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VENGA IL TUO REGNO. SIA FATTA LA TUA VOLONTÀ

padre-nostroDal trattato «Sul Padre nostro» di san Cipriano, vescovo e martire
(Nn. 13-15; CSEL 3, 275-278)
Venga il tuo regno. Sia fatta la tua volontà

«Venga il tuo regno». Domandiamo che venga a noi il regno di Dio, così come chiediamo che sia santificato in noi il suo nome. Ma ci può essere un tempo in cui Dio non regna? O quando presso di lui può cominciare ciò che sempre fu e mai cessò di esistere? Non è questo che noi chiediamo, ma piuttosto che venga il nostro regno, quello che Dio ci ha promesso, e che ci è stato acquistato dal sangue e dalla passione di Cristo, perché noi, che prima siamo stati schiavi del mondo, possiamo in seguito regnare sotto la signoria di Cristo. Così egli stesso promette, dicendo: «Venite, benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo» (Mt 25, 34).
In verità, fratelli carissimi, lo stesso Cristo può essere il regno di Dio di cui ogni giorno chiediamo la venuta, di cui desideriamo vedere, al più presto, l’arrivo per noi. Egli infatti è la risurrezione, poiché in lui risorgiamo. Per questo egli può essere inteso come il regno di Dio, giacché in lui regneremo. Giustamente dunque chiediamo il regno di Dio, cioè il regno celeste, poiché vi è anche un regno terrestre. Ma chi ha ormai rinunziato al mondo del male, è superiore tanto ai suoi onori quanto al suo regno.
Proseguendo nella preghiera diciamo: «Sia fatta la tua volontà in cielo e in terra», non tanto perché faccia Dio ciò che vuole, ma perché possiamo fare noi ciò che Dio vuole. Infatti chi è capace di impedire a Dio di fare ciò che vuole? Siamo noi invece che non facciamo ciò che Dio vuole, perché contro di noi si alza il diavolo ad impedirci di orientare il nostro cuore e le nostre azioni secondo il volere divino. Per questo preghiamo e chiediamo che si faccia in noi la volontà di Dio. E perché questa si faccia in noi abbiamo bisogno della volontà di Dio, cioè della sua potenza e protezione, poiché nessuno è forte per le proprie forze, ma lo diviene per la benevolenza e la misericordia di Dio. Infine anche il Signore, mostrando che anche in lui c’era la debolezza propria dell’uomo, disse: «Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice!» (Mt 26, 39). E offrendo l’esempio ai suoi discepoli perché non facessero la volontà loro, ma quella di Dio, aggiunse: «Però non come voglio io, ma come vuoi tu».
La volontà di Dio dunque è quella che Cristo ha eseguito e ha insegnato. È umiltà nella conversazione, fermezza nella fede, discrezione nelle parole, nelle azioni giustizia, nelle opere misericordia, nei costumi severità. Volontà di Dio è non fare dei torti e tollerare il torto subito, mantenere la pace con i fratelli, amare Dio con tutto il cuore, amarlo in quanto è Padre, temerlo in quanto è Dio, nulla assolutamente anteporre a Cristo, poiché neppure lui ha preferito qualcosa a noi. Volontà di Dio è stare inseparabilmente uniti al suo amore, rimanere accanto alla sua croce con coraggio e forza, dargli ferma testimonianza quando è in discussione il suo nome e il suo onore, mostrare sicurezza della buona causa, quando ci battiamo per lui, accettare con lieto animo la morte quando essa verrà per portarci al premio.
Questo significa voler essere coeredi di Cristo, questo è fare il comando di Dio, questo è adempiere la volontà del Padre.

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CREDO IN UN SOLO DIO …

“Credo in un solo Dio” è il video tratto dall’incontro di formazione tenuto da p. Gianluca Manganelli alla Fraternità Ofs di Avellino – Roseto. L’argomento è il “Credo”, analizzato nella sua parte iniziale, fino all’incarnazione che sarà trattata nell’incontro del 15 dicembre. Anche se la qualità e l’audio non sono eccezionali, con un po’ di attenzione, si riesce comunque a seguire bene. In seguito ci organizzeremo meglio, per migliorare la qualità video e, soprattutto, audio, affinché anche da casa si possa comunque coltivare la propria fede, anche quando gli impegni della vita non ci lasciano un attimo di tregua per dedicarci alla nostra anima, l’unica parte di noi che non si corrompe e che nessuno può rubarci.

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IL DISCORSO DELLA MONTAGNA DEL DIALOGO INTRARELIGIOSO

Raimundo Panikkar

Quando entri in un dialogo intrareligioso non pensare prima ciò che tu devi credere.

Quando tu dai testimonianza della tua fede non difendere te stesso o i tuoi interessi costituiti, per quanto ti possano apparire sacri. Fa’ come gli uccelli del cielo che cantano e volano e non difendono la loro musica o la loro bellezza.

Quando dialoghi con qualcuno, guarda il tuo interlocutore come una esperienza rivelativa, come tu guarderesti – o ti piacerebbe guardare – i gigli del campo.

