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LE QUATTRO CANDELE

Quattro candele bruciavano lentamente e silenziosamente, sull’altare. Il silenzio era tale che si poteva udire la conversazione delle quattro fiammelle. La prima disse: “Io sono la candela della pace, ma nel mondo ci sono guerre, divisioni, rivalità anche tra amici e parenti e nessuno viene più a cercarmi”. E si spense. La seconda candela disse: ” Io sono la candela della fede, ma tutti vogliono solo sempre vedere e toccare e mai credere, così nessuno viene più a cercarmi”. E si spense. La terza candela disse: “Io sono la candela della gioia, ma nel mondo c’è tanto pessimismo, scoraggiamento e tristezza e nessuno viene più a cercarmi”. E si spense. In quel momento arrivò un bambino che, vedendo le tre candele spente, si mise a piangere e disse: ” Ma perché vi siete spente, è troppo buio così!”. Allora prese la parola la quarta candela e disse: “Non temere bimbo mio, finché la mia fiammella rimane accesa niente è perduto perché con quella possiamo accendere tutte le altre. Sai chi sono io? Sono la candela della speranza“.
Ecco cos’è il tempo d’Avvento: tempo di speranza! Chiediamo a Maria “zolla innocente, aiuola fiorita e profumata nell’immensa palude dell’umanità” (Paolo VI) di ravvivare la nostra speranza, affinché la nostra anima non si spenga.




COME NASCE DIO IN NOI

Far nascere Dio. Farlo rinascere.
Lasciare che sia lui a illuminare le nostre vite, le nostre quotidianità, le nostri crisi finanziare previste o meno. Non per fuggire una realtà sempre più tenebrosa, ma per darle un nuovo orizzonte.
Abbiamo già sperimentato una vita basata sull’apparenza, sulla corsa all’immagine e all’apparenza, abbiamo già visto cosa significa sbattersi per potersi permettere l’ultimo marchingegno elettronico, abbiamo già visto come si sta nel paese dei balocchi in cui la volgarità diventa il nuovo linguaggio e il pettegolezzo viene sdoganato e trasformato in virtù, abbiamo visto cosa succede se l’economia diventa la nuova ideologia dominante.
Abbiamo già dato, grazie.
Ora ridateci Dio.

Il Dio vero
Non quello che benedice le nostre battaglie, non quello inalberato sui vessilli di conquista, non quello che protegge le nostre idee. Non il Dio che stabilisce l’autorità costituita, che esalta il dolore, che ci chiede di sopportare con cristiana rassegnazione. Non il Dio delle parate e delle cerimonie, dei miracoli e delle apparizioni, degli uomini straordinari e dei santi strampalati, strani e irraggiungibili.
Il Dio di Gesù. Il Dio bambino. Il Dio inutile.
Quello annunciato da profeti, atteso e riconosciuto con stupore dal Battista, quello che ci raggiunge ogni giorno, che chiede di nascere in ogni uomo.
Manca una settimana al Natale. Un Natale dimesso, gonfio di inquietudini. Un Natale che non sarà ebbro di inutili doni (e chissà che un po’ di austerità non aiuti l’anima), che sarà attento alla spesa per il pranzo, che avrà in sottofondo l’ansia per la mobilità, per la cassa integrazione, per la fine del contratto.
Dio nasce, proprio ora.
Proprio qui.

Davide
Come? Quando? Dove?
Maria e Davide, i protagonisti della Parola di oggi, ci danno un preziosa indicazione. La nascita di Dio in noi è, anzitutto, sua iniziativa.
Davide, ormai invecchiato e intristito dalle vicende della vita, vede il suo formidabile Regno percorso da spinte secessioniste. L’erede al trono è stato ucciso dal fratello, a sua volta ucciso durante una battaglia dall’esercito di Davide. Il terzogenito sarà a sua volta ucciso da Bersabea, che vuole mettere sul trono il figlio Salomone. Così accadrà e Davide teme di non vedere più nessun suo discendente a governare su Israele. Decide di costruire un tempio al Dio che lo ha fatto tanto crescere e Natan, profeta di corte, lo ferma: non sarà il re a costruire una casa, ma Dio gli costruirà una discendenza.
Così sarà.
Nonostante tutto, dopo l’esilio in Babilonia, la casa di Davide scomparirà, ma sarà un suo discendente, il figlio di Giuseppe di Betlemme, a prendere il suo posto. Jeshua il nazoreo salirà sul trono di Davide. Ma non come si aspetta il grande re.
È sempre Dio che prende l’iniziativa.
È sempre lui che ci viene incontro, che si fa vicino, che nasce in noi.
Mai come ce lo aspetteremmo.

Miriam la bella
Prendete l’adolescente e acerba ragazzina di Nazareth, ad esempio.
Se proprio Dio vuole nascere, perché lo fa in un buco di paese mai citato nella Bibbia, ai margini delle grandi vie di comunicazione, in un posto brullo in cui la gente viveva nelle caverne?
Perché con una ragazzina di tredici anni?
Perché non a Roma, in casa dell’Imperatore? Perché non oggi, con i satelliti e internet?
Così è Dio. Imprevedibile.
E Maria ci insegna le altre caratteristiche per far nascere Dio nella nostra vita.
Non importa cosa facciamo, o se siamo persone straordinarie.
Nella quotidianità nasce Dio. Anche se abitiamo in un paesino di provincia poco allettante e poco famoso. Anche se non abbiamo grandi qualità e non riusciremo mai ad emergere dall’anonimato.
Anche se non facciamo parte dei vip di questo mondo.
Dio non nasce nelle persone che se lo meritano, e nemmeno nelle persone particolarmente religiose.
Dio non nasce se siamo preparati teologicamente.
Dio nasce nei cuori che ancora si sanno stupire, come sanno fare gli adolescenti.
Davide e Maria, appunto.

