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FRANCESCO D’ASSISI. GIULLARE, NON TROVATORE [12^ ed ultima parte]

Siamo giunti al termine di questa serie di riflessioni; colgo quindi l’occasione per ringraziare quanti hanno avuto modo di seguirci, spero con interesse.
Ritengo opportuno dedicare questo ultimo intervento a Paul Sabatier (1858-1928), lo storico francese a cui si deve il merito di aver risvegliato l’interesse per la storiografia francescana. In un precedente post si è detto che il Capitolo di Parigi del 1266 dispose la distruzione di tutte le biografie precedenti la Leggenda maggiore di Bonaventura e che per tale motivo essa costituì per lunghi secoli la fonte principale, se non unica, di conoscenza di Francesco; le stesse opere di Tommaso da Celano furono riprese e valorizzate solo sul finire del settecento dai bollandisti. Sabatier intuì che il Francesco presentato da Bonaventura e dal Celano – ossia dai biografi ufficiali, investiti di tale compito dal papa o dal Capitolo – non era del tutto aderente al vero in quanto presentava solo quell’immagine di Francesco che la componente clericale dell’Ordine voleva diffondere e si spese nella ricerca delle biografie non ufficiali, scritte spontaneamente dai frati della prima ora. Ebbe quindi il merito di mettere in confronto dialettico due filoni storiografici in parte effettivamente contrastanti; è con lui – e con il suo storico saggio biografico Vita di san Francesco d’Assisi del 1894 – che nasce la «questione francescana», ossia lo studio delle fonti storiche in nostro possesso, della loro autenticità e datazione. Attualmente l’approccio di Sabatier è parzialmente superato in quanto propone una polarizzazione troppo marcata tra le biografie ufficiali (considerate come espressione della comunità) e quelle non ufficiali (considerate come espressione degli spirituali). Tuttavia, nonostante questo limite, egli ebbe l’incommensurabile pregio di problematizzare la questione delle fonti documentali e di offrirne i primi strumenti ermeneutici; pertanto non è metodologicamente corretto affrontare la storiografia francescana senza partire o passare per Sabatier. La sua attualità è indirettamente testimoniata dalla diffidenza che ancora oggi lo circonda; molti studiosi sostengono che le sue tesi sono faziose e tendenziose in quanto, da pastore calvinista qual’era, si sarebbe inventato un Francesco storico solo per contrapporlo al Francesco della tradizione cattolica. Solo per fare un esempio, l’autore del volume sulla storia dell’O.F.S. che il nostro Consiglio regionale ha adottato come testo di studio dello scorso triennio prescinde totalmente da Sabatier né cita in bibliografia il suo storico saggio del 1894. Ma questa stessa diffidenza si riscontra, diciamo così, anche a ben più alti livelli. Nel corso dell’udienza generale di mercoledì 27 gennaio 2010, incentrata sulla figura di Francesco d’Assisi, Benedetto XVI ha detto:

«Alcuni storici nell’Ottocento e anche nel secolo scorso hanno cercato di creare dietro il Francesco della tradizione, un cosiddetto Francesco storico, così come si cerca di creare dietro il Gesù dei Vangeli, un cosiddetto Gesù storico. Tale Francesco storico non sarebbe stato un uomo di Chiesa, ma un uomo collegato immediatamente solo a Cristo, un uomo che voleva creare un rinnovamento del popolo di Dio, senza forme canoniche e senza gerarchia. […] Il vero Francesco storico è il Francesco della Chiesa» (Zenit, 27 gennaio 2010).

In realtà, Paul Sabatier e gli storici che lo hanno seguito, solo a leggerli, non hanno mai cercato di contrapporre un cosiddetto Francesco storico al Francesco tradizionale e meno che mai si sono azzardati a sostenere che Francesco non sarebbe stato «un uomo di Chiesa». Piuttosto, hanno evidenziato una serie di aspetti problematici del francescanesimo delle origini: le pressioni della curia romana per trasformare in un ordine clericale ciò che era nato come un movimento laico, la sofferenza con cui Francesco visse questa evoluzione, le lacerazioni interne che caratterizzarono i primi decenni della vita dell’Ordine dopo la sua morte. Ma, evidentemente, si tratta di vicende che si preferisce dimenticare.
Per quel che possono interessare le vicende personali di chi scrive dirò che la prima volta che ho letto la Vita di san Francesco d’Assisi di Sabatier ero poco più che un ragazzo e ricordo che per me fu una autentica rivelazione: un Francesco e un francescanesimo totalmente diversi da come me li avevano sempre raccontati. Poi l’ho riletto altre volte, almeno un paio; uno studio più che una lettura, come si fa con un testo universitario che occorre imparare bene. E ancora oggi ogni tanto mi soffermo su alcune pagine che mi sono particolarmente care. A dire il vero, in tutti questi anni se ho capito qualcosa di Francesco lo devo più ai libri di storia che ai libri di chiesa, più al rigore degli studiosi che alla retorica dei predicatori; e se nel corso degli anni ho acquisito un approccio più critico e disincantato, ma non per questo meno appassionato, al francescanesimo lo devo proprio a Sabatier. Chiudo e saluto tutti citando una frase dello storico francese che mi ha aperto la mente negli anni della giovinezza e che ha contribuito non poco allo sviluppo della mia vocazione francescana negli anni della maturità: «Se grande è il Francesco della leggenda, infinitamente più grande è quello della storia».

Pace e bene

Pietro Urciuoli




FRANCESCO D’ASSISI. GIULLARE, NON TROVATORE [11^ parte]