Quando intraprendi un dialogo intrareligioso cerca di rimuovere la trave dal tuo occhio, prima di rimuovere la pagliuzza dall’occhio del tuo vicino.

Beato te quando non ti senti autosufficiente mentre sei in dialogo.

Beato te quando credi all’altro perché tu credi in Me.

Beato te quando affronti incomprensioni da parte della tua comunità o di altri a causa della tua fedeltà alla verità.Beato te quando non attenui le tue convinzioni e tuttavia non le presenti come norme assolute.

Guai a voi, teologi ed accademici, quando trascurate ciò che gli altri dicono perché lo considerate imbarazzante o non sufficientemente “scientifico”.

Guai a voi, praticanti delle religioni, quando non ascoltate il grido dei piccoli.

Guai a voi, autorità religiose, perché impedite il cambiamento e la (ri)conversione.

Guai a voi, gente religiosa, perché monopolizzate la religione e soffocate lo Spirito che soffia dove vuole e come vuole.

di Raimundo Panikkar

In Il dialogo intrareligioso, Cittadella Editrice, 1998, pp. 12-13




VIA CRUCIS 2012 – Il discorso del Santo Padre Benedetto XVI

papa Benedetto XVI alla via crucis 2012

Cari fratelli e sorelle,
abbiamo rievocato, nella meditazione, nella preghiera e nel canto, il cammino di Gesù sulla via della Croce: una via che sembrava senza uscita e che invece ha cambiato la vita e la storia dell’uomo, ha aperto il passaggio verso i «cieli nuovi e la nuova terra» (cfr Ap 21,1). Specialmente in questo giorno del Venerdì Santo, la Chiesa celebra, con intima adesione spirituale, la memoria della morte in croce del Figlio di Dio, e nella sua Croce vede l’albero della vita, fecondo di una nuova speranza.
L’esperienza della sofferenza segna l’umanità, segna anche la famiglia; quante volte il cammino si fa faticoso e difficile! Incomprensioni, divisioni, preoccupazione per il futuro dei figli, malattie, disagi di vario genere. In questo nostro tempo, poi, la situazione di molte famiglie è aggravata dalla precarietà del lavoro e dalle altre conseguenze negative provocate dalla crisi economica. Il cammino della Via Crucis, che abbiamo spiritualmente ripercorso questa sera, è un invito per tutti noi, e specialmente per le famiglie, a contemplare Cristo crocifisso per avere la forza di andare oltre le difficoltà. La Croce di Gesù è il segno supremo dell’amore di Dio per ogni uomo, è la risposta sovrabbondante al bisogno che ha ogni persona di essere amata. Quando siamo nella prova, quando le nostre famiglie si trovano ad affrontare il dolore, la tribolazione, guardiamo alla Croce di Cristo: lì troviamo il coraggio per continuare a camminare; lì possiamo ripetere, con ferma speranza, le parole di san Paolo: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? … Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati» (Rm 8, 35-39)Nelle afflizioni e nelle difficoltà non siamo soli; la famiglia non è sola: Gesù è presente con il suo amore, la sostiene con la sua grazia e le dona l’energia per andare avanti. Ed è a questo amore di Cristo che dobbiamo rivolgerci quando gli sbandamenti umani e le difficoltà rischiano di ferire l’unità della nostra vita e della famiglia. Il mistero della passione, morte e risurrezione di Cristo incoraggia a camminare con speranza: la stagione del dolore e della prova, se vissuta con Cristo, con fede in Lui, racchiude già la luce della risurrezione, la vita nuova del mondo risorto, la pasqua di ogni uomo che crede alla sua Parola.
In quell’Uomo crocifisso, che è il Figlio di Dio, anche la stessa morte acquista nuovo significato e orientamento, è riscattata e vinta, è il passaggio verso la nuova vita: «se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24). Affidiamoci alla Madre di Cristo. Lei che ha accompagnato il suo Figlio sulla via dolorosa, Lei che stava sotto la Croce nell’ora della sua morte, Lei che ha incoraggiato la Chiesa al suo nascere perché viva alla presenza del Signore, conduca i nostri cuori, i cuori di tutte le famiglie attraverso il vasto mysterium passionis verso il mysterium paschale, verso quella luce che prorompe dalla Risurrezione di Cristo e mostra la definitiva vittoria dell’amore, della gioia, della vita, sul male, sulla sofferenza, sulla morte. Amen