Il racconto di Luca
Luca riprende lo schema delle tante “annunciazioni” presenti nella Bibbia.
Poco importa come si siano svolti i fatti: così Luca ce li racconta. E ci stupisce.
Non la moglie dell’imperatore, o il premio Nobel per la medicina, non una donna manager dinamica dei nostri giorni, sceglie Dio, ma la piccola adolescente Miriam (la bella).
A lei chiede di diventare la porta d’ingresso per Dio nel mondo.
Cosa direste se domattina vi arrivasse una figlia o una nipote adolescente dicendo: Dio mi ha chiesto di aiutarlo a salvare il mondo? Appunto.
Invece Maria ci sta, ci crede e tutti noi non sappiamo se ridere o scuotere la testa davanti a tanta splendida incoscienza, tutti restiamo basiti (noi, razionali figli di Piero Angela) davanti alla sconcertante semplicità di questo dialogo, davanti all’ardire di una figlia di Sion che parla alla pari con l’Assoluto, che gli chiede spiegazioni e chiarimenti.
Scegliere Nazareth, un paese occupato dall’Impero romano, ai confini della storia, ai margini della geografia del tempo, in un’epoca sprovvista di mezzi di comunicazioni, per incarnarsi, ci rivela ancora una volta la logica di Dio, logica basata sull’essenziale, sul mistero, sulla profezia, sulla verità di sé, sui risultati imprevisti (e sconcertanti).
Una piccola settimana ci separa dal Natale e dal mare di banalità e di sofferenza che porterà ad alcuni. Andiamo a Betlemme, amici, così come siamo: come Davide nella prima lettura che vuole costruire un bel tempio al Dio, anche noi ci sentiremo rispondere: “lasciati fare, non preoccuparti di come hai preparato il tuo avvento, sono io che ti vengo incontro”.
Che volete, così è il nostro Dio, lasciamoci incontrare!

(Dall’omelia del 18/12/2011 di P. Paolo Curtaz)




LO STILE DI DIO

Entrando nella chiesa molto bella che oggi ricopre la casa di Maria e quindi il luogo dell’annunciazione, mi domandavo perché questo luogo è considerato cosi importante.
Certamente è bello contemplare la disponibilità di Maria al progetto che l’angelo le illustra. Maria si stupisce, fa domande, ma non ha paura delle possibili conseguenze. Si fida, si rallegra, e dice sì. Questo è molto bello, ma la cosa più bella è il Dio che si rivela attraverso lo stile della presentazione di questo progetto.
Tanto per cominciare non viene di persona; manda un ambasciatore, uno al quale è più facile dire di no, e poi si propone, non s’impone. Colui che è considerato l’onnipotente, creatore, padrone di tutto, dopo aver fatto tutto, chiede a una donna il permesso di entrare nella sua vita; chiede a noi il permesso di essere presente nella nostra storia. Ci rendiamo conto?!?
Proviamo ad immaginare qualche paragone umano per capire meglio. È come se io lavorassi una vita intera per costruire una chiesa; poi, finito il tutto, mi presento e busso alla porta per chiedere se, per cortesia, mi fanno entrare. O come se un padre di famiglia domandasse, la sera, dopo il lavoro: “Posso entrare in casa?”
Dio è talmente grande che non ha paura di farsi piccolo. Sembra quasi che ci dica: “Scusate se vi ho creato. In effetti, non mi avevate chiesto nulla, è stata una mia iniziativa. Scusate se esisto. Posso stare con voi, posso servirvi?”
Noi abbiamo tendenza a collocare Dio lontano, mentre l’annunciazione ci rivela un Dio vicino, un Dio che viene a vivere con noi, dentro di noi. Questo rivela l’annunciazione e l’incarnazione di Dio in Maria e questo dà molto fastidio a chi ce lo vuole fare vedere distante, severo, prepotente, intrattabile e quant’altro di negativo si sente dire, ma il Dio che si rivela oggi, è tutta un’altra cosa.

(Dall’omelia del 18/12/2011 di Padre Paul Devreux)