Con la morte di Francesco si apre un ulteriore e ultimo capitolo: la costituzione di un idoneo supporto giuridico in grado di completare quel processo di trasformazione della fraternitas laica in ordo monastico già avviato con l’approvazione della Regola bollata del 1223.
È un percorso scandito da una serie di bolle pontificie. La prima della serie è la Quo elongati del 28 settembre 1230; in questo documento Gregorio IX scioglie numerose questioni: viene sancito il carattere non vincolante e subordinato del Testamento rispetto alla Regola, vengono mitigate le norme in materia di povertà attraverso il distinguo tra «proprietà» e «uso», viene limitato l’accesso ai capitoli ai soli ministri provinciali, codificato il diritto esclusivo del ministro generale di esaminare i frati candidati alla predicazione, sancito il divieto per i frati di entrare nei monasteri delle Povere Dame in assenza di specifica autorizzazione. Questo processo di irrigidimento normativo di tipo monastico non viene accettato da tutti e nell’Ordine prende a farsi netta la distinzione tra quanti desiderano mantenersi fedeli al primitivo spirito di Francesco – definiti zelanti, rigoristi, spirituali – e il resto dei frati che si denominano col termine di comunità. Ma l’Ordine è attraversato anche da altre tensioni: si sviluppano rapporti conflittuali anche tra frati laici e frati chierici  nonché  tra frati italiani e frati stranieri.
L’Ordine va verso una sempre più spinta clericalizzazione: al capitolo del 1239 si stabilisce che nessuno può essere ricevuto nell’Ordine se non è già chierico e convenientemente istruito nella grammatica o nella logica; con questa disposizione Egidio, Ginepro, Giovanni il Semplice e lo stesso Francesco non sarebbero stati ammessi nell’Ordine. Viene inoltre deciso di non affidare ai laici le funzioni di ministro e di guardiano; è l’inizio di quel processo di marginalizzazione, evidente anche ai nostri giorni, che vedrà riservare ai frati laici i soli lavori domestici o comunque le mansioni più umili.
I contrasti tra spirituali e comunità si inaspriscono anno dopo anno. Molto frequentemente gli spirituali si ritirano in romitori di montagna per poter osservare più fedelmente la regola e per evitare scandali; altre volte, invece, tale scelta viene imposta come forma di punizione e di allontanamento, insieme a maltrattamenti, carcerazioni e persecuzioni.
Con la bolla Licet ex omnibus Innocenzo IV divide l’Italia in due zone inquisitoriali, una affidata ai Predicatori, l’altra ai Minori; i francescani della seconda generazione divengono così persecutori di movimenti religiosi popolari e laici, ossia di movimenti del tutto analoghi alla primitiva fraternitas.
Segno evidente della dilagante conflittualità che attraversa l’Ordine è il tumultuoso avvicendarsi di ministri generali; Pietro Cattani, che era stato nominato direttamente da Francesco nel 1221, muore nello stesso anno e viene sostituito da Elia; Elia non viene confermato nel capitolo di Assisi nel 1227 e al suo posto viene eletto Giovanni Parenti; Giovanni Parenti viene sostituito in favore di Elia al capitolo di Roma nel 1232; Elia viene deposto a Roma nel 1239; Alberto da Pisa e Aimone da Faversham muoiono in carica rispettivamente nel 1241 e nel 1244; Crescenzo da Jesi è deposto nel capitolo di Lione del 1247 e Giovanni da Parma in quello di Roma del 1257.
Il successore di Giovanni Parenti è Bonaventura da Bagnoregio. La sua importanza è tale che viene considerato il secondo fondatore dell’Ordine, se non addirittura il fondatore vero e proprio; va ascritta a suo merito la composizione dei conflitti interni con la promulgazione delle Costituzioni Generali; e va ascritta a suo merito anche la composizione dei conflitti esterni, specie con il clero parigino che nel 1245 aveva chiesto la soppressione dell’Ordine appellandosi al IV Concilio Lateranense del 1215 che vietava la formazione di nuovi ordini religiosi. Bonaventura muore nel 1274, dopo un generalato durato circa un ventennio. Afferma a tal proposito Raul Manselli: «Quello che prima di lui era un movimento non certo caotico e disorganizzato ma pur sempre policentrico, con molteplici correnti ed atteggiamenti in confronto se non in contrasto, dopo vent’anni circa di generalato di Bonaventura aveva acquistato una fisionomia unitaria, una strutturazione organica, una sua attività impegnata, vivace, ma normale, senza oscillazioni e perplessità, nonostante le non poche difficoltà che aveva dovuto attraversare, fra i rischi di soppressione da parte del clero e, aggiungiamolo pure, le critiche dei rigoristi»
Insomma, col generalato di Bonaventura la fraternitas di Francesco diventa un Ordine vero e proprio; resta da chiedersi però se non diventa anche un Ordine come tutti gli altri.

Pace e bene

Pietro Urciuoli




FRANCESCO D’ASSISI. GIULLARE, NON TROVATORE [10^ parte]

Le stimmate cambiano radicalmente il corso della vita di Francesco. Defilatosi definitivamente dalla guida dell’Ordine ne diviene l’icona vivente, la guida spirituale. Sono anni segnati, benché gravemente ammalato, da una ripresa delle sue peregrinazioni e da numerose lettere apostoliche di incoraggiamento e di esortazione: a tutti i fedeli, ai reggitori di popoli, a tutti i chierici, a tutti i custodi.
Tra i testi lasciatici da Francesco in questo ultimo periodo della sua vita, due sono certamente i più significativi.
Il primo è il Cantico delle Creature, dettato durante un periodo di riposo a San Damiano nella primavera del 1225. Su tale componimento, considerato giustamente uno dei primi capolavori della letteratura italiana in volgare, è stato detto e scritto tantissimo. Segnato dalle stimmate – che lo rendono simile al Cristo nello spirito come nella carne, nella sofferenza come nella gloria – egli può vedere le creature con gli occhi del creatore, come un nuovo Adamo nel giardino dell’Eden. Il secondo è il Testamento, dettato probabilmente nell’aprile 1226 nell’eremo delle Celle di Cortona. È un documento suscettibile di essere analizzato sotto svariati punti di vista. In primo luogo, presenta molteplici valenze indicate da Francesco stesso nel corpo del testo: è un ricordo, col quale riporta alla mente il fervore dei primi anni; è un’esortazione, che rivolge ai frati consapevole delle crescenti difficoltà in cui si dibattono; è una ammonizione, a non deviare dalla strada maestra che lui ha tracciato; è un testamento, con il quale benedice i frati di ogni tempo e di ogni luogo.
Inoltre, è lo strumento utilizzato da Francesco per ribadire alcuni concetti cui nella Regola non era stato dato il necessario risalto e che invece gli stavano particolarmente a cuore: il lavoro manuale, il servizio ai lebbrosi, l’assoluta povertà, il divieto di chiedere privilegi ed altro ancora.
Infine, è sicuramente il testo che meglio rende la ricchezza della sua personalità e l’originalità della sua esperienza religiosa.
Un testo che da sempre è oggetto di studio, fonte di ispirazione, orizzonte di preghiera. Magnifico è il commento di Paul Sabatier nella sua fondamentale Vita di San Francesco d’Assisi del 1894:

«A queste pagine occorre chiedere la nota giusta per delineare la vita del loro autore e farsi un’idea della riforma che egli aveva sognato. In questo monumento dall’autenticità incontestabile, la più solenne manifestazione del suo pensiero, il Poverello si rivela con verginale candore. La sua umiltà è di una sincerità che si impone; è assoluta senza essere eccessiva. Tuttavia egli parla, poiché si tratta della sua missione, con tranquillità e serena sicurezza. Non è forse ambasciatore di Dio? Non ha ricevuto il suo messaggio da Cristo stesso? La genesi del suo pensiero si manifesta divina e personalissima insieme. La coscienza individuale proclama al tempo stesso la sua autorità sovrana e la sua responsabilità: “Nessuno mi mostrava cosa dovessi fare, ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la norma del santo Vangelo”».

Gli ultimi mesi della sua vita sono segnati da sofferenze indicibili. L’incontro con sorella morte avviene la sera del 3 ottobre 1226 a Santa Maria degli Angeli. Chissà se negli ultimi istanti della sua vita terrena – per citare un altro grande storico, questa volta contemporaneo, il francese Jacques Le Goff – Francesco si chiede se ha fondato la prima fraternità moderna o l’ultima comunità monastica.

Pace e bene

Pietro Urciuoli

 




FRANCESCO D’ASSISI. GIULLARE, NON TROVATORE [9^ parte]

La forma di vita libera e laica coagulatasi intorno a Francesco sopravvive integra per circa un decennio, approssimativamente dal 1209 al 1219, riscuotendo grande popolarità: nell’arco di questi dieci anni i frati passano da 10 a 5.000 unità con fraternitas anche Oltralpe.
La Chiesa comprende la forza di questo movimento e la sua capacità di intercettare il desiderio religioso delle masse popolari. Tuttavia, si tratta di un movimento dalla ambigua posizione giuridica, senza un capo, senza una regola, basato solo sulla figura carismatica di Francesco. A partire grosso modo dal 1219 iniziano due processi distinti e paralleli, entrambi sostenuti dalla curia di Roma: l’istituzionalizzazione e la clericalizzazione della fraternitas. Il primo, consiste nell’inserimento della fraternitas nelle maglie della struttura ecclesiastica; il secondo, nel graduale incremento del numero dei frati chierici a scapito dei frati laici. Due processi che convergono verso il medesimo obiettivo: conferire a questo movimento laicale un carattere di stabilità e solidità, sino a farlo diventare un ordo religioso in piena regola. Due processi che ottengono il medesimo risultato: l’alterazione dei caratteri distintivi della prima fraternitas.
Vediamoli separatamente.

