM. Dopo 13 giorni, quasi esatti, di sede vacante, abbiamo il nuovo Papa: il Cardinale Jorge Mario Bergoglio che da ieri sera sarà papa Francesco.
Facciamo, però, un piccolo passo indietro.
Alle ore 18 del giorno 13 marzo ero presso una consorella presso cui la fraternità Ofs di Mercogliano si era riunita – vista la sua impossibilità a spostarsi – per un incontro di formazione.
Dopo una parte introduttiva ci eravamo divisi in due gruppi di studio, per un approfondimento del Vangelo. Nella stanza in cui stavo io c’era acceso un piccolo televisore, di quelli vecchi, con un’inquadratura fissa sul comignolo più osservato al mondo, della serie: “non si sa mai!”.
All’improvviso, durante la discussione, ho girato lo sguardo verso il televisore e ho visto che il comignolo iniziava a fumare, però il televisore un po’ datato mi aveva dato l’impressione che fosse una fumata nera e quindi ho detto: “non hanno fatto ancora niente!”. Invece dalle immagini fisse si era passati ad un’euforia che riuscivamo a percepire anche senza audio.
Allora sono corso nell’altra stanza, dove erano riunite le altre consorelle e ho annunciato: “hanno eletto il papa!”.
E’ sembrato che ci fosse stata un scossa di terremoto, abbiamo tutti raccolto le nostre cose e, frettolosamente, ho chiuso la riunione, per dare a tutti l’opportunità di seguire davanti al proprio televisore e con la propria famiglia, le fasi emozionanti del dopo conclave.La strada del ritorno a casa l’ho fatta con un po’ di frenesia, nella speranza di non perdere l’annuncio del nuovo papa.
Arrivato a casa ho visto tutta la famiglia in fermento, soprattutto i bambini che non sapevano nemmeno di cosa si trattasse!
Purtroppo non c’era, in quel momento, Natalia, con cui avrei voluto condividere l’emozione del momento.
Finalmente, dopo oltre un’ora dalla fumata bianca, si è affacciato al balcone di Piazza S. Pietro il cardinale protodiacono Jean-Louis Pierre Tauran e qui è iniziata la grande emozione. In un primo momento sono rimasto un po’ disorientato, perchè non conoscevo affatto il nome di questo Cardinale appena nominato Papa:Jorge Mario Bergoglio; quando, però, ha letto il nome con cui si sarebbe chiamato da Papa: Francesco, ho sentito un’emozione fortissima.
Non ci potevo credere che il poverello d’Assisi, dopo circa 800 anni fosse stato nuovamente chiamato a riparare la “Casa” del Signore.
Il nome era già tutto un programma: povertà, semplicità, amore verso gli ultimi, tutti lo abbiamo letto in quest’ottica ed è questo quello che il mondo chiedeva alla Chiesa, oggi.
Poi, è apparso lui. Una figura paterna ma, soprattutto, semplice, la cui dolcezza si è avvertita già dalle prime parole. La cosa che più mi ha colpito è che non si è mai definito “papa”, ma sempre vescovo di Roma e che non ha messo nessun paramento speciale.
Mi sono emozionato anche quando ha pregato per il papa emerito: Joseph Ratzinger e ha chiesto a tutti i fedeli di pregare per lui e per tutta la Chiesa.
E’ stato tutto molto bello ed emozionante e, speriamo che “Francesco” riesca a risollevare le vicende di nostra madre Chiesa, anche se questo non dipende solo da lui, ma richiede la collaborazione di tutti noi fedeli.
Da ieri sera, ormai, le trasmissioni e le notizie sul nuovo Papa scorrono a fiumi e, grazie alle nuove tecnologie, conosciamo già “morte e miracoli” di lui, ma io non sto’ leggendo nulla mi piace imparare a conoscerlo per quello che farà da questo momento in poi.
La prima cosa bella l’ha già fatta, chiamandosi Francesco! Come dicevo prima, un nome che è già un programma, come lo era stata la scelta di “Benedetto”, per il papa precedente, più concentrato sulla lotta al relativismo.
Ho sentito qualcuno che sosteneva che il nome Francesco non fosse solo riferito al “nostro” padre serafico, ma anche a S. Francesco Saverio, gesuita e amico di Ignazio di Loyola. Io, invece, credo che il papa scegliendo il suo nome ha voluto dare anche un messaggio al mondo e sa benissimo che se dice Francesco, nessuno penserebbe a Francesco Saverio…
Dicono che sia, Francesco, un papa progressista, ma sono tante le cose che si dicono. La cosa certa è che sento maggior entusiasmo di quando fu eletto papa Benedetto XVI, speriamo che non sia tutta apparenza!
S. Francesco lo accompagni in tutto il suo servizio alla nostra Madre Chiesa e insegni noi ad amarlo e ad aiutarlo nella sua missione nel mondo.
Pace e bene.
Ciro