A PROPOSITO DI DUE CATECHESI DI P. GIANLUCA

Carissimo Gianluca,
come ti avevo annunciato ti comunico alcune riflessioni su due tue recenti catechesi; ti invito quindi a fare altrettanto – a rispondermi, cioè, tramite il blog – per estendere anche ad altri il nostro scambio di idee, sperando che ciò sia di qualche utilità.
La prima catechesi è di qualche settimana fa, non ricordo la data precisa, in occasione di una nostra riunione dell’OFS; il tema era l’incontro di Gesù con la samaritana. Fu una bellissima relazione nella quale affrontasti vari aspetti del brano: il contesto sociale (il ruolo del pozzo), l’aspetto simbolico (il significato dell’acqua), quello psicologico (il modo con cui si dipana il dialogo tra i due protagonisti) ed altro ancora. Soltanto un rapido accenno, però, al fatto che questa è la prima volta in cui Gesù si rivela esplicitamente come il Cristo e sorprendentemente lo fa con una donna, straniera per giunta.
La seconda catechesi è di domenica scorsa, la tua omelia della terza domenica di Avvento al Roseto. Hai detto che il tema centrale della liturgia della parola è l’umiltà: l’umiltà di Giovanni che prepara la strada a Gesù, l’umiltà di Maria che ci porta in dono il Salvatore. Non una riflessione, però, sul perché fossero stati proprio dei farisei a sollecitare il Battista a dichiarare il suo ruolo di precursore.
Vengo al dunque.
Notoriamente vi sono diversi modi di leggere e interpretare il Vangelo: tra questi ve ne sono due che mi piace definire rispettivamente rassicurante e inquietante. Il modo rassicurante si rivolge prevalentemente al cuore della persona, tende a suscitare buoni sentimenti, a tranquillizzare, a dare riposo e conforto alle coscienze.Il modo inquietante si rivolge prevalentemente all’intelletto, pone interrogativi, suscita domande che esigono risposte. Non ve ne è uno più importante dell’altro; sono ambedue importanti e utili in quanto stimolano il credente con modalità differenti e complementari. Pertanto occorre coltivarli e svilupparli entrambi. Tuttavia, è di palese evidenza che il primo approccio è incomparabilmente più diffuso del secondo, è quello che ricorre quasi sistematicamente in omelie, catechesi, lectio divine, ecc.. Ritengo che in ciò vi sia una perdita, un impoverimento.
Il brano della samaritana, ad esempio, oltre ai temi che hai sviluppato nella tua catechesi pone anche tanti interrogativi: se Gesù ha scelto una donna straniera per rivelarsi come il Cristo, come possiamo noi cattolici di oggi continuare a ritenerci gli unici depositari della verità? Che ne è del dialogo interreligioso? E’ un dialogo vero o piuttosto è ridotto a manifestazioni ingessate in rigidi protocolli nelle quali i rappresentanti delle religioni mondiali si incontrano, si scambiano qualche convenevole e poi se ne vanno a pregare ciascuno per i fatti suoi? Con questo papa l’ecumenismo auspicato dal Concilio Vaticano II e promosso da Giovanni Paolo II ha fatto progressi o regressi?
Riguardo alla tua seconda catechesi il tema di fondo più che l’umiltà mi sembra piuttosto lo spirito di profezia. Se i farisei ponevano quelle domande al Battista era perché non riuscivano a inquadrarlo nella loro tradizione giudaica e perciò gli chiedevano di dichiarare apertamente chi fosse, se il Cristo, Elia o un profeta. E se questo valesse anche per noi? Per caso anche noi cattolici di oggi siamo così imbrigliati nei nostri schematismi e liturgismi da non riuscirci ad aprire alla novità del Vangelo? Per caso anche noi siamo chiamati a “non spegnere lo Spirito e non disprezzare le profezie” (come ci ricordava in quella stessa domenica san Paolo nella lettera ai Tessalonicesi) per adorare il Signore in spirito e verità (e qui ritorna anche il brano della samaritana)? E questo papa che apre ai lefebvriani e alla messa in latino dimostra più attenzione allo Spirito o alla Legge?
Se quindi, come spero di aver dimostrato con questi pochi cenni, anche il secondo approccio è ricco ed interessante, perché viene quasi sempre messo da parte a vantaggio del primo nelle catechesi di molti sacerdoti e predicatori?
Sicuramente i motivi sono numerosi, non è certo possibile affrontarli in questa sede né io sono capace di farlo.
Mi limito solo a dire una cosa: personalmente penso che alla base vi sia una mancanza di fiducia. Voi chierici avete poca fiducia in noi laici, non ci ritenete all’altezza di certi ragionamenti, non ci considerate in grado di sostenere il peso e l’inquietudine del dubbio e della ricerca personale; in alcuni casi ritenete addirittura che il pensare con la nostra testa ci possa fare più male che bene, che possa compromettere la nostra fedeltà e obbedienza alla Chiesa se non addirittura farci allontanare da essa. Meglio quindi omelie e catechesi rassicuranti, tranquillizzanti, volte a suscitare buoni sentimenti più che profonde convinzioni.
Invece le cose non stanno così. Noi laici nella nostra vita quotidiana di problemi ne affrontiamo tanti, finanche più di voi; voi fate il voto di povertà ma tocca a noi arrivare alla fine del mese con uno stipendio che vale sempre meno; voi portate sulle spalle il peso delle anime che vi sono affidate ma siamo noi che non riusciamo a dormire quando i figli non si ritirano a casa il sabato sera. Affrontiamo quotidianamente con impegno e competenza problemi sociali, economici, professionali, familiari; possiamo affrontare anche quelli ecclesiali.
Noi laici dovremmo sicuramente impegnarci con maggior serietà e partecipare più attivamente alla vita ecclesiale; voi chierici dovreste avere più fiducia in noi, offrendoci stimoli anche intellettuali per crescere e maturare nella fede. Credo che ciò andrebbe a vantaggio di tutta la Chiesa.
In attesa di conoscere il tuo punto di vista in proposito, ti abbraccio fraternamente.

Pietro




GESÙ, IL FIGLIO DI DIO

Gesù aveva la consapevolezza di essere il Figlio di Dio? Quando ha acquisito questa coscienza?
Come ogni bambino, anche Gesù “cresceva in sapienza, età e grazia” (Lc 2, 51-52), non ha, quindi, fin dall’inizio, la coscienza di essere il Figlio di Dio.
Gli evangelisti ce lo presentano come un bambino che prende consapevolezza della sua personalità, con il passare degli anni e ciò si evince da alcune tappe fondamentali della sua vita.
Gesù ha sposato la nostra natura umana e, di conseguenza, come ogni bambino della sua età, ha dovuto mettersi alla scuola di due genitori umili – “stava loro sottomesso” (Lc 2,51) – che lo hanno educato nel pieno rispetto della tradizione ebraica che ha scandito le tappe della sua crescita.
A dodici anni, Gesù, come ogni bambino ebraico, è introdotto alla lettura della Torah. Questa era una tappa fondamentale, per la crescita di ogni bambino che, da questo momento, entra nell’età adulta.
In quella circostanza, quando Maria e Giuseppe abbandonarono la carovana che li riportava da Gerusalemme a Nazareth, dopo la festa di Pasqua, trovato Gesù tra i dottori del tempio, “restarono stupiti e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Ed egli rispose: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Ma essi non compresero le sue parole”. (Lc 2, 48-49)
Le parole che Gesù pronunzia hanno un significato molto importante, in particolar modo quando dice “devo occuparmi delle cose del Padre mio”, perché l’ebreo, di Dio non può pronunciare nemmeno il nome, in segno di rispetto: Gesù, invece, lo chiama “Padre”.
Gesù chiama Dio Padre, quasi a contraddire l’insegnamento ebraico che aveva ricevuto dai genitori che, difatti, “non compresero”.Nell’età adolescente, Gesù inizia ad instaurare un rapporto diverso con Dio, discordante dal modo di agire di qualunque altro ebreo a lui contemporaneo.
Dai dodici ai trent’anni, i vangeli non riportano notizie sulla vita di Gesù, ci dicono solo che stava sottomesso ai genitori, ma certamente, in questo tempo, Egli ha maturato sempre più la coscienza di essere il Figlio Unigenito di Dio.
C’è un episodio chiaro in cui si manifesta, chiaramente, la paternità di Dio nei confronti di Gesù: il battesimo ricevuto nelle acque del fiume Giordano.
Dopo il battesimo, mentre Gesù era in preghiera, “vi fu una voce dal cielo: «Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto»” (Lc 3,22).
Questa fu, per Gesù, come la conferma definitiva della sensazione che aveva avuto fino a quel momento; dal battesimo, quindi, Egli prende piena coscienza di essere l’amatissimo del Padre.
L’aver preso consapevolezza di essere il Figlio di Dio lo spinge ad uscire dal privato, per diventare l’uomo per tutti, iniziando, così, la sua missione di “Messia”.
Con il passare del tempo, Gesù matura anche un’altra convinzione, cioè di essere anche lui onnipotente.
Con la forza che gli proviene dall’unione con il Padre, sceglie gli apostoli e fa tutte quelle azioni che costituiscono la sua missione a beneficio degli altri.
Scopre, però, che questo rapporto d’amore con il Padre lo porterà alla croce e capirà, quindi, che essere Figlio del Padre significa essere figlio della sofferenza.
Nell’ultima cena, Gesù svela il mistero trinitario agli apostoli, invitandoli a prendervi parte e, allo stesso modo, fa con ciascuno di noi, aprendo questo abbraccio trinitario, perché anche noi potessimo essere felici “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò” (Mt 11,28).
Come Gesù cresce in età, sapienza e grazia, lo stesso avviene anche per Maria che capirà come la sua beatitudine non sta nell’aver partorito il Figlio di Dio, ma di fare la sua volontà; capisce, quindi, che deve, anche lei, farsi discepola e comprende quanto sia necessaria, in tutto questo, l’azione dello Spirito Santo.