Francesco, dopo aver ceduto il governo della fraternitas a Pietro Cattani, nel 1221 si rassegna anche all’idea di dare ad essa un più stabile inquadramento giuridico; tuttavia, in opposizione al canone XIII del IV Concilio Lateranense, si rifiuta di adottare una delle tre regole esistenti (Basilio, Agostino e Benedetto) e decide di scriverne una di suo pugno. Avvalendosi dell’aiuto di un frate tedesco molto esperto, Cesario da Spira, presenta il testo al capitolo del 1221; sostanzialmente si tratta di una rielaborazione di norme di comportamento discusse e concordate nei vari capitoli dal 1209 sino a quel momento. Questa regola non piace perché lunga e disorganica e non viene sottoposta all’approvazione papale: è la cosiddetta Regola non bollata. Francesco è così sollecitato a scriverne un’altra dal carattere più marcatamente giuridico; si rimette all’opera ritirandosi nell’eremo di Fonte Colombo nella valle reatina, coadiuvato da due frati. Il testo viene modificato in più punti; vi è certamente la mano del cardinale Ugolino e forse dallo stesso Onorio III. Dopo due anni la nuova la regola completa il suo iter e viene approvata nel 1223 con la bolla Solet anuere da Onorio III.
Il percorso di regolamentazione della famiglia francescana non è limitato solo al ramo maschile.
Anche Chiara è obbligata dal Concilio del 1215 a scegliere una delle regole esistenti; sceglie quella di san Benedetto, anche se ciò la obbliga ad accettare il titolo di badessa. D’intesa con il cardinale Ugolino, tra il 1218 e il 1219 vengono elaborate una serie di norme che Chiara e le sue sorelle avrebbero dovuto osservare sotto la professione formale della regola di san Benedetto; sono norme che resteranno in vigore sino alla approvazione della regola scritta da Chiara medesima, confermata da Innocenzo IV nel 1253.
Stesso discorso per il ramo dei penitenti. Il movimento penitenziale, come si è detto, aveva subìto un forte impulso con la predicazione di Francesco ed è molto probabile che egli sin dai primi anni della sua attività abbia dato ai penitenti indicazioni su come condurre una vita più autenticamente evangelica. Probabilmente tali indicazioni sono contenute nella cosiddetta Recensio Prior della Lettera a tutti i fedeli rinvenuta da Paul Sabatier nel 1900. Si tratta di un documento che costituisce probabilmente la bozza della Lettera a tutti i fedeli del 1221, considerata come il primo testo normativo del futuro il Terzo Ordine Francescano. Il quadro della regolamentazione dell’Ordine dei Penitenti si completa con il Memoriale Propositi, sempre del 1221, anche se a noi è giunto in una redazione del 1228. È un testo che, pur riprendendo i contenuti della Lettera a tutti i fedeli, ha un tono più giuridico, opera certamente del cardinale Ugolino; costituisce la prima regola ufficiale dei penitenti di Francesco, anche se non è stata mai ufficialmente approvata dalla Santa Sede.
Si evidenzia quindi il ruolo decisivo assunto in questi anni dal cardinale Ugolino nella regolamentazione del movimento francescano nelle varie forme che esso andava assumendo: la Regola non bollata nel 1221 e la Regola bollata nel 1223 per i frati, la regola per le clarisse nel 1219, il Memoriale Propositi per i penitenti laici nel 1221. Un particolare interessante: Gregorio IX viene descritto dal suo biografo come il fondatore dei tre rami dell’Ordine dei Minori!

Francesco è costretto a subire anche il processo di clericalizzazione della sua fraternitas.
Ciò che più lo preoccupa non è tanto la prevalenza numerica dei chierici sui laici – per lui la cosa in sé non fa molta differenza – quanto piuttosto il cambiamento dello stile di vita e di azione della fraternità che a essa consegue. La presenza di numerosi frati chierici, alcuni dei quali anche molto dotti in quanto maestri di teologia delle Università di Londra e Parigi, rende in un certo qual modo naturale che questi si dedichino esclusivamente alla predicazione e all’insegnamento lasciando ai frati laici il lavoro manuale e il ricorso alla questua. Così come si rende necessario avere conventi in cui esercitare la formazione dei frati novizi, chiese e parrocchie in cui predicare, ecc. Francesco si mostra quasi rassegnato alla clericalizzazione dell’Ordine perché probabilmente si rende conto che è un processo, entro certi limiti, fisiologico. Quello che però lo amareggia sono le divisioni interne che lo accompagnano – con la formazione di fazioni più o meno rigoriste, centraliste e periferiche, clericali e laiche – e il conseguente scandalo che tutto ciò arreca ai fedeli.

Gli ultimi anni della sua vita costituiscono per lui la prova più severa. Ormai estromesso dal governo dell’Ordine, deve compiere il maggior atto di fede: rinunciare a far valere le sue idee e affidare le sorti della sua famiglia alla volontà di Dio. Vive in un’angoscia profonda, tormentato dalla tentazione di essere stato abbandonato dal Signore. Arriva a pensare di aver sbagliato tutto nella sua vita, che avrebbe fatto meglio a prender moglie e aiutare il padre nel suo lavoro; giunge finanche a confezionare dei pupazzi di neve additandoli a se stesso come sua moglie e i suoi figli. E sente la responsabilità di aver trascinato nell’errore tanti fratelli semplici.
Questo supremo sforzo di fede, di spoliazione di sé e di totale accettazione della volontà del Padre viene premiato con le stimmate, segno della sua completa compenetrazione col Cristo sofferente sul Golgota, ricevute il 14 o 15 settembre 1224 in un periodo di ritiro sul monte Verna.
Lo storico Jacques Le Goff, nel suo saggio La civiltà dell’Occidente medievale così sintetizza questo travagliato periodo della vita di Francesco:

«La lacerazione di Francesco d’Assisi, preso tra il proprio ideale snaturato e l’attaccamento appassionato alla Chiesa ed all’ortodossia, è drammatica. Egli accetta, ma si ritira. Nella solitudine della Verna, le stimmate, poco prima della sua morte (1226) sono la conclusione, il riscatto e la ricompensa della sua angoscia».

Pace e bene

Pietro Urciuoli




FRANCESCO D’ASSISI. GIULLARE, NON TROVATORE [8^ parte]

A mio modo di vedere l’esperienza umana e religiosa di Francesco può suddividersi in tre periodi; un primo periodo, dal 1209 (anno della approvazione orale di Innocenzo III) al 1219 (anno del suo viaggio nei Luoghi Santi); un secondo, dal 1219 al 1224 (anno delle stimmate); un terzo, dal 1224 al 1226 (anno della sua morte).
Vediamo il primo periodo.
Durante questo arco temporale che copre grosso modo un decennio, la fraternitas di Francesco si sviluppa in maniera autonoma, secondo regole proprie; non vi sono ancora quelle pressioni esterne e quelle tensioni interne che successivamente ne determineranno lo sviluppo istituzionale e il taglio clericale. La sua era una fraternitas trasversale rispetto ai modelli di vita ecclesiale esistenti: anche se era certamente espressione del rinnovamento penitenziale del laicato del XII e XIII secolo essa non si configurava come una forma di vita propriamente laica giacché si trattava comunque di uomini che avevano deciso di uscire dal secolo per abbracciare la vita religiosa, sebbene la maggior parte di essi non avesse ricevuto gli ordini canonici e neanche vi aspirasse; tuttavia, i frati non si presentavano né come dei monaci, benché conducessero uno stile di vita cenobitico, né come dei canonici secolari o regolari, anche se alcuni erano chierici, né come degli eremiti, benché amassero trascorrere lunghi periodi in isolati romitaggi; in sostanza, il gruppo aveva molti tratti in comune con le varie forme di vita ecclesiale all’epoca esistenti ma, a stretto rigore, non si conformava appieno a nessuna di esse.
Era una fraternitas nella quale non vi erano regole scritte: le norme che disciplinavano la vita comune non erano frutto di una elaborazione giuridica ma di una esperienza condivisa, stabilite di volta in volta, collettivamente, nel corso dei capitoli dei frati a Santa Maria degli Angeli.
Era una fraternitas nella quale il concetto di potere era sconosciuto; inizialmente il piccolo gruppo era governato direttamente da Francesco che godeva di un primato affettivo e carismatico non di un vero e proprio potere legislativo o esecutivo e anche successivamente, quando la fraternità crebbe di numero, non si svolse mai un capitolo che lo eleggesse come ministro generale. I capitoli infatti avevano un carattere conviviale non normativo; non furono mai utilizzati per stabilire norme che istituissero gli organi direttivi, definissero le relative competenze nonché i requisiti e le modalità di accesso ai ruoli di comando.
In definitiva, la primitiva fraternitas francescana non era assimilabile ad alcuna forma di vita ecclesiale canonicamente riconosciuta, non disponeva di una regola ufficialmente approvata né di una struttura gerarchica preposta al comando e per questi motivi, in un’accezione letterale dei termini, si potrebbe definire: atipica, da a- negativo e typos, modello, forma, stampo, esemplare; anomica, da a- e nomos, norma, legge; anarchica, da an- e archè, gerarchia, capo, potere, comando.