IL CONCLAVE

conclaveQuesto pomeriggio, dopo la messa “pro eligendo” della mattina, è iniziato il Conclave che eleggerà il nuovo Pontefice. Possiamo, certamente, considerare questo come un evento eccezionale, non solo per noi fedeli, ma soprattutto per il mondo dell’informazione che ne trarrà i suoi benefici.
All’improvviso tutti sono interessati a quello che accade nella Chiesa, curiosando con telecamere e altre diavolerie, per setacciare gli “uomini” ai raggi X, giudicandoli secondo il personale metro di giudizio che propinano a un’opinione pubblica sempre più conformista e, quindi, incapace di farsi una propria idea.
Quando la Chiesa si affaccia sulla vita dell’uomo viene subito respinta nel suo recinto, perché la vita quotidiana non ha nulla a che fare con la preghiera, per questo la fede non può intralciare la vita sociale. Oggi inizia il Conclave per eleggere un nuovo Papa e, ne sono certo, a molti di noi saranno i mezzi d’informazione a dire se sarà un buon Pastore o meno. La sua “scheda” è già pronta in qualche archivio pronta ad essere lanciata in pasto alla massa.
Noi, però, non lasciamoci condizionare dai giudizi che altri possono dare sul nostro futuro Pastore. Amiamolo fin dal primo giorno, perchè lo Spirito santo ce lo avrà donato. Preghiamo per Lui, perchè Benedetto XVI ci ha aperto gli occhi sulla difficoltà a guidare la Chiesa di Cristo del terzo millennio.
In particolare noi, Francescani secolari, aiutiamolo a sorreggere, con le nostre spalle il peso della sua che, poi, è anche la nostra missione, certi che stiamo camminando tutti verso la stessa meta, accompagnati dalla luce dello Spirito Santo che raddrizza ogni nostra stortura.
Pace e Bene