dalle catechesi di p. Gianluca Manganelli




L’ANGELUS

La preghiera dell’Angelus Domini, è piccola come un chicco di grano, è breve come un respiro, ma in realtà, se ben compresa, è una lode più estesa del mondo, più grande dell’universo, perché, sia pur brevissimamente, ci parla di Dio, di Gesù Cristo, Spirito Santo, della Madonna, dell’Incarnazione del Signore, della Redenzione: che sono il fondamento della nostra fede Cristiana.
L ‘Angelus Domini è il granellino di senapa che può diventare: al mattino, luce di sole che illumina il nostro cammino; a mezzogiorno, forza del nostro lavoro; al tramonto, serena nostalgia dei cieli ai quali siamo avviati.

LA PREGHIERA

  • L’Angelo del Signore portò l’annuncio a Maria.
  • Ed ella concepì per opera dello Spirito Santo.

Ave, o Maria.

  • Ecco l’ancella del Signore.
  • Sia fatto di me secondo la tua parola.

Ave, o Maria.

  • E il Verbo si è fatto carne.
  • Ed ha abitato fra noi.

Ave, o Maria.

  • Prega per noi santa Madre di Dio.
  • E saremo degni delle promesse di Cristo.

Preghiamo: infondi nel nostro spirito, la tua grazia, o Padre, tu, che nell’annuncio dell’angelo ci hai rivelato l’incarnazione del tuo Figlio, per la sua passione e la sua croce guidaci alla gloria della risurrezione. Per Cristo nostro Signore. Amen.

Tre Gloria.

 

 

NOTE STORICHE

La preghiera dell’Angelus Domini (L’Angelo del Signore) del mattino, del mezzogiorno e della sera, ha una storia molto bella.

Fu cara a sommi Pontefici, in particolare al Papa Paolo VI, e “carissima” a Papa Giovanni Paolo Il che l’ha costituita momento d’incontro con i fedeli di tutto il mondo, in piazza san Pietro, per le sue esortazioni paterne, per le sue conversazioni amichevoli, confidenziali.

Prima di tutto vogliamo sottolineare che Paolo VI l’ha inclusa nel suo documento meraviglioso sulla devozione alla Madonna e che porta il titolo di: “Marialis cultus “: la devozione alla Madonna. E’ uno dei trattati più belli di tutti i tempi sulla Madre di Dio; senza dubbio il migliore del Concilio e dopo il Concilio Vaticano Il. Papa Montini esorta a mantenere viva la consuetudine di recitarlo ogni giorno.

La prima notizia dell’Angelus Domini risale al 1269, al tempo in cui era Generale dell’Ordine francescano san Bonaventura da Bagnoregio, detto il “dottore serafico”. Fu un Capitolo Generale dei Frati Minori tenutosi a Pisa in quell’anno che prescrisse ai religiosi di salutare la Madonna ogni sera con il suono della campana e la recita di qualche Ave Maria, ricordando il mistero dell’Incarnazione del Signore.

Il noto letterato fra Bonvesin de la Riva, milanese, vissuto dal 1240/50 al 1313, appartenente all’Ordine degli Umiliati, fece sua la disposizione dei frati francescani ordinando alla città di Milano e dintorni di suonare ogni sera l’Ave Maria. Ricordiamo che il Bonvesin fu il più geniale anticipatore di Dante con la sua opera che porta il titolo di: ” Libro delle tre scritture “. De scriptura nigra, nel quale descrive le pene dell’inferno. De scriptura rubea, con la quale fa una commossa rievocazione della Passione del Signore. De scriptura aurea, una entusiastica esaltazione del Paradiso.

Da Milano la pia usanza si estese un po’ dovunque. La notizia giunse agli orecchi di Papa Giovanni XXII (1245-1334) il quale non solo la incoraggiò, ma diede ordine al suo Vicario Generale di Roma di far suonare la campana ogni giorno, perché la gente “si ricordi” di recitare tre Ave Maria in onore dell’Annunciazione di Maria, detta comunemente “il saluto dell’Angelo “.




TESTA O CULO

Approfitto del fatto che il blog non lo legge quasi nessuno per esprimere liberamente il mio pensiero sullo “Strumento di lavoro per la formazione iniziale” redatto dal Consiglio nazionale nel 2010 e trasmesso a tutte le fraternità dell’OFS Campania dal Ministro regionale e dalla Delegata alla formazione con nota prot. n. 165/2011/P-Form del 14.11.2011 (spero di non aver sbagliato nulla).
Sono sinceramente smarrito nel constatare che passano gli anni, addirittura i decenni, ma diciamo sempre le stesse cose e nello stesso modo.
Dobbiamo educarci alla contemporaneità.
Nella formazione degli Iniziandi si fa riferimento ai documenti del Concilio Vaticano II. Ma che senso ha questa operazione se non si spiega loro che la Chiesa istituzionale in questi cinquant’anni ha fatto consistenti passi indietro rispetto questo storico evento? E che senso ha citare a piene mani le Fonti Francescane se non si spiega loro la distorsione imposta dalle gerarchie ecclesiastiche all’originaria intuizione di Francesco? Proposti così diventano riferimenti solo formali, statici, retorici, depotenziati.
Nella formazione dei Neo-Professi viene trattato il tema dell’impegno socio-politico dei francescani. Mi piacerebbe sapere se oltre agli scontati auspici in tal senso, sarà fatto oggetto di discussione anche quanto è avvenuto recentemente a Todi. Se si dovesse formare una nuova DC, in versione riveduta e corretta, i francescani secolari sono chiamati a dare il proprio consenso o possono scegliere diversamente senza dover affrontare sensi di colpa con la propria coscienza e con la Chiesa?Pochi esempi e pochi interrogativi ma che bastano e avanzano.
Ripeto, dobbiamo educarci alla contemporaneità. La Parola di Gesù continua ad essere pietra di inciampo solo se è vissuta integralmente nella concretezza della vita quotidiana altrimenti viene rinchiusa in teologismi e liturgismi dal sapore vagamente farisaico. Analogamente è degli insegnamenti del passato; se non sono attualizzati con il necessario coraggio intellettuale perdono la loro valenza essenziale che è quella di offrirci gli strumenti culturali per interpretare e affrontare il nostro presente. Se non si procede in questa direzione non si sfonda il muro dell’ovvietà e non si formano personalità mature: «Una lezione di storia vale più di mille prediche», diceva il beato card. Newman.
Bisogna quindi chiedersi con franchezza cosa vogliamo fare delle persone che si avvicinano alle nostre fraternità. Cattolici adulti o bigotti devoti? Assemblea attiva o platea passiva? Teste che pensano in dimensione ecclesiale o culi che riscaldano le panche di una chiesa?
Ma questo, ne sono più che convinto, è un interrogativo che non riguarda solo i formandi bensì tutti noi: nella Chiesa cattolica vogliamo essere una testa o un culo?
Io ho scelto. Testa.