Pace e bene
Pietro Urciuoli




FRANCESCO D’ASSISI. GIULLARE NON TROVATORE [7^ parte]

Nel presente post si vuole dimostrare come alcuni tra gli episodi maggiormente conosciuti della vita di Francesco d’Assisi siano in realtà in tutto o in parte inventati, costruiti ad arte dai suoi biografi allo scopo di creare collegamenti con la Sacra Scrittura; episodi nei quali, in accordo con lo stile agiografico medievale, si fa ampio ricorso a sogni e visioni, figure letterarie utilizzate per rappresentare il modo con cui Dio manifesta la sua volontà.
Per brevità si propongono alla riflessione solo due episodi
Il primo è quello della partenza di Francesco per la Puglia al seguito di Gualtieri di Brienne. La Legenda maggiore ci dice che a Spoleto Francesco è colto da una febbre improvvisa e che in sogno una voce gli avrebbe chiesto: «Francesco, è meglio servire il servo o il padrone?».
In pratica, Francesco è intercettato dal Signore sulla via di Spoleto esattamente come san Paolo sulla via di Damasco e come questi risponde: «Signore, cosa vuoi che io faccia?». Se Francesco abbia effettivamente avuto questa visione non lo possiamo né affermare né negare; di certo sappiamo che Gualtieri di Brienne muore in battaglia nello stesso anno, il 1205, a Sarno. È molto probabile quindi che il giovane Francesco abbia rinunciato a partire non appena appresa la notizia della morte del cavaliere francese e dell’annullamento della missione in Puglia.
Il secondo episodio è quello del sogno di Innocenzo III, un episodio immortalato da Giotto in uno dei suoi più celebri affreschi. Secondo Tommaso da Celano Innocenzo III avrebbe sognato un uomo vestito di miseri stracci sostenere una basilica del Laterano in procinto di crollare e, riconosciuto in Francesco quest’uomo, avrebbe approvato il suo duro progetto di vita. Nulla vieta che Innocenzo III abbia avuto effettivamente tale visione; tuttavia è il caso di osservare quanto segue. Questo episodio è riportato dal Celano nella sua Vita seconda, datata 1246; orbene, una analoga visione è riportata anche da Costantino da Orvieto nella sua Vita di san Domenico scritta nel 1244, due anni prima della Vita seconda del Celano. Se non si può escludere che Innocenzo III abbia avuto la visione di Francesco, è però certamente singolare che ne abbia avute addirittura due, una per Francesco e una per Domenico. Più probabilmente il Celano con questo episodio ha voluto rappresentare plasticamente l’interpretazione storica che l’Ordine ha dato di sé negli anni immediatamente successivi alla morte di Francesco e per far questo si è ispirato, diciamo così, al suo collega domenicano.

Pace e bene

Pietro Urciuoli




Francesco d’Assisi. Giullare, non trovatore [6^ parte]

Dopo aver descritto le principali caratteristiche del mercante medievale è opportuno soffermarsi sulla figura del cavaliere, non senza aver prima ringraziato quanti ci seguono ormai con costanza e attenzione.

Nell’Occidente europeo la cavalleria sviluppa caratteristiche differenti da regione a regione ma è comunque possibile individuarne alcuni caratteri comuni.

In una prima fase, nell’Alto Medioevo e in particolare nel periodo carolingio, la cavalleria è alla base dell’organizzazione dell’esercito feudale: il feudatario concede l’investitura al cavaliere che in cambio gli giura fedeltà e mette a sua disposizione il suo valore di combattente. Lo scopo prevalente è pertanto essenzialmente militare.

Successivamente la cavalleria assume una connotazione sociale: con la Constitutio de feudis di Corrado II del 1037 la trasmissione del feudo diviene ereditaria e poiché la successione avviene a favore del primo figlio maschio – il cosiddetto diritto di maggiorasco – ai cadetti rimane la carriera ecclesiastica o quella del cavaliere. Nel secondo caso il giovane rampollo entra a servizio di un feudatario del quale diventa dapprima scudiero; successivamente riceve l’investitura a cavaliere o dallo stesso feudatario o da un cavaliere più anziano. Anche se non mancano casi di gruppi di cavalieri che si abbandonano al brigantaggio, approfittando della propria condizione di uomini armati per depredare e saccheggiare, generalmente i cavalieri si spendono con coraggio e generosità per proteggere i deboli e per combattere l’ingiustizia. Gradualmente sorge in essi il bisogno di istituzionalizzare, di codificare la loro condizione con precise formalità e rituali al punto che il cavalierato giunge a costituirsi come un vero e proprio ordo, termine utilizzato nell’antichità romana per indicare una partizione della società sia di tipo laico che ecclesiastico; il cavaliere non è tale solo perché possiede armi e cavallo ma perché ha uno status ben definito in base al quale si assoggetta a delle regole, assume dei doveri. Tuttavia, sebbene sia costituita prevalentemente da cadetti di nobili famiglie, la cavalleria non coincide esattamente con l’aristocrazia feudale: vi sono casi di uomini di umili origini che i feudatari promuovono al rango di cavalieri per ricompensarne la fedeltà o per premiarne il valore sul campo di battaglia; di contro, vi sono nobili che non giungono mai a essere cavalieri. È questo un tipico esempio di come nel Medioevo la mobilità sociale, per quanto limitata, non fosse del tutto sconosciuta.

Una ulteriore trasformazione della cavalleria è provocata dalla Chiesa che conferisce a tale istituzione un’impronta sacra. Carica di significati rituali e simbolici è la cerimonia dell’investitura nella quale i connotati religiosi sono così marcati da configurarsi come un vero e proprio sacramento: si parla infatti di «ordinazione cavalleresca». La sera precedente la cerimonia, il candidato digiuna, si confessa e passa la notte in orazione durante la cosiddetta «veglia delle armi». La cerimonia dell’investitura si inserisce nella liturgia eucaristica; il vescovo del luogo interroga il candidato in merito alle sue disposizioni nell’assumere gli obblighi che la sua condizione di cavaliere gli impone e benedice le armi che di lì a poco gli saranno consegnate. Ricevuto il giuramento di obbedienza il vescovo consegna pezzo per pezzo l’armatura al neo cavaliere che con la spada sguainata si impegna a versare il proprio sangue – e quello altrui – per difendere la fede e la Chiesa; in cambio la Chiesa gli assicura perdono e indulgenze. La Chiesa utilizza il nuovo corso della cavalleria per i propri fini politici e in particolare per le Crociate e a partire dal XII secolo nascono anche ordini religiosi-militari o monastico-guerrieri, tra cui l’Ordine degli Ospedalieri, l’Ordine di Malta e l’Ordine dei Templari.