Ciro

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SENZA PASTORE

papa_benedetto_xvi_a_milanoSanto Padre, quando il mio collega di lavoro, dall’altra parte della parete che separa il mio ufficio dal suo, mi annunciava delle tue dimissioni, ho creduto fosse uno scherzo.
Nonostante ciò, ho avviato internet, per avere una conferma che fosse solo una bufala e, riprendere, così, il mio lavoro dove l’avevo lasciato.
Mi sono collegato al sito www.repubblica.it e ho avuto come un tuffo al cuore, nel verificare che, invece, era tutto vero.
Tante sono state le ipotesi di chi, come me, cercava di spiegarsi il perché di questo gesto così “grave”: gli scandali, lo stato di salute del papa, la corruzione nella Chiesa …
La mia prima reazione, però, non è stata quella di indagare, per capire il perché, ma di condivisione per il dolore che stava dietro a quella decisione.
Un papa che si dimette non si vede tutti i giorni, anzi, con l’esempio di Giovanni Paolo II ero sempre più abituato all’idea che il papa rimane pastore della sua Chiesa, fino all’ultimo giorno della sua vita.
Da quel giorno, ogni volta che pensavo a Benedetto XVI, sentivo un senso di sofferenza nel cuore, come sapere di una persona cara che vive tra la vita e la morte, nella stanza di un ospedale.
Chissà da quanto tempo si portava questo dolore nel cuore e come ha fatto a convivere con questa sua sofferenza?
Noi siamo abituati ad apprezzare solo la sofferenza esteriore – per noi Giovanni Paolo II è stato un grande testimone, perché ha servito Cristo, anche quando non ne aveva più le forze, – e la sofferenza di Benedetto XVI?
Quante volte avrà chiesto al suo e nostro “Datore di lavoro”: Signore cosa vuoi che io faccia?
E chi lo avrebbe aiutato o compreso? Chi avrebbe potuto consigliarlo?
Ha vissuto tutto questo tempo, solo, con la sofferenza nel cuore, senza poterla condividere con nessuno.
Qualche tempo fa ho visto il film di Nanni Moretti: “Habemus Papam” che qualche giornalista ha subito collegato a questi ultimi eventi.Questo film mi è piaciuto, perché raccontava l’umanità di un papa che non si sentiva adeguato al ruolo di guida della Chiesa e già allora ho provato tanta tenerezza, per quello che, in fondo, era solo un uomo.
In questi ultimi giorni, ho pregato tanto per Benedetto XVI, ma anche per tutti noi.
Credo, infatti, che quanto accaduto sia un segno di Dio che ci chiede di ravvederci, perché in quella “barca” ci siamo anche noi e, se facessimo un profondo esame di coscienza, forse tutti noi dovremmo dimetterci dal nostro ruolo di “cristiani”, perché inadeguati, o, perché stiamo sbagliando direzione.
Le dimissioni del “nostro” papa non devono ridursi a un grande fenomeno mediatico, ma un’occasione di profonda riflessione per tutta la Chiesa, come istituzione e come popolo di Dio; non può tutto finire nel detto: “Morto un papa se ne fa un altro”.
Forse è proprio questa la differenza: se questo papa fosse arrivato alla fine dei suoi giorni, naturalmente, non sarebbe successo nulla di particolare, se non l’avviarsi di determinate procedure, per eleggere un nuovo pontefice. Con le sue dimissioni, invece, niente più sarà uguale a prima.
Ratzinger ha aperto una porta che alti papi attraverseranno? E che influenza avrà il mondo esterno nel condizionare un papa, per indurlo a dimettersi?
Solo il tempo, forse, potrà darci delle risposte, la cosa certa, però, è che da ieri sera, siamo tutti un po’ più soli; siamo come pecore senza pastore.
Preghiamo, allora, perché da questo tempo di profonda sofferenza possa rinascere una Chiesa rinnovata, testimone più credibile dell’amore di Cristo per l’umanità.

Pace e bene.
Ciro d’Argenio

 




I DUE PONTEFICI IN VATICANO

Benedetto-XVILa scelta laica di Benedetto XVI. Con le sue dimissioni il Pontefice segna la distinzione tra “fare” ed “essere” Papa.