Pietro Urciuoli

P.S. Non vorrei aver turbato la sensibilità di qualcuno; ma è che nelle nostre fraternità il linguaggio abitualmente utilizzato sa un po’ troppo di sagrestia, neanche fossimo ecclesiastici. Noi siamo laici, viviamo nel mondo, possiamo e dobbiamo parlare il linguaggio del mondo. Ciò che dice lo Zingarelli possiamo dirlo anche noi.




CHE COS’È IL VANGELO?

Alcuni credono che il vangelo sia la biografia di Gesù, come i libri lo sono, per i personaggi storici.
Il vangelo, invece, è la “buona notizia” che Gesù è risorto e così non fosse, tutta la nostra fede sarebbe vana.
Il vangelo, dunque, non è una semplice “biografia” di Gesù, ma è una rilettura della sua vita, alla luce della Resurrezione; è come leggere un libro o veder un film di cui già si conosce il finale.
Il vangelo fu scritto alcuni anni dopo la morte di Gesù.
Il gruppetto degli Apostoli che si riuniva con Maria, grazie alla discesa dello Spirito Santo, esce dal cenacolo, per annunziare la Resurrezione di Cristo, a cui essi avevano assistito, in veste di testimoni diretti.
Questi discepoli analfabeti che prima si rinchiudevano nel cenacolo, per paura di fare la stessa fine di Gesù, all’improvviso, dopo l’incontro col Risorto e rafforzati dallo Spirito Santo, trovano il coraggio di andare per il mondo.
Andando per il mondo, gli Apostoli annunciano la morte e Resurrezione di Gesù, cioè la “buona novella” o “Vangelo”.
Accanto a quest’annuncio, gli Apostoli riportano anche le parole dette da Gesù che erano trascritte su bigliettini e conservate.La prima forma di trasmissione del Vangelo, quindi, è stata quella orale sostituita solo alcuni decenni dopo la morte di Gesù dalla forma scritta.
I Vangeli canonici, cioè quelli “ispirati” da Dio e riconosciuti dalla Chiesa, sono stati scritti da Luca, Matteo, Marco e Giovanni.
L’autore del Vangelo è detto “evangelista” ed è chi mette, per la prima volta, nero su bianco l’annuncio di Gesù.
Matteo e Giovanni sono stati anche Apostoli di Gesù, mentre Luca e Marco sono discepoli che sono cresciuti sotto la guida di Paolo e Pietro.
Gli evangelisti, a un certo punto della storia, hanno deciso di mettere insieme quei bigliettini lasciati dagli Apostoli nelle loro predicazioni.
Nasce, così, la prima redazione del Vangelo, con l’obiettivo principale di evitare cattive interpretazioni del pensiero degli Apostoli che, piano piano, andavano scomparendo, a causa delle persecuzioni, dell’età, ecc..
I quattro evangelisti riportano episodi della vita di Gesù, visti da prospettive diverse: il punto di vista da cui guarda Luca è diversa da quella da cui guardano Marco, Matteo e Giovanni.
È come leggere il commento di una partita fatto da tifosi di squadre avverse che raccontano lo stesso evento, ma secondo prospettive diverse.
Matteo, ad esempio, è un ebreo, quindi, il suo obiettivo è di annunciare il messaggio di Gesù agli ebrei, basando tutta la storia della salvezza sulla tradizione ebraica, cioè innestando il Vangelo sulle scritture dell’Antico Testamento.
Matteo, perché Gesù sia accolto anche dal popolo ebraico, lo presenta come il vero Messia promesso dalle scritture.
La radice ebraica del Vangelo di Matteo si può notare già dall’inizio, cioè dal “vangelo dell’infanzia”, dove il protagonista è Giuseppe – e non Maria come avviene per Luca, a d esempio – e questo perché l’ebreo era maschilista e anche Matteo lo era.
L’evangelista Luca è greco ed è discepolo di Paolo, ma è un pagano e non conosce nulla della Legge ebraica.
Questa libertà da qualunque radice religiosa la mette in risalto in alcuni temi fondamentali che emergono dal suo vangelo, tra cui l’universalità della salvezza che, al contrario di Matteo, non è destinata solo al popolo ebraico, ma a tutta l’umanità.
Il concetto di una salvezza universale lo porta ad approfondire le varie problematiche legate alla misericordia divina.
Anche Marco, come Luca, è pagano; il suo è un vangelo soprattutto narrativo, infatti, è il più breve.
Il vangelo di Giovanni è, in ordine di tempo, quello a noi più vicino. È scritto quando Giovanni ha tra gli ottanta e i novanta anni e la comunità ha già fatto un certo cammino, perché sono già passati alcuni decenni dalla morte di Gesù.
Nel vangelo di Giovanni non c’è la cronologia degli eventi, l’autore racconta la vita di Gesù riportando alcuni episodi importanti della sua vita, per presentare, teologicamente, un messaggio ben preciso, ad esempio approfondendo il tema dei “segni” (Giovanni non parla mai di miracoli), di cui Gesù si serve, per trasmetterci il suo insegnamento.
Tra i vari “segni” compiuti da Gesù, Giovanni ne sceglie sette.
I Vangeli sono stati scritti in epoche diverse, per cui, quando Luca scrive, tiene conto di Marco e Matteo e questo si può evincere dall’introduzione del suo vangelo.
I fatti raccontati, anche se scritti in epoche differenti, coincidono (nonostante la prospettiva diversa), per questo motivo sono detti “sinottici”.