L’importanza della cavalleria nella società medievale è testimoniata anche dalla presenza di uno specifico genere artistico e letterario, al quale sono legate le prime manifestazioni delle lingue volgari o neolatine. Si suole distinguere questa forma artistica, diffusa dai trovatori presso le principali corti europee, in due segmenti. Il primo è quello che nasce nella Francia settentrionale nell’XI secolo, si sviluppa in lingua d’oil e tratta argomenti epico-cavallereschi. Viene distinto un ciclo carolingio (che celebra le gesta di Carlo Magno e dei suoi più fedeli paladini, quali il paladino Rolando) e un ciclo bretone (che sviluppa le leggende celtiche ambientate nelle isole britanniche legate alle gesta di re Artù, i Cavalieri della Tavola Rotonda, Lancillotto, Tristano e Isotta, ecc.). Vengono esaltati i valori tipici della nobiltà e della cavalleria come la fedeltà e il coraggio, valori per i quali nobili cavalieri sono disposti a dare la vita. Il modello lirico più diffuso è quello della canzone, la chanson, e quindi la chanson de geste. Particolarmente nota è la Chanson de Roland nella quale viene esaltata la figura di Rolando, l’eroe cristiano che si sacrifica per la fede. Il secondo segmento nasce invece nella Francia meridionale, particolarmente in Provenza, nel XII e XIII secolo, e si sviluppa in lingua d’oc; tratta prevalentemente argomenti amorosi, sublimando l’ideale del cosiddetto «amor cortese». Si tratta di componimenti «cortesi-cavallereschi» nei quali il cavaliere, sempre pronto ad affrontare avventure pericolose per la sua dama fino all’estremo sacrificio, è sinonimo di combattente coraggioso ma anche di amante passionale e spregiudicato.

Non stupisce quindi il potente fascino che il modello di vita cavalleresco era in grado di esercitare sui giovani del tempo: per i cadetti di famiglie nobili rappresentava un mezzo per rientrare a pieno titolo nell’ambiente aristocratico; per i giovani appartenenti alle classi subalterne ed emergenti, quale fu Francesco d’Assisi, una opportunità di ascesa sociale.

Pace e bene

Pietro Urciuoli





Francesco d’Assisi. Giullare, non trovatore [5^ parte]

E’ a tutti noto che Francesco nasce da un mercante di Assisi e che negli anni della giovinezza segue le orme paterne. Può essere utile quindi una riflessione sulla figura del mercante medievale.
Nel medioevo cristiano i mercanti costituiscono la classe emergente della società. Girano l’Europa in lungo e in largo per portare le loro mercanzie presso le principali corti; i più facoltosi hanno attività nelle più importanti città europee e frequentemente assumono un ruolo importante nei nascenti istituti bancari. Con la loro attività danno un impulso decisivo allo sviluppo economico delle città e alla diffusione della cultura laica.
Tuttavia, in linea generale, la figura del mercante non è vista di buon occhio. Il cristianesimo assume la povertà come uno stato eticamente preferibile alla ricchezza: non è certamente vietato al cristiano possedere ricchezze ma se vuole veramente percorrere il cammino della santità è preferibile che ne faccia quantomeno un uso distaccato. Il lavoro eticamente accettato è quello dei campi, visto come penitenza o come espiazione dei peccati: la mano dell’uomo semina e Dio si compiace di benedire il suo lavoro facendo crescere frutti e messi; la carestia è invece segno che l’uomo ha troppo peccato e Dio non lo ha ancora perdonato. La figura del mercante, quindi, viene vista sempre con sospetto quando non è addirittura chiaramente ed esplicitamente condannata: il mercante è colui il quale cerca la ricchezza, è avido e avaro, tendente inevitabilmente all’inganno e al raggiro, in qualche caso è addirittura usuraio. Non chiede a Dio attraverso la natura il suo sostentamento: se lo procura da solo togliendo agli altri uomini i frutti del loro lavoro. Si aggiunga poi che nel Medioevo il commercio sulla lunga distanza verte prevalentemente su beni di lusso, in contrasto con una esistenza semplice e virtuosa; anche se non manca il commercio di granaglie, la difficoltà dei trasporti e l’insicurezza generale rendono conveniente trattare soprattutto beni di lusso molto costosi come panni pregiati, spezie, seta, artigianato artistico. Il mercante, per quanto ricco possa diventare con i suoi commerci, non ha la dignità del proprietario terriero che pur non lavorando direttamente i campi trae da essi la sua forza. Di tale situazione i mercanti sono coscienti al punto che frequentemente non appena raggiunto un certo tenore di vita abbandonano la mercatura per diventare proprietari terrieri, acquistano ville in campagna o palazzi in città, cercando di acquisire così un nuovo e più elevato status sociale.

Pace e bene

Pietro Urciuoli




Francesco d’Assisi. Giullare, non trovatore [4^ parte]

Dopo il post sulle Fonti Francescane – forse lungo e noioso ma necessario – cominciamo il nostro percorso di approfondimento sulla figura di Francesco d’Assisi partendo dai suoi anni giovanili. La descrizione di questo periodo della sua vita è contenuta nella Vita prima di Tommaso da Celano, nella Leggenda maggiore di Bonaventura da Bagnoregio e nella Leggenda dei tre compagni. Analizziamoli in ordine; costituirà, tra l’altro, una applicazione pratica di quanto si è detto nel post precedente circa la diversa prospettiva delle fonti documentali su Francesco.

Vita prima di Tommaso da Celano (cap. 1, FF 318-321)
Viveva ad Assisi, nella valle spoletana, un uomo di nome Francesco. Dai genitori ricevette fin dalla infanzia una cattiva educazione, ispirata alle vanità del mondo. Imitando i loro esempi, egli stesso divenne ancor più leggero e vanitoso.
Questa pessima mentalità, infatti, si è diffusa tra coloro che si dicono cristiani: si è fatto strada il sistema funesto, quasi fosse una legge, di educare i propri figli fin dalla culla con eccessiva tolleranza e dissolutezza. Ancora fanciulli, appena cominciano a balbettare qualche sillaba, si insegnano loro con gesti e parole cose vergognose e deprecabili. Sopraggiunto il tempo dello svezzamento, sono spinti non solo a dire, ma anche a fare ciò che è indecente. Nessuno di loro, a quella età, osa comportarsi onestamente, per timore di essere severamente castigato. Ben a ragione, pertanto, afferma un poeta pagano: «Essendo cresciuti tra i cattivi esempi dei nostri genitori, tutti i mali ci accompagnano dalla fanciullezza». E si tratta di una testimonianza vera: quanto più i desideri dei parenti sono dannosi ai figli, tanto più essi li seguono volentieri!

Raggiunta un’età un po’ più matura, istintivamente passano a misfatti peggiori, perché da una radice guasta cresce un albero difettoso, e ciò che una volta è degenerato, a stento si può ricondurre al suo giusto stato. E quando varcano la soglia dell’adolescenza, che cosa pensi che diventino? Allora rompono i freni di ogni norma: poiché è permesso fare tutto quello che piace, si abbandonano senza riguardo ad una vita depravata. Facendosi così volutamente schiavi del peccato, trasformano le loro membra in strumenti di iniquità; cancellano in se stessi, nella condotta e nei costumi, ogni segno di fede cristiana. Di cristiano si vantano solo del nome. Spesso gli sventurati millantano colpe peggiori di quelle realmente commesse: hanno paura di essere tanto più derisi quanto più si conservano puri.