A partire da Pasqua la Chiesa cattolica avrà due papi, uno solo de facto, ma tutt’e due de iure? A parte il celebre caso di Celestino V e Bonifacio VIII alla fine del Duecento, una situazione del genere non si era mai verificata in duemila anni di storia, senza considerare che papa Celestino passò il tempo da ex-papa prima ramingo e poi imprigionato a molta distanza da Roma, mentre Benedetto XVI continuerà ad abitare in Vaticano a poche centinaia di metri dal successore.
Costituirà per lui un’ombra o una sorgente di luce e di ispirazione? Ovviamente nessuno lo sa, neppure lo stesso Benedetto XVI, il quale certamente è una persona discreta e assai rispettosa delle forme, ma il cui peso intellettuale e spirituale non può non esercitare una pressione su chiunque sarà a prendere il suo posto. Una cosa però deve essere chiara: a Pasqua non ci saranno due papi, ma uno solo, perché Joseph Ratzinger non sarà più vescovo di Roma ed essere papa significa prima di tutto ed essenzialmente essere “vescovo di Roma”…
L’inedita situazione determinata dalle dimissioni di Benedetto XVI è di grande aiuto per comprendere che cosa significa veramente fare il papa. Fino a ieri “essere papa” e “fare il papa” era la medesima cosa. Fino a ieri la persona e il ruolo si identificavano, non c’era soluzione di continuità, ed anzi, se tra le due dimensioni doveva prevalerne una, era certamente quella di “essere papa” a prevalere, facendo passare in secondo piano il fatto di avere o no le piene possibilità di poterlo fare. Tutti ricordano, ai tempi della conclamata malattia di Giovanni Paolo II, le ripetute assicurazioni della Sala stampa vaticana sulle sue condizioni di salute. Giovanni Paolo II non poteva più fare il papa, ma lo era, e ciò bastava. Prevaleva la dimensione sacrale, legata all’essenza, al carisma, allo status, all’essere papa a prescindere anche dal proprio corpo. E non a caso Giovanni Paolo II, quando qualcuno gli prospettava l’ipotesi delle dimissioni, era solito ripetere che «dalla croce non si scende». Benedetto XVI vuole forse scendere dalla croce? No, si tratta di altro, semplicemente del fatto che egli ha prima riconosciuto dentro di sé e poi ha dichiarato pubblicamente che il calo progressivo delle forze fisiche e psichiche non gli permette più di “fare il papa” e quindi intende cessare di “essere papa”. La funzione ha avuto la meglio sull’essenza, il ruolo sull’identità. Io aggiungo che la laicità ha avuto la meglio sulla sacralità.
Si è trattato infatti di una decisione laica, perché opera una distinzione, e laddove c’è distinzione, c’è laicità. La distinzione tra la persona e il ruolo introdotta ieri da Benedetto XVI con le sue dimissioni si concretizza in queste parole dette in latino ai cardinali: «Le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino». C’è un ministero, una funzione, un ruolo, un servizio, che ha la priorità rispetto all’identità della persona.
La parola decisiva nell’annuncio papale di ieri è però un’altra, la seguente: «Nel mondo di oggi». Ecco le sue parole: «Nel mondo di oggi per governare la barca di san Pietro è necessario anche il vigore sia del corpo sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito». Nel mondo di ieri, fa intendere Benedetto XVI, la distinzione tra persona e ruolo poteva ancora non emergere e un Joseph Ratzinger indebolito avrebbe ancora potuto continuare a svolgere il ruolo di Benedetto XVI. Nel mondo di oggi, invece, non è più così. Io considero queste parole non solo una grande lezione di auto-consapevolezza e di laicità, ma anche una grande occasione di ripensamento per il governo della Chiesa. Le dimissioni di Benedetto XVI possono condurre a una riforma della concezione monarchica e sacrale del papato nata nel Medioevo, e riprendere la concezione più aperta e funzionale che il ruolo del papa aveva nei primi secoli cristiani?
È difficile che ciò avvenga, ma rimane l’urgenza di rimettere al centro del governo della Chiesa la spiritualità del Nuovo Testamento, passando da una concezione che assegna al papato un potere assoluto e solitario, a una concezione più aperta e capace di far vivere nella quotidianità il metodo conciliare. Non si tratta infatti solo delle condizioni di salute di Joseph Ratzinger che vengono meno. Occorre procedere oltre e giungere a porsi l’inevitabile interrogativo: “nel mondo di oggi” è in grado un unico uomo di guidare la barca di Pietro? Si obietterà che il papa non è solo, ma è circondato da numerosi collaboratori. Ma si tratta di collaboratori ossequienti, spesso scelti tra plaudenti yes-men e senza capacità di istituire un vero confronto e una serrata dialettica interna, condizioni indispensabili per assumere decisioni in grado di far navigare la barca di Pietro “nel mondo di oggi”. All’inizio però non era così. San Pietro aveva certamente un ruolo di guida nella prima comunità, come si apprende dal libro degli Atti, ma non esercitava tale funzione con potere assoluto, perché altrimenti non si capirebbe il concilio tenutosi a Gerusalemme verso l’anno 50 e l’aperta opposizione di San Paolo verso di lui nell’episodio di Antiochia.
L’annuncio papale di ieri è avvenuto nel contesto di alcune canonizzazioni, una delle quali riguardava i Martiri di Otranto, gli 800 cristiani uccisi dagli ottomani nel 1480 per non aver rinnegato la fede. Martirio è testimonianza. La tradizione della Chiesa però oltre al martirio rosso del sangue versato conosce il martirio verde della vita itinerante per l’apostolato e il martirio bianco per l’abbandono di tutti i propri beni. Nel caso di Benedetto XVI abbiamo a che fare con un martirio-testimonianza di altro colore, quello del riconoscimento della propria debolezza, della propria incapacità, del proprio non essere all’altezza. È la fine di una modalità di intendere il papato, e può essere la nascita di qualcosa di nuovo.