dal sito: www.vaticaninsider.it




L’AMORE FRATERNO

La lavanda dei piedi

Quando si parla dell’Amore fraterno, si parla dell’Amore di Gesù per l’uomo e dell’uomo per l’uomo.
Vivere l’“amore fraterno” in fraternità richiede un continuo esercizio. È come un’orchestra, dove ciascuno si prepara personalmente, nello studio del suo strumento, ma, poi, si esercita insieme a tutti gli altri componenti; la stessa cosa avviene in fraternità.
L’amore fraterno è a immagine e somiglianza della SS. Trinità che è la relazione tra le tre Persone: Padre, Figlio e Spirito Santo.
Allo stesso modo, per l’uomo, stare accanto all’altro, significa mettersi in relazione.
Il contrario della relazione è l’egoismo, da cui deriva la chiusura, mentre la realizzazione della “relazione” è il dono.
Nel capitolo XIII, S. Giovanni Apostolo ci racconta la lavanda dei piedi che diventa il segno dell’amore “concreto” di Gesù per gli Apostoli.
Da questo segno, gli Apostoli devono apprendere, sull’esempio di Gesù, come amare il fratello, attraverso il servizio.
Durante l’Ultima Cena, Gesù, dopo aver spezzato il pane e versato il vino, alzò gli occhi al cielo e disse: “Padre, è giunta l’ora, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te…” (Gv 17,1).
Dopo la lode al Padre, il primo pensiero di Gesù è rivolto a coloro che il Padre gli ha donato. Questa preghiera mette in risalto il ruolo di Gesù: unico mediatore tra cielo e terra e tra l’uomo e il suo simile.
Gesù, nei momenti prima di morire, riesce a trovare la forza per elogiare i suoi discepoli, anche se sa che, in un modo o nell’altro, lo tradiranno.Gesù prega per loro (e per tutti noi), perché vuole la loro salvezza e, quindi, la felicità.
«Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo …» (Gv 17,11).
Gesù, nella preghiera al Padre, dice che sta’ lasciando la fragilità della condizione umana, per unirsi a Lui; gli apostoli (e tutti noi), invece, sono ancora in questa fragilità.
«Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi …» (Gv 17,11).
Gesù vuole che tutti i suoi discepoli siano uniti, così come Lui è unito al Padre. Esiste un abbraccio eterno tra Padre e Figlio che è lo Spirito Santo, cioè il dono che le due Persone della Trinità si fanno eternamente.
Sull’esempio del Padre e del Figlio, Gesù vuole che gli uomini siano uniti tra loro.
S. Francesco che ha “scoperto” la vita fraterna, nel suo testamento dice che, a un certo punto, il Signore gli dona dei fratelli (cfr. FF. 116). In un primo momento, infatti, Francesco pensava che la sua fosse una vocazione personale e, invece, come svegliandosi da un sogno, all’improvviso, si ritrova circondato dai fratelli che il Signore gli ha donato.
Per Francesco, la fraternità si identificava con il volto di Bernardo, di Leone e degli altri frati e ogni fratello che gli arriva, lo considera come un gesto d’amore del Signore. I fratelli che ci ritroviamo accanto, quindi, è il regalo che Gesù ci ha fatto.
Gesù da’ una dimensione ben precisa dell’amore fraterno: il servizio all’altro, secondo il quale, chi vuole essere il primo si faccia l’ultimo.
Gesù e Francesco, li possiamo considerare come una mamma che, più di ogni altro, cerca, per vocazione, di conservare unita la famiglia.
Francesco, come una madre che cuce le relazioni familiari, suggerisce lo stile di vita dei frati, perché non vi siano separazioni.
Nella lettera ad un ministro (il superiore di un convento), Francesco dice che quelle cose che gli sono di impedimento, per la sua crescita spirituale, deve considerarle come un dono. La persona o la situazione che ci ostacola nella nostra crescita spirituale dobbiamo considerarla una grazia, anche se, istintivamente la consideriamo come un impedimento (cfr. FF. 234).
Dobbiamo amare nostro fratello per quello che è, con tutti i suoi difetti e non dobbiamo pretendere che diventi migliore.
Amare una persona che ci costa amare vale di più che stare in un eremo, cioè faccia a faccia con Gesù. In questa sua convinzione, Francesco quasi sfida il ministro, cui rivolge la lettera, dicendogli che nella misura in cui riesce ad amare questo fratello, tanto più si riconosce il suo amore per il Signore e per lo stesso Francesco.
Francesco d’Assisi, sulla scia di Gesù, sottolinea l’importanza del perdono che non deve essere atteso, ma donato al fratello che riteniamo ci abbia offeso. “Tra di voi non sia così”, dice Gesù, sottolineando l’importanza di comportarci in controtendenza al mondo.
Una fraternità che non cresce si deve chiedere: ma l’amore circola tra noi? L’unità è la forza che può cambiare il corso dei secoli. Non andate a dormire, perciò, se non abbiamo rimarginato anche le più piccole divisioni del quotidiano, perché queste sono come il cancro che si insinua nel nostro organismo e, un po’ alla volta, lo uccide.
L’amore per l’altro, per noi, deve essere al di sopra dell’amore per Francesco, come lui stessi ci dice.
Questo sforzo di amare nostro fratello non lo facciamo da soli ma, come ci dice S. Giovanni apostolo nel capitolo XVII, è Gesù stesso che prega per noi e per la nostra umanità.
Amare il fratello è uno sforzo che necessita di allenamento, come un atleta che si prepara per una gara, riuscendo a percorrere distanze sempre maggiori e non come chi, di punto in bianco, pretende di poter correre per un’ora senza fermarsi.

Dalle riflessioni di P. Gianluca Manganelli

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QUARESIMA, ISTRUZIONI D’USO

di penitenze se ne fanno già tante nella vita quotidiana, non c’è bisogno di aggiungerne altre secondo la liturgia cattolica.

… per un significato più appropriato delle ceneri e della quaresima.