dalle catechesi di p. Gianluca Manganelli




ORDINE FRANCESCANO SECOLARE: UNA «VOCAZIONE» CHE RICHIAMA UNA «PROFESSIONE» P. Ciro Polverino

1. VOCAZIONE[1] E PROFESSIONE

Vocazione e professione sono due termini che nell’ambito della famiglia francescana restano sempre uniti. Anche nella vita normale alla voce di uno che chiama, fa eco normalmente, la voce di un altro che risponde. Nel nostro caso il dialogo avviene tra DIO CHE CHIAMA e L’UOMO CHE RISPONDE. II Signore lo chiama ad una particolare condizione di vita cristiana, quella francescana, ma nello stato di vita SECOLARE. A questo invito l’uomo risponde con la «professione» e quasi ripete le parole di Francesco: «Signore cosa vuoi che io faccia?».

2. FRATERNITÀ OFS
Questa impostazione dice subito che l’Ofs non è e non può essere considerato come un qualsiasi gruppo di amici che si frequenta perché ci sono persone simpatiche, si fanno attività interessanti o perché ci sono degli interessi sentimentali. È anche questo, come base umana, come strumento provvidenziale di cui si serve Dio per far passare la sua voce. In profondità l’Ofs è una «fraternità»[2], dei fratelli che hanno Dio per Padre e che pongono Cristo al centro, come primo fratello, e fondamento del loro stare insieme. Ma questa fraternità si qualifica anche come francescana perché si rifà a Francesco d’Assisi per ricostruire il mondo e la Chiesa con uno stile nuovo e un comportamento diverso.

3 ELEMENTI DI UNA VOCAZIONE SECONDO LA BIBBIA
Quando la Bibbia ci presenta una vocazione (pensiamo a quella di Mosè davanti al roveto ardente[3],a Isaia nel Tempio[4], al giovane Geremia chiamato da JHW[5], al fanciullo Samuele chiamato di notte da Dio[6], a Davide che da pastore è chiamato a diventare re e guida del popolo[7]), troviamo un piccolo uomo di fronte alla maestà di Dio, che sente, da una parte, di essere stato «scelto» da Dio e, dall’altra, di essere inviato per una «missione» tutta speciale. Da quel momento la sua vita è segnata, è «marcata», prende un’altra piega.
Di fatto egli deve dare una risposta a Dio; deve porre dei gesti e se accetta ciò che Dio gli propone sa che andrà verso l’ignoto, un punto segreto noto solo a Dio. Deve, cioè, andare, come fu detto ad Abramo, verso la «terra che Io ti indicherò»[8]. Nella concretezza dei casi alcuni daranno una risposta immediata e spontanea; altre volte l’uomo, preso da paura tenterà di resistere, come può capitare anche a noi di fronte alla vocazione all’essere Ofs, all’essere frate o al matrimonio. E qui le scuse si moltiplicano all’infinito. Sinteticamente, dunque, la vocazione comporta questi quattro elementi:

  • Elezione o scelta (da parte di Dio)
  • Missione da compiere
  • Coinvolgimento personale
  • Risposta dell’uomo

Non costituisce elemento essenziale il fatto che Dio interpelli «personalmente» o «mediante altri». Diciamo che la via normale delle chiamate di Dio sia nell’AT che nella Chiesa, oggi, avviene attraverso i segni, attraverso un amico, attraverso anche fatti che ci possono sembrare banali, labili o inadatti. Così può avvenire anche nell’OFS.
Nel NT siamo chiamati a seguire Cristo in una via nuova che comporta lo spogliarci di noi stessi, del nostro modo di vedere le cose, e particolarmente del modo istintivo di agire[9], per rivestirci di Lui[10].

In pratica la vocazione cristiana è vocazione ad una vita nello Spirito. Quello stesso Spirito che, unendosi al nostro spirito, ci fa capaci di ascoltare la Parola del Padre e risveglia in noi la risposta filiale. Così per tutti pur nella diversità dei carismi, dei doni e dei ministeri; ma tutti riceviamo una chiamata personale dal medesimo Spirito per il bene dell’unico corpo che è la Chiesa. Si realizza, così, la fraternità ecclesiale che sorregge ed alimenta qualunque forma di fraternità che nella Chiesa nasce e si sviluppa.

4. LA VOCAZIONE FRANCESCANA
Per eccellenza, la chiamata a fare fraternità è quella francescana ma radicata nella fraternità ecclesiale. Non si concepisce né esiste Ofs se questo è fuori dal contesto ecclesiale, parrocchiale o diocesano che sia. Quando Francesco scrive ai primi laici che si sono rivolti a lui come guida e maestro, egli li invita:

  • Alla perfezione dell’amore
  • Alla rinuncia al proprio io
  • Ad accogliere in sé Cristo vivo
  • Ed a cambiare vita

Solo così Dio verrà ad abitare in essi e saranno una sola famiglia con Dio e con gli uomini. Si realizza così la Chiesa. Era la stessa, profonda esperienza di Chiesa che Lui, i frati e le sorelle clarisse già conducevano: Vangelo come fonte, Eucaristia come centro, i poveri come fratelli, la Chiesa come Madre[11]. Non è così anche per l’Ofs?

5. LA VOCAZIONE DI FRANCESCO, MODELLO PER LA NOSTRA
II dinamismo di elezione-missione che abbiamo visto si ritrova anche nella chiamata di Francesco.
Più volte il giovane Francesco si sente oggetto di predilezione da parte di Dio: nell’episodio del sogno di Spoleto[12],quando nella grotta fuori Assisi avverte di aver trovato la «perla preziosa» della parabola evangelica[13],quando di fronte all’avidità del padre scopre di avere un Padre celeste ben più ricco e provvidente[14], ecc.

  • In questi incontri con Dio Francesco percepisce che gli è affidata una missione da compiere:

–      «Và e ripara la mia casa… »[15] e diventa il costruttore di Dio;

–        dopo tre anni intuisce che la sua missione vera è riparare la Chiesa nella sua dimensione più profonda: è l’ascolto-scoperta della missione apostolica per cui si sente impegnato a «non possedere né oro, né argento, né denaro, né portare bisaccia, né pane, né bastone per via, né avere calzari, né due tonache, ma soltanto predicare il Regno di Dio e la penitenza»[16].