Vito Mancuso, La Repubblica 12 Febbraio 2013

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ANNIVERSARIO P. INNOCENZO MASSARO

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Domenica 9 settembre 2012, alle ore 11, presso la Chiesa S. Maria del Roseto di Avellino, è stato celebrato il primo anniversario della nascita al cielo di P. Innocenzo Massaro, frate cappuccino.
La solenne liturgia è stata celebrata con la partecipazione commossa di tutta la comunità che, ancora una volta, ha voluto dimostrare tutto il suo affetto per il frate fondatore dell’Opera Sociale Roseto.
La liturgia è stata resa ancora più intensa dai canti con cui la “schola cantorum”, come amava chiamarla lui, – al secolo la Gi.Fra. e l’Ofs – ha animato la S. Messa e particolarmente commovente è stato il canto “Al Signore canterò” che P. Innocenzo amava tanto.
Durante l’offertorio, sono stati portati all’altare alcuni degli oggetti che lo avevano accompagnato nella sua vita, come il breviario, la corona del Rosario, il suo cappotto …
Al termine della Liturgia è stata scoperta, in suo onore, una lapide dove è riportato un suo scritto in cui dice: «Guardate alla storia del Roseto, sembra di assistere ad un meraviglioso concerto al quale hanno partecipato moltissimi uomini, tutti diretti e guidati da un grande e invisibile Maestro: il Signore».

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FESTA DEL ROSETO

Sabato 8 settembre, alle ore 18, nella chiesa di S. Maria del Roseto – Avellino – è stata celebrata la festa del Roseto, in occasione del 42° anniversario della sua fondazione, il primo, dopo quello tormentato dello scorso anno, senza la presenza del suo fondatore P. Innocenzo Massaro. Dopo la Celebrazione Eucaristica, il Presidente dell’Associazione “Roseto” – avv. Vincenzo Follo – ha voluto ringraziare tutti i benefattori, operatori e amici del Roseto, invitandoli ad avere ancora fiducia nella Provvidenza, così come l’aveva avuta P. Innocenzo che solo grazie alla sua fede è riuscito a realizzare questa Opera. Di seguito è riportato il saluto che il Presidente dell’Associazione ha pronunciato al termine della S. Messa:

«A questo punto, al termine della celebrazione eucaristica, è opportuno e doveroso rivolgere, a nome dell’Associazione Roseto, un affettuoso saluto ed un sincero ringraziamento a tutti i presenti che oggi prendono parte alla ricorrenza dell’otto settembre, momento tanto importante, tanto sentito dalla nostra Comunità.
Quest’anno, la ricorrenza si carica di una emozione particolare. È la prima volta che le celebrazioni dell’otto settembre avvengono senza la presenza dell’artefice primo dell’Opera Roseto.
L’amarezza per questa assenza, tuttavia, è compensata adeguatamente dalla consapevolezza che, grazie all’impegno, al sostegno di tanti amici, il progetto Roseto continua e, ciò che è più importante, continua secondo lo spirito e le linee guida del suo fondatore.Le parole di ringraziamento, pertanto, che oggi l’Associazione Roseto vi rivolge, non sono assolutamente parole o frasi di circostanza, essendo proprio il vostro sostegno che ci ha consentito di contenere e gestire al meglio, la improvvisa perdita di un punto di riferimento così importante. E’ come se la nostra Comunità, contrariamente a quanto si potesse temere, anziché smarrirsi, abbia saputo trovare nuovo vigore ed i giusti motivi di unità e compattezza, per proseguire l’Opera iniziata.
1) Tra gli amici del Roseto salutiamo e ringraziamo, innanzitutto, i tanti volontari e i benefattori che, ancora oggi, con modalità diverse, continuano a rappresentare un punto di forza ragguardevole per l’Opera.
2) La più sincera gratitudine si esprime, poi, nei confronti della Comunità Francescana di Avellino.
È grazie ai Frati Minori Cappuccini di Avellino se la nostra Chiesa continua a vivere.
È grazie ai membri del Terz’Ordine Francescano e della Gi.Fra. di Avellino se la nostra Comunità religiosa laicale, continua ad esistere ed operare.
E’ la stessa famiglia Francescana che, qualche generazione fa, ha contribuito in modo determinante alla nascita del Roseto e che ora si pone come garante, affinché l’Opera continui ad agire secondo lo spirito e gli insegnamenti di San Francesco d’Assisi.
3) Un pensiero affettuoso e di grande riconoscenza lo rivolgiamo, sicuramente, alle suore di santa Marta che attraverso la loro instancabile opera all’interno della Struttura ci aiutano ad assicurare quotidianamente tutta l’assistenza di cui necessitano gli anziani nostri ospiti, sia da un punto di vista materiale che spirituale.
4) Tanta riconoscenza va, inoltre, alla Cooperativa Teseo per la dedizione e l’impegno con cui si adopera per l’assistenza socio-sanitaria in Casa Albergo e in RSA, attraverso, il lavoro incessante dei suoi Responsabili e degli Operatori.
5) In ultimo e con un pizzico di orgoglio e di soddisfazione, saluto e ringrazio la Croce Rossa Italiana, Sezione Provinciale di Avellino per la vicinanza e per la collaborazione concessaci quest’anno, in più di un’occasione. In particolare ringraziamo le Infermiere e le allieve crocerossine che da circa un mese prestano, presso la nostra Struttura, attività di volontariato in ausilio al nostro personale infermieristico.
Una collaborazione, questa, che è solo agli inizi ma che ha già solide premesse per il futuro. E’ infatti, in itinere un progetto per cui, di qui a non molto, saranno tenuti presso la nostra Struttura i corsi di formazione delle allieve infermiere.
Se pensate che uno dei temi …. dei pensieri più ricorrenti, uno dei sogni ancora non realizzati di Padre Innocenzo era proprio quello di creare nel Lotto “A'” del complesso Roseto, la sede di una scuola per infermieri geriatrici, capite con quale compiacimento e con quanta attenzione stiamo seguendo il realizzarsi di questa prospettiva.
E’ un sogno che si avvera, perché a volte i sogni si avverano.
Grazie a tutti».




OMELIA DI S.E.R. CARD. ANGELO SCOLA, ARCIVESCOVO DI MILANO

Pubblichiamo l’Omelia di S.E.R. CARD. ANGELO SCOLA, Arcivescovo di Milano, tenuta durante la celebrazione delle esequie del CARDINALE CARLO MARIA MARTINI, Arcivescovo Emerito di Milano.