Con il mercoledì delle ceneri inizia la quaresima. Per comprendere il significato di questo periodo occorre esaminare la diversa liturgia pre e post-conciliare. Prima della riforma liturgica, l’imposizione delle ceneri era accompagnata dalle parole Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai, secondo la maledizione del Signore all’uomo peccatore contenuta nel Libro della Genesi (Gen 3,19). E con questo lugubre monito iniziava un periodo caratterizzato dalle penitenze, dai sacrifici e dalle mortificazioni. Oggi l’imposizione delle ceneri è accompagnata dall’invito evangelico Convèrtiti e credi al vangelo, secondo le prime parole pronunciate da Gesù nel Vangelo di Marco (Mc 1,15).

Un invito al cambiamento di vita, orientando la propria esistenza al bene dell’altro e a dare adesione alla buona notizia di Gesù. In queste due diverse impostazioni teologiche sta il significato della quaresima. Mai Gesù nel suo insegnamento ha invitato a fare penitenza, a mortificarsi, e tanto meno a fare sacrifici. Anzi, ha detto il contrario: Misericordia io voglio e non sacrifici (Mt 12,7). I sacrifici centrano l’uomo su se stesso, sulla propria perfezione spirituale, la misericordia orienta l’uomo al bene del fratello. Sacrifici, penitenze, mortificazioni infatti non fanno che centrare l’uomo su se stesso, e nulla può essere più pericoloso e letale di questo atteggiamento.

Paolo di Tarso, che in quanto fanatico fariseo era un convinto assertore di queste pratiche, una volta conosciuto Gesù, arriverà a scrivere nella Lettera ai Colossesi: Nessuno dunque vi condanni in fatto di cibo o di bevanda, o per feste, noviluni e sabati… Se siete morti con Cristo agli elementi del mondo, perché come se viveste ancora nel mondo, lasciarvi imporre precetti quali: Non prendere, non gustare, non toccare? Sono tutte cose destinate a scomparire con l’uso, prescrizioni e insegnamenti umani, che hanno una parvenza di sapienza con la loro falsa religiosità e umiltà e mortificazione del corpo, ma in realtà non hanno alcun valore se non quello di soddisfare la carne (Col 2, 16.20-23). Paolo aveva compreso molto bene che queste pratiche centrano l’uomo su se stesso, nel miraggio di una impossibile perfezione spirituale, tanto lontana e irraggiungibile quanto grande è la propria ambizione.

Per questo Gesù invita invece al dono di sé, immediato e concreto, tanto quanto è grande la propria capacità di amare. La quaresima non è orientata al venerdì santo, ma alla Pasqua di risurrezione. Per questo non è tempo di mortificazioni, ma di vivificazioni. Si tratta di scoprire forme nuove originali, inedite di perdono, di generosità e di servizio, che innalzano la qualità del proprio amore per metterlo in sintonia con quello del Vivente, e così sperimentare la Pasqua come pienezza della vita del Cristo e propria. Per questo oggi c’è l’imposizione delle ceneri. Pratica che si rifà all’uso agricolo dei contadini che conservavano tutto l’inverno le ceneri del camino, per poi, verso la fine dell’inverno, spargerle sul terreno, come fattore vitalizzante per dare nuova energia alla terra.

Ed è questo il significato delle ceneri: l’accoglienza della buona notizia di Gesù (Convertiti e credi al vangelo) è l’elemento vitale che vivifica la nostra esistenza, fa scoprire forme nuove originali di amore, e fa fiorire tutte quelle capacità di dono che sono latenti e che attendevano solo il momento propizio per emergere. Auguri!