  • È una missione di cui egli non conosce né i dettagli e né gli obiettivi. Questi li conosce Dio. Lui deve solo restare in ascolto obbediente così da dilatare sempre più ed umilmente la missione di «risuscitare Gesù nei cuori di molti»[17] e di «spegnere le inimicizie e gettare le fondamenta di nuovi patti di pace»[18].
  • Tutto ciò rivela il profondo mutamento interiore ed esteriore avvenuto nella esistenza di Francesco: «Ecco Ecco come il Signore concesse a me, frate Francesco, di cominciare a fare penitenza (…) e, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di anima e di corpo»[19]. È dalla rinuncia delle proprie vedute e dall’accettazione della dimensione Cristo che prende l’avvio ogni vera vocazione, anche quella nell’Ofs.
  • La risposta di Francesco fu sempre pronta, immediata: a Spoleto, ad Assisi, a S. Damiano,a S. Maria degli Angeli. Senza indugio va tra la gente a parlare di Dio e della necessità di cambiare vita per salvarsi.

 6. LA «VOCAZIONE FRANCESCANA» NELL’OFS

La natura dell’Ofs, al pari degli altri Ordini fondati da Francesco è vocazionale. Si entra nell’Ofs e, cosa ancora più importante, vi si rimane, perché si è sperimentata la stessa elezione e missione di Francesco. In merito è molto illuminante la regola dell’Ofs:

«In seno a detta famiglia, ha una sua specifica collocazione l’Ordine Francescano Secolare. Questo si configura come unione organica di tutte le fraternità cattoliche sparse nel mondo e aperte ad ogni ceto di fedeli, nelle quali i fratelli e le sorelle, spinti dallo Spirito Santo a raggiungere la perfezione della carità nel proprio stato secolare, con la Professione si impegnano a vivere il Vangelo alla maniera di S. Francesco e mediante questa regola autenticata dalla Chiesa»[20].

Distinguiamo, perciò, all’interno di questa vocazione gli elementi classici di ogni vocazione francescana:

  • Chiamata dello Spirito Santo: Dio Padre, nel suo amore, fa sentire un particolare richiamo, in una certa direzione…
  • A raggiungere la perfezione della carità: cioè la condivisione dei sentimenti di Cristo per diventare nella Chiesa, cioè per i fratelli, incarnazione e prolungamento del Cristo stesso.
  • Al seguito di Francesco: ossia secondo quella particolare «missione» che ha avuto il santo di Assisi e secondo quella «risposta» che il medesimo ha dato.

 Lo stesso articolo ci fa, poi, distinguere uno specifico della: vocazione Ofs:

  • Nello stato secolare: non perciò nell’ambito dell’Ordine dei Frati o delle Clarisse, ma nella famiglia secolare, cioè da laico. Qui si pone il problema dell’appartenenza dei giovani all’Ofs. Durante l’Assemblea nazionale interobbedienziale Gifra, tenutasi al Getsemani di Paestum (Sa) dal 26 al 29 luglio 1984, si discusse di questa appartenenza del gifrino alla famiglia francescana secolare e Manuela Mattioli, allora Presidente CiOfs, ebbe a dire: «I gradi di appartenenza del giovane francescano alla famiglia dell’OFS possono essere stabiliti in diverse maniere, ma in nessuna maniera potrà essere messa in discussione la sua appartenenza come tale (…) II requisito fondamentale è essere giovane, sentirsi chiamato dallo Spirito Santo (…) Vivere questa chiamata nell’ambito della famiglia OFS»[21].

In pratica: se massimo grado di appartenenza all’OFS é inserirsi in esso con la «professione», rito con il quale ci si impegna a vita e con la massima consapevolezza a vivere la vocazione francescana, all’Ofs si appartiene – anche se in maniera ancora iniziale – con la «promessa» Gifra ossia con l’impegno «temporaneo» a vivere la vocazione francescana secolare e con quella consapevolezza e decisione non ancora pienamente mature e definitive che la giovinezza normalmente comporta.
Dunque: la «vocazione francescana secolare» è unica (quella indicata dalla regola Ofs e ripresa dal Nostro Volto); differenti sono invece i gradi di impegno o di risposta nei suoi riguardi. Impegno definitivo con la Professione nell’Ofs ed impegno temporaneo con la Promessa Gi.Fra.
Se la vocazione francescana secolare è così concepita, si può concludere che all’Ofs – in forza della identica vocazione­-missione – appartengono sia i membri che hanno emesso la professione, sia i giovani che hanno fatto la Promessa; e della Gi.Fra. possono far parte sia i giovani impegnati con la Promessa e sia quelli che, pur avendo già fatto Professione Ofs, nel rispetto dei limiti di età previsti dal Nostro Volto[22], continuano a vivere e a lavorare con e per la fraternità Gi.Fra.[23].

7. MISSIONE DEL LAICO FRANCESCANO
Per definire la missione del laico francescano potrei usare lo slogan «SERVIRE I FRATELLI» ma avrei detto tutto e niente.
Dato che la norma di vita il Vangelo, proverò a partire da questo per dire della sua missione.
Il capitolo 25 del Vangelo secondo Matteo ci dice due cose fondamentali:

  • Con la parabola dei talenti[24] siamo avvertiti che dobbiamo mettere a frutto tutti i doni ricevuti;
  • Con la parabola delle pecore e dei capri (o giudizio finale)[25]ci viene indicata la direzione da intraprendere: il servizio del fratello che non ha quello che ho io, del cosiddetto «povero».

In questa linea si muove anche la Regola negli articoli 6-19 quando parla di alcuni bisogni fondamentali dell’uomo e di come soddisfarli:

  • annunciare Cristo con la vita e con la parola[26];
  • accogliere tutti gli uomini con animo umile e cortese, come dono del Signore ed immagine di Cristo per creare condizioni di vita degne di creature redente da Cristo[27];
  • costruire un mondo più fraterno ed evangelico con l’esercizio competente delle proprie responsabilità[28];
  • essere segno di pace, fedeltà, rispetto della vita[29];
  • ricercare le vie dell’unità e delle fraterne intese praticando il dialogo, il perdono e la perfetta letizia[30];
  • avere rispetto per tutto il creato e fuggire la tentazione di sfruttare egoisticamente le risorse donateci dal Signore[31].