Ecco i tristi insegnamenti a cui fu iniziato quest’uomo, che noi oggi veneriamo come santo, e che veramente è santo! Sciupò miseramente il tempo, dall’infanzia fin quasi al suo venticinquesimo anno. Anzi, precedendo in queste vanità tutti i suoi coetanei, si era fatto promotore di mali e di stoltezze. Oggetto di meraviglia per tutti, cercava di eccellere sugli altri ovunque e con smisurata ambizione: nei giuochi, nelle raffinatezze, nei bei motti, nei canti, nelle vesti sfarzose e morbide. E veramente era molto ricco ma non avaro, anzi prodigo; non avido di denaro, ma dissipatore; mercante avveduto, ma munificentissimo per vanagloria; di più, era molto cortese, accondiscendente e affabile, sebbene a suo svantaggio. Appunto per questi motivi, molti, votati all’iniquità e cattivi istigatori, si schieravano con lui. Così, circondato da facinorosi, avanzava altero e generoso per le piazze di Babilonia, fino a quando Dio, nella sua bontà, posando il suo sguardo su di lui, non allontanò da lui la sua ira e non mise in bocca al misero il freno della sua lode, perché non perisse del tutto.

La mano del Signore si posò su di lui e la destra dell’Altissimo lo trasformò, perché, per suo mezzo, i peccatori ritrovassero la speranza di rivivere alla grazia, e restasse per tutti un esempio di conversione a Dio.

Leggenda maggiore di san Bonaventura (cap. 1, FF 1027-1029)
Vi fu, nella città di Assisi, un uomo di nome Francesco, la cui memoria è in benedizione, perché Dio, nella sua bontà, lo prevenne con benedizioni straordinarie e lo sottrasse, nella sua clemenza, ai pericoli della vita presente e, nella sua generosità, lo colmò con i doni della grazia celeste.
Nell’età giovanile, crebbe tra le vanità dei vani figli degli uomini. Dopo un’istruzione sommaria, venne destinato alla lucrosa attività del commercio. Assistito e protetto dall’alto, benché vivesse tra giovani lascivi e fosse incline ai piaceri, non seguì gli istinti sfrenati dei sensi e, benché vivesse tra avari mercanti e fosse intento ai guadagni, non ripose la sua speranza nel denaro e nei tesori. Dio, infatti, aveva infuso nell’animo del giovane Francesco un sentimento di generosa compassione, che, crescendo con lui dall’infanzia, gli aveva riempito il cuore di bontà, tanto che già allora, ascoltatore non sordo del Vangelo, si propose di dare a chiunque gli chiedesse, soprattutto se chiedeva per amore di Dio. Una volta, tutto indaffarato nel negozio, mandò via a mani vuote contro le sue abitudini, un povero che gli chiedeva l’elemosina per amor di Dio. Ma subito, rientrato in se stesso, gli corse dietro, gli diede una generosa elemosina e promise al Signore Iddio che, d’allora in poi, quando ne aveva la possibilità, non avrebbe mai detto di no a chi gli avesse chiesto per amor di Dio.

E osservò questo proposito fino alla morte, con pietà instancabile, meritandosi di crescere abbondantemente nell’amore di Dio e nella grazia. Diceva, infatti, più tardi, quando si era ormai perfettamente rivestito dei sentimenti di Cristo, che, già quando viveva da secolare, difficilmente riusciva a sentir nominare l’amore di Dio, senza provare un intimo turbamento. La dolce mansuetudine unita alla raffinatezza dei costumi; la pazienza e l’affabilità più che umane, la larghezza nel donare, superiore alle sue disponibilità che si vedevano fiorire in quell’adolescente come indizi sicuri di un’indole buona, sembravano far presagire che la benedizione divina si sarebbe riversata su di lui ancora più copiosamente nell’avvenire. Un uomo di Assisi, molto semplice, certo per ispirazione divina, ogni volta che incontrava Francesco per le strade della città, si toglieva il mantello e lo stendeva ai suoi piedi, proclamando che Francesco era degno di ogni venerazione, perché di lì a poco avrebbe compiuto grandi cose, per cui sarebbe stato onorato e glorificato da tutti i cristiani.

Leggenda dei tre compagni (cap. 1, FF 1395-1397)
Francesco fu oriundo di Assisi, nella valle di Spoleto. Nacque durante un’assenza del padre, e la madre gli mise nome Giovanni; ma, tornato il padre dal suo viaggio in Francia, cominciò a chiamare Francesco il suo figlio.
Arrivato alla giovinezza, vivido com’era di intelligenza, prese a esercitare la professione paterna, il commercio di stoffe, ma con stile completamente diverso. Francesco era tanto più allegro e generoso, gli piaceva godersela e cantare, andando a zonzo per Assisi giorno e notte con una brigata di amici, spendendo in festini e divertimenti tutto il denaro che guadagnava o di cui poteva impossessarsi. A più riprese, i genitori lo rimbeccavano per il suo esagerato scialare, quasi fosse rampollo di un gran principe anziché figlio di commercianti. Ma siccome in casa erano ricchi e lo amavano teneramente, lasciavano correre, non volendolo contristare per quelle ragazzate. La madre, quando sentiva i vicini parlare della prodigalità del giovane, rispondeva: “Che ne pensate del mio ragazzo? Sarà un figlio di Dio, per sua grazia”.

Non era spendaccione soltanto in pranzi e divertimenti, ma passava ogni limite anche nel vestirsi. Si faceva confezionare abiti più sontuosi che alla sua condizione sociale non si convenisse e, nella ricerca dell’originalità, arrivava a cucire insieme nello stesso indumento stoffe preziose e panni grossolani. Per indole, era gentile nel comportamento e nel conversare. E seguendo un proposito nato da convinzione, a nessuno rivolgeva parole ingiuriose o sporche; anzi, pur essendo un ragazzo brillante e dissipato, era deciso a non rispondere a chi attaccava discorsi lascivi. Così la fama di lui si era diffusa in quasi tutta la zona, e molti che lo conoscevano, predicevano che avrebbe compiuto qualcosa di grande.

Queste virtù spontanee furono come gradini che lo elevarono fino a dire a se stesso: “Tu sei generoso e cortese verso persone da cui non ricevi niente, se non una effimera vuota simpatia; ebbene, è giusto che sia altrettanto generoso e gentile con i poveri, per amore di Dio, che contraccambia tanto largamente”. Da quel giorno incontrava volentieri i poveri e distribuiva loro elemosine in abbondanza, infatti benché fosse commerciante, aveva il debole di sperperare le ricchezze. Un giorno che stava nel suo negozio, tutto intento a vendere delle stoffe, si fece avanti un povero a chiedergli la elemosina per amore di Dio Preso dalla cupidigia del guadagno e dalla preoccupazione di concludere l’affare, egli ricusò l’elemosina al mendicante, che se ne uscì. Subito però come folgorato dalla grazia divina, rinfacciò a se stesso quel gesto villano, pensando: “Se quel povero ti avesse domandato un aiuto a nome di un grande conte o barone, lo avresti di sicuro accontentato. A maggior ragione avresti dovuto farlo per riguardo al re dei re e al Signore di tutti”.

Dopo questa esperienza, prese risoluzione in cuor suo di non negare mai più nulla di quanto gli venisse domandato in nome di un Signore così grande.

Le tre descrizioni muovono chiaramente da presupposti diversi, così come diversi risultano i ritratti che ci forniscono di Francesco: Tommaso da Celano ce lo presenta come un depravato destinato a compiere chissà quali nefandezze se Dio in persona non lo avesse preso per i capelli; Bonaventura prende atto della sua inclinazione al peccato ma la inserisce in un grandioso disegno della provvidenza divina; i tre compagni ce lo descrivono come una sorta stravagante bamboccione ma animato, in fondo, da buoni sentimenti.