Padre Alberto Maggi

22 febbraio 2012




SPIRITUALITÀ E RELIGIONE

frei Betto

Spiritualità e religione si completano (sono complementari) ma non si confondono. La spiritualità esiste da quando l’essere umano è apparso sulla terra, più di 200 mila anni fa. Le religioni invece sono recenti, non superano gli otto mila anni di esistenza.
La religione è l’istituzionalizzazione della spiritualità, come la famiglia lo è dell’amore. Ci sono relazioni amorose senza costituire la famiglia; allo stesso modo c’è chi coltiva la sua spiritualità senza identificarsi con nessuna religione. Vi è anche una spiritualità istituzionalizzata senza essere una religione, come nel caso del buddismo, che è una filosofia della vita.
Le religioni in linea di massima dovrebbero essere fonte ed espressione di spiritualità. Ma non sempre questo accade. In generale la religione si presenta come un catalogo di regole, dottrine e proibizioni, mentre la spiritualità è libera e creativa. Nella religione predomina la voce esteriore, quella dell’autorità religiosa; nella spiritualità predomina la voce interiore, il “tocco” divino.
La religione è una istituzione; la spiritualità è una esperienza di vita. Nella religione c’è lotta di potere, gerarchia, ci sono scomuniche e accuse di eresia. Nella spiritualità prevalgono la predisposizione al servizio, la tolleranza verso la fede (o l’incredulità ) degli altri, la saggezza di non trasformare il diverso in avversario. La religione colpevolizza; la spiritualità induce a imparare dall’errore. La religione minaccia; la spiritualità stimola. La religione rafforza la paura; la spiritualità la fiducia. La religione dà risposte; la spiritualità suscita domande. Le religioni provocano divisioni e guerre; le spiritualità, vicinanza e rispetto.Nella religione si crede; nella spiritualità si vive. La religione alimenta l’ego poiché una si crede migliore dell’altra; la spiritualità trascende l’ego e valorizza tutte le religioni che promuovono la vita e il bene. La religione favorisce la devozione; la spiritualità la meditazione. La religione promette la vita eterna; la spiritualità la anticipa. Nella religione a volte Dio è appena un’idea; nella spiritualità è una esperienza ineffabile. Vi sono fedeli che fanno della religione un fine e vi si consacrano anima e corpo. Tuttavia ogni religione, come suggerisce l’etimologia della parola (religar), è un mezzo per amare il prossimo, la natura e Dio. Una religione che non suscita amore , compassione, attenzione per la natura e gioia, è buona solo per essere gettata nel fuoco. E’ come un fiore di plastica, bello ma senza vita. Bisogna stare attenti però a non gettare il bambino con l’acqua sporca. La sfida è quella di ridurre la distanza tra religione e spiritualità, e fare attenzione a non abbracciare una religione vuota di spiritualità né una spiritualità solipsista, indifferente alle religioni. Bisogna fare delle religioni le fonti della spiritualità, della pratica dell’amore e della giustizia, della compassione e del servizio. Gesù è l’esempio di colui che rompe con la religione sclerotizzata del suo tempo e vive e annuncia una nuova spiritualità alimentata dalla vita comunitaria, centrata in una attitudine amorosa, nella intimità con Dio, nella giustizia per i poveri, nel perdono. Da questa spiritualità è risultato il cristianesimo. Ci sono teologi che sostengono che il cristianesimo dovrebbe essere un movimento di discepoli di Gesù e non una religione così gerarchizzata e la cui struttura di potere assorbe una parte considerevole della sua energia spirituale.
Il fedele che pratica tutti i riti della sua religione, che accetta i comandamenti e paga le decime ma è intollerante con chi non la pensa come lui, potrà essere un ottimo religioso, ma privo di spiritualità. E’ come una famiglia priva di amore. L’apostolo Paolo descrive magistralmente cosa è la spiritualità nel capitolo 13 della prima lettera ai Corinzi. Gesù lo esemplifica nella parabola del buon samaritano (Lc 10, 25-37) e fa una critica pungente della religione in Matteo 23.
La spiritualità dovrebbe essere la porta d’ingresso delle religioni. Prima di appartenere ad una chiesa o a una determinata confessione religiosa, sarebbe meglio cercare di fare l’esperienza di Dio, che consiste nell’aprirsi al mistero, imparare a pregare e a meditare, e a penetrare il senso dei testi sacri.

Frei Betto

* articolo pubblicato su Koinonia




L’INCONTRO DI GESÙ CON IL GIOVANE RICCO

«Mentre usciva per mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?”. Gesù gli disse: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre”.
Egli allora gli disse: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”. Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi”. Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni». (Mc 10, 17-22)