Ma la missione del francescano secolare è da svolgersi anche all’interno della fraternità:

  • con la propria partecipazione: essendo presenti, gioiosi, attenti, volenterosi;
  • quando il Consiglio affida un incarico anche il più umile e nascosto;
  • quando siamo chiamati a ricoprire ruoli di animazione: Presidente, Vice presidente, Consigliere;
  • quando abbiamo la responsabilità di altri fratelli: araldini, terziari in formazione;
  • quando tutto ciò siamo chiamati a realizzarlo anche a livello della fraternità provinciale e/o nazionale.

A volte la missione del francescano secolare si esplica all’interno di strutture parrocchiali e/o diocesane:

  • se il parroco chiede il nostro impegno di catechisti, cantori, ministranti;
  • quando svolgiamo un ministero cosiddetto di fatto (accoglienza, archivio, pulizie, animazione liturgica, ecc.);
  • quando particolari esigenze pastorali ci inducono a scoprire la vocazione al ministero straordinario della Comunione oppure ai ministeri istituiti del Lettorato e dell’Accolitato;
  • per non parlare poi della vocazione al Diaconato permanente o al sacerdozio.

 8. NON RESTIAMO SOLI NEL CAMMINO
A conclusione e per incoraggiamento, ricordo una caratteristica particolare di Dio che chiama: Egli non lascia mai solo il chiamato.Gli sta accanto durante tutto l’arco di tempo necessario per la risposta e per la missione.
Mosè chiamato da JHW a liberare il popolo di Dio, sente la promessa rassicurante della sua presenza e assistenza: «IO SARÒ CON TE»[32]. Maria, ugualmente, ha dall’arcangelo l’assicurazione di non restare sola nella missione di donare Gesù al mondo: «IL SIGNORE È CON TE»[33].E la stessa promessa la fa Gesù agli apostoli, continuatori della sua missione e, con loro, noi, tutta la Chiesa: «ECCO, IO SONO CON VOI TUTTI I GIORNI, SINO ALLA FINE DEL MONDO»[34].
Non abbiate paura, cari fratelli e sorelle!
L’unica cosa da temere è il disimpegno ed il prendere sotto gamba l’essere francescano secolare.


[1] Cfr. J. GUILLET, Vocazione, in Dizionario di Teologia biblica, Marietti, Torino, 1980, coll. 1399-1402.
[2] Sul tema della fraternità è fondamentale JEAN VANIER, La comunità luogo del perdono e della festa, Jaca Book, Milano, 1980.
[3] Es3
[4] Is 6
[5] Ger 1
[6] 1 Sam 3
[7] 1Sam16
[8] Gen 22,1
[9] «Se qualcuno vuol venire dietro di me, prenda la sua croce e mi segua» Mt 16,24
[10] Gal 3,27
[11] cfr. formula della Promessa Gi.Fra.
[12] FF326
[13] FF328
[14] FF344
[15] FF593
[16] FF 356
[17] FF 470
[18] FF 2252
[19] FF 110
[20] Regola Ofs art. 2
[21] MANUELA MATTIOLI, Considerazioni sulle linee fondamentali, in «Vita Francescana», 36 (1984), pp. 204-206.
[22] Cfr. «il NOSTRO VOLTO» op. cit. art. 13
[23] il tema della vocazione francescana secolare dei giovani della Gi.Fra. è affrontato da Vita Francescana 36 (1984) con vari articoli. Oltre quello già citato di M. Mattioli sono da leggere anche L. BISCARINI, Chiamati dallo Spirito Santo alla Chiesa, pp.211-215; L. MONACO, Chiamati ad essere fraternità segno visibile della Chiesa, pp. 216-217; M. ARTIACO, Natura ed identità della Gifra, pp. 218-221; F. TOZZI, La vocazione laicale del giovane francescano, pp. 222-225
[24] Mt 25,14-30
[25] Mt 25,31-46
[26] Regola Ofs art 6
[27] Regola Ofs art 13
[28] Regola Ofs art 14
[29] Regola Ofs art 17
[30] Regola Ofs art 19
[31] Regola Ofs art 18
[32] Es 3,12
[33] Lc 1,28
[34] Mt 28,20



ESSERI SPECIALI

Non hanno niente di piu’, non hanno niente di meno
hanno solamente ottocento anni di vita.
Esseri inconsapevoli della Grazia che emana dai
loro corpi, della Luce che semplicemente
traspare e che procede dall’interno all’esterno
Dai movimenti, dai sorrisi, dalle parole, dai silenzi
parlanti, dagli sguardi sapidi di chi non si nasconde.
Esseri contemplativi nella intima ricerca della Verita’
consci della sofferenza di trovarvi anche le proprie
contraddizioni, le delusioni per gli sforzi non sempre
compresi nell’ineludibile confronto con gli altri,
ma cui ci si abbandona con umilta’ e senza riserve
con Carita’ perché nella condivisione c’è sempre
un’opportunità che migliora, rendendo meritoria
un’azione.
Ci si forma formando, e si impara facendo, è una
catena di indiscussa validità che non ha bisogno
di approvazione: è la Tradizione.
Esseri che si donano settimana dopo settimana
alternandosi come solo le virtu’ interiori sanno
fare senza copioni già scritti. Come Artisti di strada
che non improvvisano l’arte: ce l’hanno nel sangue
Grazie ad una lunga preparazione che costa fatica, costa
sacrifici, tante incertezze e trepidazioni per il domani
Esseri in cammino a cui poter porre tante domande
ma che solo il tempo e la storia daranno risposte sufficienti.
Un anno è trascorso nel Terzo Ordine Francescano e per
essere in grado di affrontare la scena della vita, che grazie
a loro cambia prospettiva, io li seguo col sigillo indelebiledella nostra fede rispolverato e tirato a lucido
per farlo brillare come un astro sulle nostre vite.
Essi pecore madri, io mite agnellino, anima svezzata
che comprende ed apprezza il Bene, la Pace, la Sollecitudine,
e la Gioia di essere tra fratelli in Cristo, figli di un unico
Padre che ci vuole uniti nell’amore dell’uno verso l’altro
Perché il mondo ci riconosca e creda.
Buon lavoro a tutti!

Eugenia Iannone