Quale è il vero Francesco?
Ai posteri l’ardua sentenza, verrebbe da dire, se non fosse che i posteri siamo noi.

Pace e bene

Pietro Urciuoli




Francesco d’Assisi. Giullare, non trovatore [3^ parte]

Il presente post ha per oggetto le Fonti Francescane. Com’è noto trattasi di una selezione di testi del primo secolo di storia francescana pubblicata per la prima volta nel 1977 dalle EFR. Il volume si divide in due parti, la prima relativa a san Francesco, la seconda a santa Chiara d’Assisi; le riflessioni che seguono si limitano alla prima parte.Scritti di Francesco d’Assisi
Gli scritti di Francesco non pongono eccessivi problemi di autenticità, anche se Francesco non è presente in essi in egual misura. Gli autografi di cui disponiamo sono due: la Benedizione a frate Leone con le Lodi di Dio altissimo (di incerta datazione) e la Lettera a frate Leone (1223/1224), conservate rispettivamente ad Assisi e a Spoleto. Altri testi, invece, non sono stati scritti materialmente da Francesco ma sono stati da lui dettati a un frate che ha svolto mansioni di mero segretario: è il caso delle Lettere circolari (A tutti i chierici, Al capitolo generale e a tutti i frati, A tutti i fedeli, Ai reggitori dei popoli) che coprono un arco temporale che va dal 1220 agli ultimi anni della sua vita quando ormai si muoveva con difficoltà e del famosissimo Testamento (1226). Altrove il materiale estensore del testo ha svolto un ruolo più importante: è il caso delle Ammonizioni (1216/1221); le idee sono di Francesco, probabilmente esposte oralmente in varie occasioni, ma il testo vero e proprio è da attribuire al redattore che tali idee ha raccolto e organizzato. Ancora diverso, infine, è il caso delle due Regole (1221 e 1223) che sono frutto del lavoro collettivo di un gruppo di frati; Francesco faceva parte del gruppo ma la sua voce non era sempre preponderante.
Biografie di Francesco d’Assisi
In questo caso la questione si fa molto più controversa. Il dato da cui bisogna partire è il seguente. Alla morte di Francesco nel 1226 era ormai netta nell’Ordine dei Minori la contrapposizione tra una maggioranza, indicata come i frati della comunità, che premeva per una stabilizzazione e istituzionalizzazione dell’Ordine, e una minoranza, i cosiddetti spirituali, che aspiravano a un ritorno alle primitive origini del movimento francescano. All’interno di questa conflittualità si inserivano altre tensioni più o meno sotterranee: ad esempio, tra frati italiani e frati stranieri, tra frati laici e frati chierici. Questi conflitti interni durarono circa un secolo e si intrecciarono con altre vicende non meno dolorose che videro l’Ordine coinvolto in aspri contrasti con le istituzioni ecclesiastiche: gli anni dal 1252 al 1257 furono contrassegnati dallo scontro con il clero secolare dell’Università di Parigi; gli anni dal 1322 al 1328 dal conflitto con il papa Giovanni XXII riguardo alla povertà di Cristo e degli apostoli. Pertanto, l’arco temporale in cui si collocano le biografie di Francesco inserite nelle Fonti Francescane coincide con quello che è sicuramente il periodo più tormentato della storia dell’Ordine dei Minori; un corretto approccio a tali testi non può non tener conto di questo fattore.