In questo passo del Vangelo, il soggetto principale è Gesù che si mette in viaggio.
Da un certo punto in poi della sua vita, infatti, Gesù inizia il suo pellegrinaggio verso Gerusalemme, dove compirà il motivo per cui è venuto sulla terra, e tutto ciò che gli accade lungo il tragitto, è in funzione di quest’obiettivo.
In quest’episodio, mentre Gesù sta per riprendere il suo cammino, un tale gli corre incontro e gli si pone davanti. Quest’uomo si presuppone sia un giovane, ma questo non è specificato dall’evangelista.
Marco ci racconta che il tale corse dietro Gesù, quasi bruciando le tappe della sua vocazione ma questa sua buona volontà sarà raggelata alla fine.
Egli fa una cosa scandalosa, per la cultura ebraica, perché si mette in ginocchio di fronte a Gesù. Per la legge ebraica, infatti, solo Dio può essere adorato, perciò il gesto che compie questa persona, nei confronti di Gesù, è scandaloso. Il tale, però, sente che Gesù è una persona “speciale”, infatti, l’appellativo che gli da’, è: “Maestro buono”.
La “bontà” è una caratteristica che può essere attribuita solo al Signore, infatti, Gesù domanda al tale il perché di questa sua denominazione; evidentemente questa persona percepiva la divinità di Gesù.
Il ricco chiede a Gesù come fare per assicurarsi la vita eterna. Questa domanda, però, non era scontata, per la cultura del tempo, perché non tutti erano concordi – in particolare alcune sette di ebrei – sull’esistenza di una vita eterna.
Questo è il segno che il tale crede nella vita eterna, ma anche che Gesù ne abbia parlato tanto da suscitare la curiosità degli ascoltatori.Il ricco – che si presuppone sia di giovane età – ha sentito parlare Gesù della vita eterna e vuole sapere da Lui come arrivarci, come essere felice, non solo in questa vita, ma anche nell’altra.
Gesù gli risponde: «tu conosci i comandamenti …». I comandamenti sono la strada che, fino allora, gli Ebrei seguivano per la loro salvezza. Alla rigidità della Legge, però, Gesù aggiunge la necessità di vivere i comandamenti con amore.
Gli Ebrei, infatti, erano convinti che l’osservanza dei comandamenti fosse sufficiente per avere la coscienza a posto e l’episodio del pubblicano e del fariseo ne è la testimonianza.
Non è sufficiente, allora, osservare la Legge, ma è necessario mettere amore in quello che si fa. Ad esempio, non si va alla Santa Messa, con lo spirito di osservare un precetto, ma con amore.
Il ricco che incontra Gesù, infatti, afferma di aver osservato la Legge, ma si rende conto che è necessario qualcosa di più, perché in tutto quello che fa, non ci mette l’anima.
Dopo questa risposta, Gesù “fissatolo, lo amò”. E qui l’evangelista pone l’accento sulla potenza dello sguardo di Gesù che si posa sull’ammalato, sul peccatore e che è capace di amare, di sciogliere il cuore.
Dopo questo sguardo, Gesù dice al ricco: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi”.
Per fare questo itinerario insieme a Gesù, con l’ombra della croce e la prospettiva della Resurrezione, il tale deve liberarsi di tutta la zavorra che gli impedisce di volare che, nel suo caso, è rappresentata dalla ricchezza.
È necessario, quindi, liberarsi di ogni peso che ci trattiene a terra e inibisce la nostra sequela a Cristo.
Il coraggio del taglio di questa zavorra, però, può avvenire solo quando si è fatto un profondo atto di fede in Gesù. Nonostante la sua corsa dietro a Gesù che gli fa bruciare le tappe – come dicevamo all’inizio – il tale non ha ancora sufficiente fiducia, per gettarsi tra le braccia di Gesù.
Il giovane, allora, si rattrista e se ne va afflitto, al contrario di Zaccheo che, invece, ha avuto fiducia in Gesù e dimostrandolo nel desiderio di restituire il quadruplo a quanti aveva frodato e la metà dei suoi beni ai poveri (cfr. Lc 19, 1-10).
Il giovane ricco, invece, ha il volto triste di chi non crede abbastanza da fare il salto tra le braccia di Gesù e la strada che fa a ritroso, verso casa, la percorre in modo grave.
Il cuore di questo tale non era stato capace di staccarsi dalla sua ricchezza, l’entusiasmo iniziale era stato solo un fuoco di paglia.
Un altro giovane, 1200 anni dopo, vive la stessa situazione: anche lui chiede al Signore cosa deve fare per avere la vita eterna.
Francesco d’Assisi avrebbe potuto essere un cristiano come uno qualunque dei suoi contemporanei.
Lui, però, vuole qualcosa di più. Non vende tutto, per donarlo ai poveri, si fa lui stesso povero.
Francesco, dopo la sua scelta, diventa il testimonial della gioia, della perfetta letizia, al contrario del ricco che Gesù ha incontrato nel vangelo di Marco.
La storia di questo tale, in realtà, è ancora aperta ad ogni possibile scenario, perché nessuno ci dice cosa sia successo dopo, quando il giovane torna a casa, anche perché, lo sguardo d’amore di Gesù non poteva passare, senza portare frutti.
Il Signore, però, lascia sempre una profonda libertà nella scelta. Infatti, Lui mette sempre in antagonismo Dio e “mammona”, ponendo l’uomo nella condizione di dover scegliere.
Francesco, dal canto suo, continuamente raccomanda i frati di stare lontano dalle ricchezze, anche se i frati, in realtà, già non possedevano nulla.
Egli, infatti, sapeva bene che il rischio era di lasciarsi sedurre e, così, abbandonare la sequela di Cristo.
La patrona del Terz’Ordine Francescano, oggi ’Ordine Francescano Secolare, era una regina e questo significa che la ricchezza non è un peccato, solo per il fatto di esistere, ma per come l’uomo lega a essa il suo cuore; quindi, ciò che conta è il distacco del cuore dalla ricchezza.
Questo brano, tra le altre cose, pone l’accento sull’eterno conflitto tra la Legge e l’Amore.
Il giovane se ne va, perché aveva molte ricchezze e non solo materiali.
A questo punto si solleva un altro interrogativo: oltre la ricchezza, può essere la legge stessa, un impedimento verso Dio?
L’apostolo Paolo supera la Legge dicendo, apertamente, a Pietro «… non è la circoncisione che conta o la non circoncisione, ma la fede che opera per mezzo della carità» (Gal 5,6).
La Chiesa di oggi, in che direzione ci sta spingendo: verso la legge o verso l’Amore?
È necessario chiarire che la Legge è comunque necessaria, perché è importante avere degli argini o dei punti di riferimento, altrimenti tutto diventa relativo – come più volte ha affermato papa Benedetto XVI – e tutto è opinabile, col rischio che ognuno si costruisca una religione a propria misura.