Card. Angelo Scola

«Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; e io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me» (Lc 22, 28-29). La lunga vita del Cardinal Martini è specchio trasparente di questa perseveranza, anche nella prova della malattia e della morte. Ed ora Gesù as-sicura lui e noi con lui: “Io faccio con te, come il Padre ha fatto con me”. Per lui è pronto un regno come quello che il Padre ha disposto per il Figlio Suo, l’Amato. Il fatto che non sia un luogo fisico, a nostra misura, non ci autorizza a ridurre il paradiso ad una favola. Il Cardinal Martini, che ha annunciato e studiato la Risurrezione, l’ha più volte sottolineato. Con parole tanto semplici quanto potenti San Paolo ne coglie la natura quando scrive: «Per sempre saremo con il Signore» (1Ts 4, 17). Il nostro Cardinale Carlo Maria, tanto amato, non si è quindi dileguato in un cielo remoto e inaccessibile.
Egli, entrando nel Regno partecipa del potere di Cristo sulla morte ed entra nella comunione con il Dio vivente. Per questo, in un certo vero senso, si può dire di lui ciò che Benedetto XVI ha scritto di Gesù asceso al Padre: «Il suo andare via è al contempo un venire, un nuovo modo di vicinanza a tutti noi” (cfr. J. Ratzinger, Gesù di Nazaret 2, 315).
Carissimi, siamo qui convocati dalla figura imponente di questo uomo di Chiesa, per esprimergli la nostra commossa gratitudine. In questi giorni una lunga fila di credenti e non credenti si è resa a lui presente.
Caro Padre, noi ora, con i molti che ci seguono attraverso i mezzi di comunicazione, ti facciamo corona. E lo facciamo perché nella luce del Risorto, garante del tuo compiuto destino, sappiamo dove sei. Sei nella vita piena, sei con noi. Questa è la nostra speranza certa. Non siamo qui per il tuo passato, ma per il tuo presente e per il nostro futuro.«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27, 46). Il terribile interrogativo di Gesù sulla croce è in realtà implorante preghiera. Estremo abbandono al disegno del Padre. E qual è questo disegno? Che il Crocifisso incorpori in Sé tutto il dolore degli uomini. Il Figlio di Dio ha assunto tutto dell’uomo, tranne il peccato, a tal punto che la Sua drammatica invocazione finale abbraccia l’umano grido di orrore di fronte alla morte per placarlo.
Alla morte di Gesù ben si addice la preghiera del poeta Rilke: «Dà, o Signore, a ciascuno la sua morte. La morte che fiorì da quella vita, in cui ciascuno amò, pensò, sofferse» (R. M. Rilke, Das Buch von der Armut und vom Tode, Das Stundenbuch 1903). Chi muore nel Signore, col Signore è destinato a risorgere. Per questo la sua morte è un fiorire. La morte del Cardinale è stata veramente personale perché destinata alla sua personale, inconfondibile risurrezione, al suo personale modo di stare per sempre con il Signore e in Lui con tutti noi.
Niente e nessuno ci può strappare questa consolante verità. Neppure la dura, sarcastica obiezione di Adorno che liquida la preghiera di Rilke come «un miserevole inganno con cui si cerca di nascondere il fatto che gli uomini, ormai, crepano e basta» (T. W Adorno, Minima moralia, Einaudi, Torino 1988, 284). A smentirla è l’imponente manifestazione di affetto e di fede di questi giorni verso
l’Arcivescovo.
Il Cardinal Martini non ci ha lasciato un testamento spirituale, nel senso esplicito della parola. La sua eredità è tutta nella sua vita e nel suo magistero e noi dovremo continuare ad attingervi a lungo. Ha, però, scelto la frase da porre sulla sua tomba, tratta dal Salmo 119 [118]: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino». In tal modo, egli stesso ci ha dato la chiave per interpretare la sua esistenza e il suo ministero.
«Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me; colui che viene a me non lo respingerò» (Gv 6, 37). La luce della Parola di Dio, sulla scia del Concilio Vaticano II, abbondantemente profusa dal Cardinale su tutti gli uomini e le donne, non solo della terra ambrosiana, è il dono attraverso il quale Gesù accoglie chiunque decide di seguirLo. Perché – aggiunge il Vangelo di Giovanni – la volontà del Padre è che Egli non perda nulla, ma lo risusciti nell’ultimo giorno (cfr. Gv 6, 39). Dio è veramente vicino a ciascun uomo, qualunque sia la situazione in cui versa, la posizione del suo cuore, l’orientamento della sua ragione, l’energia della sua azione. Dobbiamo però definitivamente superare un atteggiamento molto diffuso circa il dono della fede. Il nostro Padre Ambrogio a proposito del Salmo scelto dal Cardinale, afferma: «Per certo quella luce vera splende a tutti. Ma se uno avrà chiuso le finestre, si priverà da se stesso della luce eterna. Allora, se tu chiudi la porta della tua mente, chiudi fuori anche Cristo. Benché possa entrare, nondimeno non vuole introdursi da importuno, non vuole costringere chi non vuole …
Quelli che lo desiderano ricevono la chiarezza dell’eterno fulgore che nessuna notte riesce ad alterare» (Ambrogio, Commento al Salmo 118, Nn. 12. 13-14; CSEL 62, 258-259).
Affidare al Padre questo amato Pastore significa assumersi fino in fondo la responsabilità di credere e di testimoniare il bene della fede a tutti. Ci chiede di diventare, con lui, mendicanti di Cristo. Dolorosamente consapevoli di portare il tesoro della nostra fede in vasi di creta, gridiamo al Signore: «Credo; aiuta la mia incredulità» (Mc 9, 24).
Questo è il grande lascito del Cardinale: davvero egli si struggeva per non perdere nessuno e nulla (cfr. Gv 6, 39). Egli, che viveva eucaristicamente nella fede della risurrezione, ha sempre cercato di abbracciare tutto l’uomo e tutti gli uomini. Lo ha potuto fare proprio perché era ben radicato nella certezza incrollabile che Gesù Cristo, con la Sua morte e risurrezione, è perennemente offerto alla libertà di ognuno.
Oggi la Chiesa celebra la memoria del papa San Gregorio Magno. Dalla sua celebre opera La regola pastorale, il Cardinal Martini ha tratto il suo motto episcopale: «Pro veritate adversa diligere», per amore della verità, abbracciare le avversità (II, 3, 3). In questa scelta brilla lo spirito ignaziano del Cardinal Martini: la tensione al discernimento e alla purificazione, come condizioni ascetiche per far spazio a Dio e per imparare quel distacco che solo garantisce l’autentico possesso, cioè, il vero bene delle persone e delle cose. Così il pastore che ora affidiamo al Padre ha amato il suo popolo, spendendosi fino alla fine. Anch’io ho potuto far tesoro del suo aiuto fin nell’ultimo affettuoso colloquio, una settimana prima della sua morte. Nell’attitudine salvifica, pienamente pastorale, del suo ministero egli ha riversato la competenza scritturistica, l’attenzione alla realtà contemporanea, la disponibilità all’accoglienza di tutti, la sensibilità ecumenica e al dialogo interreligioso, la cura per i poveri e i più bisognosi, la ricerca di vie di riconciliazione per il bene della Chiesa e della società civile.
Nella Chiesa le diversità di temperamento e di sensibilità, come le diverse letture delle urgenze del tempo, esprimono la legge della comunione: la pluriformità nell’unità. Questa legge scaturisce da un atteggiamento agostiniano molto caro al Cardinale: chi ha trovato Cristo, proprio perché certo della Sua presenza, continua, indomito, a cercare.
Facciamo ora nostra di tutto cuore la preghiera del Prefazio di questa solenne liturgia di suffragio: «È nostro vivo desiderio che il tuo servo Carlo Maria venga annoverato nel regno celeste tra i santi pastori del tuo gregge e possa raggiungere la ricompensa di coloro con i quali ha condiviso fedelmente le fatiche della
stessa missione». Pensiamo alla lunga catena dei nostri arcivescovi, soprattutto a Sant’Ambrogio e a San Carlo. Caro Arcivescovo Carlo Maria, la Madonnina, l’Assunta, con gli Angeli e i Santi che affollano il nostro Duomo, ti accompagni alla meta che tanto hai bramato: vedere Dio faccia a faccia. Amen.

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