La prima biografia di cui disponiamo è la Vita prima scritta da Tommaso da Celano nel 1229 su incarico di Gregorio IX; si trattava di offrire all’intera cristianità il volto di un santo segnato dal prodigio delle stimmate e canonizzato l’anno precedente. Gregorio IX scelse Tommaso sia per le sue note capacità letterarie sia perché aveva conosciuto Francesco personalmente, pur non essendo stato tra i suoi primissimi compagni; era entrato nell’Ordine nel 1215, forse accolto da Francesco stesso. Il Celano per adempiere al compito affidatogli dal papa attinse certamente ai suoi personali ricordi e a quelli dei primi frati nonché agli atti del processo di canonizzazione. Il testo è diviso in tre parti: la prima riguarda la giovinezza di Francesco e i primissimi anni della fraternitas, la seconda gli ultimi due anni della sua vita e il suo transito, la terza la sua canonizzazione. Il testo è ricco di luci e ombre: per un verso è debitore della tradizione agiografica del tempo – si legga la tenebrosa descrizione della giovinezza di Francesco –, per un altro se ne distacca rivelando tratti di sorprendente modernità – notevole è l’analisi dell’evoluzione psicologica di Francesco durante il suo cammino di conversione. In ogni caso, indipendentemente da valutazioni di carattere letterario, la Vita prima costituisce una fonte insostituibile per la conoscenza di Francesco sia perché è la prima in ordine di tempo sia perché è basata su fonti ed esperienze dirette.
L’opera di Tommaso non riscosse unanimi consensi: scontentava gli assisani di cui evidenziava la durezza di cuore; il ceto mercantile di cui deplorava la ricerca di guadagno; umiliava i genitori di Francesco, ritraendoli come genitori insensibili e preoccupati solo del loro ruolo sociale; l’Ordine stesso, del quale non evidenziava lo sviluppo prodigioso; e scontentava anche il papa perché non esaltava adeguatamente una Chiesa che aveva canonizzato il santo a tempo di record. Infine, anche dal punto di vista della ricostruzione biografica si presentava piuttosto lacunosa. E così il ministro generale Crescenzo da Jesi nel Capitolo di Genova del 1244 impegnò Tommaso in una nuova biografia e chiese a tutti i frati di inviare eventuali ricordi e testimonianze scritte. Questi documenti giunsero a Crescenzo nel 1246 accompagnati da una lettera a firma di Leone, Angelo e Rufino – la cosiddetta Lettera di Greccio del 11 agosto 1246 – che si fecero in un certo senso garanti del materiale. Tommaso nel 1248 licenziò la cosiddetta Vita seconda che si componeva di due parti di diversa lunghezza: la prima, di 17 capitoli, completava il racconto della biografia di Francesco fatto nella Vita prima; la seconda, di 166 capitoli, era concepita come una sorta di florilegio delle virtù del santo. Normalmente in questi casi le cartelle preparatorie, le minute e le bozze vengono eliminate una volta terminata l’opera; in questo caso non fu così e molti documenti inviati a Crescenzo rimasero in circolazione. È questa una vicenda di importanza fondamentale in quanto tali documenti furono utilizzati negli anni successivi per l’elaborazione di altri testi.
Anche questa biografia non riuscì a soddisfare tutti i frati – divisi, come si è detto, in varie fazioni – ma soprattutto essa si dimostrava carente in un punto: il Capitolo di Genova del 1244 aveva stabilito che la nuova biografia avrebbe dovuto anche alimentare la venerazione di san Francesco offrendo il racconto dei miracoli che aveva operato e che continuava a operare e questo aspetto non era stato per nulla preso in considerazione dal Celano. E così il ministro generale Giovanni da Parma commissionò a Tommaso una terza opera. Tommaso si rimise al lavoro e nel 1252 scrisse il Trattato dei miracoli.
Col passare degli anni l’Ordine era cresciuto enormemente in numero e in prestigio e si sentì il bisogno di una biografia che presentasse ai frati ormai sparsi in tutta Europa non tanto il frate Francesco quanto il santo Francesco, l’alter Christus, l’uomo insignito delle sacre stimmate che Dio aveva inviato per sostenere la sua Chiesa. Il Capitolo di Narbona del 1260 affidò l’incarico di redigere una nuova biografia a Bonaventura da Bagnoregio, allora ministro generale dell’Ordine nonché illustre teologo. Bonaventura non aveva conosciuto né Francesco né i primi compagni; nato intorno al 1221 si era recato a studiare a Parigi nel 1235 – dove era rimasto fino al 1257 – e nel 1243 era entrato nell’Ordine; non poteva quindi basarsi su fonti dirette o su ricordi personali. Per scrivere la sua biografia attinse essenzialmente alla trilogia del Celano che rielaborò in chiave teologica utilizzando le sue eccelse doti di filosofo e di teologo; nacquero così nel 1262 la Leggenda maggiore e un suo sunto a uso liturgico, la Leggenda minore. La Leggenda maggiore piacque tanto che il Capitolo di Parigi del 1266 dispose la distruzione di tutte le precedenti biografie di Francesco in modo che non vi potesse essere confusione sulla corretta interpretazione della sua figura e delle sue volontà. Così la Legenda nova (il blocco di Bonaventura) diventava la biografia ufficiale di Francesco e andava a sostituire quella che assunse il nome di Legenda antiqua (il blocco del Celano).
La drastica decisione del Capitolo di Parigi incontrò l’ostilità di molti frati e in special modo degli spirituali, contrari alla piega clericale che l’Ordine ormai aveva assunto. Essi cercarono di recuperare tutto il materiale scampato alla distruzione – in particolare ciò che era rimasto delle bozze inviate a Crescenzo da Jesi nel 1246 – e lo rielaborarono dando vita a nuove legendae il cui scopo era presentare il vero spirito delle origini del movimento francescano. Si trattava quindi di biografie che non avevano il carattere dell’ufficialità – non erano scritte, cioè, su commissione come le biografie di Tommaso e Bonaventura – ed erano destinate a un circuito limitato se non addirittura clandestino. Sono testi molto disomogenei: vi riconoscono parti che sono la trascrizione fedele delle cartelle preparatorie del 1246, parti che costituiscono una rielaborazione di vari frammenti documentali e parti aggiunte ex novo. In alcuni casi gli autori inserirono nel testo la pericope «nos qui cum eo fuimus» [noi che fummo con lui] a significare polemicamente che il loro scritto, a differenza della biografia di Bonaventura, non era frutto di una operazione a posteriori svolta tavolino ma si basava sulle testimonianze dirette dei primi frati; una sorta di sigillo d’autenticità. La più nota tra queste biografie non ufficiali è certamente la Leggenda dei tre compagni, così detta perché nei manoscritti giunti fino a noi è preceduta dalla lettera di Leone, Angelo e Rufino del 1246; trattasi però di una denominazione impropria in quanto, come si è detto, questa lettera accompagnava tutto il materiale inviato a Crescenzo; nessuno dei tre è quindi il reale estensore del testo. L’importanza della Leggenda dei tre compagni risiede nel fatto che i primi 17 capitoli provengono sicuramente dal materiale del 1246 e quindi sono stati fonte diretta della Vita seconda; gli altri capitoli sono frutto di una aggiunta successiva, avvenuta in epoca post-bonaventuriana. Un’altra biografia non ufficiale è quella del cosiddetto Anonimo perugino; il titolo è dovuto al fatto che l’autore di questo manoscritto, ritrovato in un’unica copia a Perugia, è ignoto e si presenta come un discepolo di Francesco. Il testo presenta notevoli affinità con la Leggenda dei tre compagni anche se non è chiaro se sia stato scritto prima o dopo di essa.
Ma non è ancora finita. Il Capitolo di Padova del 1276, constatato che l’editto di Parigi aveva acuito i contrasti più che appianarli, ordinò una nuova ricerca di notizie su Francesco. Tra la fine del 1200 e l’inizio del 1300 si ebbe così una nuova produzione di scritti biografici, perlopiù anonimi che però vennero attribuiti ai primi compagni e in particolare a frate Leone. Quasi tutto questo nuovo materiale biografico fu incorporato in due compilazioni. La prima è la Leggenda perugina, databile verso il 1310; come per la Leggenda dei tre compagni la sua importanza risiede nel fatto che parte di essa – per la precisione i numeri dall’1 al 97 – proviene sicuramente dal pacchetto inviato a Crescenzo nel 1246 o è ad esso addirittura anteriore. La seconda è lo Specchio di perfezione che fu pubblicata nel 1898 da Paul Sabatier come «Leggenda antichissima di san Francesco» e attribuita a frate Leone che l’avrebbe scritta nel 1227, prima ancora, quindi, delle opere del Celano (da cui il nome di Leggenda antichissima). Si trattava però di un errore di datazione del grande storico francese; oggi tutti gli studiosi concordano sul fatto che sia stata scritta verso il 1318. Il testo ha molto in comune con la Leggenda perugina rispetto alla quale ha sicuramente un’importanza secondaria.
Altri testi, scritti da frati appartenenti alla corrente degli spirituali, completano il quadro. Due di essi hanno un carattere aneddotico/leggendario: si tratta degli Actus beati Francisci et sociorum eius e dei famosissimi Fioretti. Il primo è una raccolta di 76 aneddoti tramandati oralmente e risalente al 1330, il secondo una selezione di 53 capitoli degli Actus scritta in volgare nel 1390. Vi è poi un poemetto allegorico il Sacrum commercium sancti Francisci cum domina Paupertate, di autore e datazione ignoti.  Infine sono da citare l’Albero della vita crocifissa di Gesù di Ubertino da Casale e la Cronaca delle sette tribolazioni dell’Ordine dei Minori di Angelo Clareno, due importantissimi esponenti della corrente degli spirituali.

Da questa sia pur sintetica descrizione si evince che siamo di fronte a un groviglio di fonti documentali dirette e secondarie, un intricato puzzle di cui neanche si conoscono tutte le tessere; un complesso e articolato campo di indagine che va sotto il nome di «questione francescana», avviato sul finire del 1800 da Paul Sabatier e che ancora oggi si arricchisce di nuovi contributi di storici e filologi.
A noi che abbiamo esigenze di tutt’altra natura basta avere cognizione che le biografie di Francesco non costituiscono affatto un insieme omogeneo di testi e che ognuno di essi risente in maniera più o meno marcata di vari fattori: le contingenze storiche, l’appartenenza dell’autore a una corrente piuttosto che a un’altra, gli scopi che questi voleva raggiungere con il suo lavoro, ecc.. Conseguentemente, nessuna di queste biografie può considerarsi quella giusta, quella che restituisce il vero Francesco: ogni biografia può darci informazioni giuste o sbagliate, dipende da cosa vi cerchiamo; e neanche è corretto utilizzare indifferentemente l’una o l’altra biografia, magari adoperando in maniera acritica l’indice tematico in calce alle Fonti Francescane. Valga come esempio quanto afferma l’illustre storico Theophile Desbonnets a proposito della Leggenda maggiore: «una perfetta sintesi di vita spirituale ma che rappresenta anche l’operazione perfettamente riuscita di imbalsamazione di un morto al quale si vuole negare ogni interferenza con la vita reale (T. Desbonnets, Dall’intuizione all’istituzione, Ed. Biblioteca Francescana, Milano 1986, p.176); a significare che il testo bonaventuriano costituisce sicuramente una eccelsa interpretazione mistico-teologica di san Francesco d’Assisi ma che non è affatto attendibile da un punto di vista biografico e storico, trattandosi del lavoro di un teologo che non aveva conosciuto Francesco e che intendeva presentare il santo non l’uomo.
In definitiva, il vero Francesco non lo fornisce né una singola biografia né tutte le biografie messe insieme. Ciò però non deve costituire motivo di scoraggiamento. Certamente non siamo storici o filologi di professione né ci viene chiesto di diventarlo; ma è necessario essere coscienti dell’importanza di una ricerca personale e di fraternità che sappia coniugare la sincera devozione con l’onestà intellettuale; una ricerca nella quale nessuna sintesi chiuda le porte a nuove ipotesi.

Pietro Urciuoli, OFS Avellino Roseto