IL RAPPORTO CON LA PAROLA

Ogni uomo desidera trovare una bussola che lo orienti nel cammino della sua vita; per noi cristiani, questa bussola è il Vangelo.
La Parola di Dio diventa, per il credente, il riferimento della sua vita e lo strumento per leggervi, in ogni avvenimento, la presenza di Dio.
In ogni accadimento, l’uomo vede solo l’aspetto esteriore, il profeta, invece, riesce a leggervi la volontà di Dio; anche noi dobbiamo imparare a vedere Dio in ogni situazione della nostra vita.
Un esempio ci è dato dalla Vergine Maria che, quando ebbe l’annuncio dell’angelo, viveva , come tutte le donne del tempo, l’attesa del Messia.
La consapevolezza di portare nel grembo il Figlio di Dio, Maria lo acquisisce un po’ alla volta, grazie alla meditazione sugli eventi che le stanno accadendo e che lei collega a tutta la tradizione religiosa.
A prescindere dal fatto che l’apparizione dell’angelo sia reale o meno, quello che accade alla Vergine, avviene, ogni giorno, anche nella nostra vita, solo che noi ci riflettiamo su e, in questo modo, non favoriamo la realizzazione del progetto Divino su di noi.
Quando s’interroga, Maria si chiede quale sia la strada che deve percorrere, perché ha compreso che Dio è entrato a far parte della sua esistenza e che, per questo motivo, la sua vita non può più essere quella di prima.
Sull’esempio di Maria che meditava in cuor suo tutti gli avvenimenti della sua vita, alla luce della tradizione religiosa del tempo, così anche noi, per realizzare la Parola di Dio nella nostra vita, dobbiamo imparare prima a leggere e, poi, a meditare il Vangelo che è la Parola di Dio, sia nei momenti felici della nostra vita, sia in quelli tristi.
Dio ci parla continuamente, in tutti gli avvenimenti della nostra giornata e noi abbiamo due possibilità di scelta: ascoltarlo, o relegarlo in uno spazio bene definito, ma lontano dalla nostra vita.
L’ascolto della Parola non può avvenire senza portare frutti nella nostra vita, come ci dice il Signore, attraverso il profeta Isaia: «Come la pioggia e la neve scendono giù dal cielo, e non vi ritornano senza averla irrigata, fecondata e fatta germogliare, per dare seme al seminatore e pane a chi mangia, così sarà della parola uscita dalla mia bocca» (Is. 55, 10-11).
Quando ci accorgiamo che la Parola di Dio non è più creativa, si evidenzia la necessità di ricollocarla al centro della nostra vita, perché torni a diventare la nostra bussola.
Porre la Parola come punto di riferimento per la nostra esistenza, significa impegnarsi ad acquisire uno stile di vita che tenti di adeguarsi sempre più a Cristo.
Oggi, invece, i mezzi di comunicazione riescono a influenzare, più di ogni altra cosa, il nostro stile di vita, soprattutto dei giovani, lasciando all’insegnamento della famiglia, della scuola e della parrocchia, un’incidenza molto bassa.
Il Vangelo dell’annunciazione ci insegna a prendere ad esempio la vita di Maria che meditava in cuor suo la Parola di Dio, per comprendere il disegno del Padre su di lei ed è proprio da questa meditazione che scaturisce uno stile di vita conforme alla sua vocazione.
Dobbiamo, quindi, imparare a vedere la Parola di Dio ovunque, anche al supermercato, e imparare a mettere insieme i vari messaggi che il Signore ci invia, come in una specie di puzzle.
Ogni evento della nostra vita non lo dobbiamo vedere come un semplice accadimento, ma come un messaggio che Dio ci vuole lanciare.
Il “sacramento” della Parola è il segno del dialogo tra l’uomo e Dio, dove è sempre il Signore a prendere l’iniziativa, ed è paragonabile alle lettere d’amore che, ogni volta che le rileggiamo, riportiamo all’attualità i nostri sentimenti.
La Liturgia della Parola è una parte sostanziosa della Celebrazione Eucaristica; essa, anche se rivolta a tutta la comunità, ci interroga personalmente.
“La Parola celebrata ci permette di ascoltare colui che non è possibile ascoltare”. Quel Dio che sembra lontano da me, durante la Liturgia della Parola ci parla ancora e ci dice: “Io ci sto’, ti accompagno”.
Questo è il motivo per cui il popolo si riunisce attorno alla Parola: per fare festa, perché Dio ci parla.
La radice latina della parola “ascoltare” è “colere” che significa: coltivare, custodire, adorare. Nell’ascolto della Parola, quindi, devono esserci attenzione e partecipazione interiore, questo è il motivo per cui la Parola non va “letta”, ma “celebrata”, perché è il dialogo tra Dio e l’uomo.
La preghiera dei fedeli è una risposta alla Parola di Dio che ci interpella, affinché possiamo metterla in pratica, con il suo aiuto.
Oggi è dilagante il rischio del relativismo, secondo cui ognuno interpreta la Parola a modo suo, secondo le proprie esigenze; il confronto del commento alla Parola, con il magistero, invece, costituisce un passaggio ineludibile.
Come imparare a leggere i segni?
Tutto ciò che ci accade dobbiamo abituarci a collegarlo alla volontà di Dio, in questo modo, con l’ispirazione dello Spirito Santo, possiamo comprendere qual è il messaggio che Dio ha per noi.
Dobbiamo, quindi, imparare ad interrogarci sulle cose che ci succedono, conservando nel nostro cuore tutte le piccole rivelazioni e cercando di metterle insieme.
Così, forse, possiamo imparare a capire il messaggio che il Signore vuole inviarci.

don Antonio Dente
Parroco di Picarelli fraz. Di Avellino




SE IL TUO DIO di don Andrea Gallo

Quando gli uomini e le donne cercano di entrare in contatto con Dio, allora nascono le preghiere: ci sono anche delle formule prefissate, ma la vera preghiera è l’espressione che viene dal profondo del cuore”: queste parole di don Andrea Gallo son facilmente condivisibili. Tutti, più o meno, la pensiamo così.
Ma quanto deve essere grande il cuore di chi ha scritto questa preghiera e quanto profondamente il suo cuore è entrato in contatto col cuore di Dio?
Se il tuo Dio” è la sconfinata preghiera di un utopista il cui Dio davvero ha un nome “che è al di sopra di ogni altro nome”.
Don Andrea… grande vecchio, prete di strada, vecchio partigiano, vecchio utopista, vecchio bambino mai cresciuto: grazie.

Maria Urciuoli

SE IL TUO DIO
Se il tuo Dio è bambino di strada
umiliato, maltrattato, assassinato,
bambina, ragazza, donna violentata, venduta, usata,
omosessuale che si dà fuoco senza diritto di esistere,
handicappato fisico, mentale, compatito,
prostituta dell’Africa, dei Paesi dell’est,
che tenta di sfuggire la fame e la miseriacreata dai nostri stessi Paesi,
transessuale deriso e perseguitato,
emigrato sfruttato e senza diritti,
barbone senza casa né considerazione,
popolo del Terzo mondo al di sotto della soglia di povertà,
ragazza mai baciata, giovane senza amore,
donna e uomo cancellati in carcere,
prigioniero politico che non svende i suoi ideali,
ammalato di Aids accantonato,
vittima di sacre inquisizioni,
roghi, guerre, intolleranze religiose,
indigeno sterminato dall’invasione cattolica dell’America,
africano venduto come schiavo a padroni cristiani,
ebreo, rom, omosessuale o altro dissidente
sterminato ad Auschwitz e negli altri lager nazisti
o nei gulag sovietici,
morto sul lavoro sacrificato alla produzione,
palestinese, maya o indigeno derubato della sua terra,
vittima della globalizzazione;

se il tuo Dio ti spinge a condividere con loro
ciò che hai e ciò che sei,
a difendere i diritti degli omosessuali e degli handicappati,
a rispettare quelli che hanno altre religioni e opinioni,
a stare dalla parte degli ultimi
a preferire loro all’oppressore
che vive nei fasti di palazzi profani o sacri,
viaggia con aerei privati,
viene ricevuto con gli onori militari
e osannato dalle folle;

se egli considera la terra e i beni
non come privilegio di alcuni, ma come proprietà di tutti,
se ama ricchi e oppressori
strappando loro le ingiustizie che li divorano come cancro
togliendo il superfluo rubato
e rovesciando i potenti dai loro troni sacri o profani,
se non gli piacciono le armi, le guerre e le gerarchie,
se non fa gravare, come i farisei,
pesi sugli altri che lui stesso non può portare,
se non proibisce il preservativo che ostacola la diffusione dell’Aids,
se ha rispetto per chi vive delle gravidanze non desiderate,
se non impone alle donne le sue convinzioni sull’aborto
ma sta loro vicino con amore e solidarietà,
se non è maschilista e non discrimina le donne,
se non toglie alle persone non sposate il diritto di amare,
se non consacra la loro subordinazione,
se non impone nulla, ma favorisce la libertà di coscienza,
se rispetta gli altri dei e le altre dee,
se non pensa di essere il solo vero Dio,
se non è convinto di avere la verità in tasca e cerca con gli altri;
se è umile, tenero, dolce, a volte smarrito e incerto,
se si arrabbia quando è necessario
e butta fuori dal tempio commercianti e sacri banchieri,
se ama madre terra, piante, animali, fiori e stelle;

se è povero tra i poveri,
se annuncia a tutti il vangelo di liberazione degli oppressi
e ci libera da tutte le religioni degli oppressori;

allora qualunque sia il suo nome, il suo sesso, la sua etnia
il colore della pelle, nera, gialla, rossa o pallida,
qualunque sia la sua religione, animista, cattolica, protestante,
induista, musulmana, maya, valdese, shintoista,
ebrea, buddista, dei testimoni di Geova,
Chiesa dei santi degli ultimi giorni,
di qualsiasi Chiesa o setta
non m’importa
egli sarà anche il mio Dio
perché manifestandosi negli ultimi
è Amore con l’universo delle donne e degli uomini,
nello spazio e nel tempo
e con la totalità dell’essere,
amore cosmico
che era, sta e viene
nell’amore di tutte le donne e di tutti gli uomini,
nei loro sforzi per la giustizia, la libertà, la felicità e la pace.

Don Andrea Gallo
(Da “Il vangelo di un utopista”)