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DIO NON SI STANCA DI PERDONARE

La misericordia non è qualcosa di marginale nella vita di Francesco. Qualche giorno prima di morire, Francesco, ad Assisi, detta il suo testamento, perché non era più in grado di scrivere, poiché quasi ceco.
Il testamento (Fonti Francescane 110) è, probabilmente, il testo più fedele al suo pensiero, perché è molto semplice e si vede che non c’è stata rielaborazione.
In questo scritto, Francesco rivela che la sua vita è cambiata per un incontro che non è stato il crocifisso: “Il Signore dette a me, frate Francesco, d’incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo.”
Il suo peccato che Francesco ritiene principale è di considerarsi il centro del mondo, attento solo a se stesso e alla sua immagine.
Quando incontra il lebbroso però, Francesco viene in contatto con un mondo che è lontano dal suo modo di vivere. Anche solo vedere i lebbrosi gli era molto amaro, perché era completamente disinteressato ai loro problemi e la sua vita era molto distante dalla loro.
Il Signore, però, lo portò da loro.
La prigionia di Perugia mina le certezze di Francesco il cui spirito inizia a vacillare. Quando si sta male, ci si accorge di quelli che stanno male.
Francesco cambia la sua vita nell’incontro con il dolore altrui, nel momento in cui lui stesso era fragile, mentre prima aveva una corazza che lo distaccava da tutto.
In questo incontro, il Padre Serafico fa esperienza di misericordia. Quell’esperienza di misericordia seguita da altri incontri di quel tipo, pian piano lo cambiò.
Per noi sono importanti le esperienze di volontariato che possono cambiarci, com’è avvenuto per Francesco. Non sono le chiacchiere che ci cambiano, ma l’incontro con il dolore.
La Scala dei valori di Francesco si trasforma. Tutto il mondo di prima lo mette da parte, ecco che avviene il capovolgimento dei valori.
La lettera a un ministro (Fonti Francescane 235) fu scritta all’incirca nel 1223, in un periodo di grande difficoltà per Francesco che, molto probabilmente, termina con le stimmate. I compagni dicono che si era rattristato e si era chiuso in se stesso. Il ministro generale voleva lasciare la guida dei frati, per cui Francesco gli scrive questa lettera.
Tutta questa lettera è un canto di misericordia. Francesco invita il ministro a fare in modo che non ci fosse un solo frate che non leggesse nei suoi occhi il suo perdono, prima di andarsene via. E se non chiedesse misericordia, sarà il ministro stesso che deve chiedergli se vuole essere perdonato.
Non serve a niente passare sotto la porta Santa, se non facciamo un passo verso l’altro: In questo modo la porta sarebbe più una condanna che altro.
La lettera ai fedeli (Fonti Francescane 191) si pensa che fosse il primo documento di Francesco rivolto ai fedeli del Terz’Ordine, in realtà non è proprio così. Questa lettera è datata molto probabilmente 1225. In essa dice che chi esercita il giudizio devono farlo con misericordia, altrimenti il Giudizio del Signore sarà senza misericordia. Il Signore perdonerà a noi nella misura in cui noi abbiamo perdonato gli altri. Francesco all’inizio fa esperienza di misericordia sulla sua vita, poi la misericordia diventa elemento centrale della sua vita.
Alla fine della sua vita non riesce a scrivere nella Regola l’importanza del perdono, perciò lo aggiunge nella Lettera ai Fedeli.
La Porta è Cristo che sta dall’altra parte della porta e ci aspetta.

Mons. Felice Accrocca
Arcivescovo di Benevento
Discorso all’Ordine Francescano Secolare
in occasione del Giubileo arcidiocesi di Benevento




SONDAGGIO

Carissimi, con questo sondaggio vi chiedo di suggerire un nuovo nome al nostro Blog. Purtroppo non possiamo modificare l’URL (cioè l’indirizzo www.ofszonavellino), però possiamo cambiare il nome, per continuare l’opera di restyling del nostro Blog. Le tre proposte, cui possono esserne aggiunte anche altre, hanno un significato che sintetizza le principali finalità del nostro Blog. Il nome che sarà scelto sostituirà la scritta “Ordine Francescano Secolare della Campania” e sotto, al posto di “Zona Interdiocesana di Avellino”, metteremo la scritta “Il Blog dei Francescani Secolari” – a voler significare che vuole essere di tutti e non solo della fraternità di Avellino – o altra scritta, se me ne suggerite una. Grazie per la collaborazione.

 





SALVIAMO IL BLOG

Carissimi, quando nell’estate del 2010 ho pensato di realizzare questo blog, mi ero prefissato due obiettivi: tenere aggiornate tutte le fraternità della zona interdiocesana di Avellino sulle attività svolte e sugli appuntamenti futuri; avere un luogo “virtuale” dove confrontarsi, esprimendo, liberamente, il proprio pensiero su tutto quello che riguarda la nostra vita di francescani calati nella realtà temporale.
Fino all’ultimo capitolo elettivo dell’Ofs della Campania, ho raccontato, attraverso la pubblicazione di post e foto, tutti gli incontri zonali e regionali cui ho preso parte, con lo scopo di permettere, anche a chi non era presente, di tenersi sempre informato e, quindi, di formarsi.
La “cronaca” della nostra fraternità zonale è stata arricchita da meditazioni che ci hanno accompagnato nel corso degli ultimi due anni e grazie alle quali abbiamo allargato i nostri orizzonti, uscendo fuori dalla monotonia dei nostri incontri di formazione che, forse, non ci hanno formato abbastanza (se i frutti sono quelli che sapete!!!).
A oggi oltre 6600 persone hanno visitato il nostro blog e molte di queste sono esterne alla nostra zona (o ex zona), o, addirittura fuori regione; pensate che abbiamo avuto anche una visita di un utente da Città del Vaticano… secondo me, per lanciare un anatema a Pietro Urciuoli…
Dal numero di visite giornaliere (di cui controllo le varie statistiche) ho rilevato che questo blog è stato un punto di riferimento, soprattutto nel caso di eventi particolari, visto il “silenzio” che regnava su altri organi d’informazione regionale e nazionale.
A tal proposito, scandalosa, secondo me, è stata la totale assenza di notizie, per alcuni giorni, sul capitolo elettivo regionale.
A tal proposito vorrei esprimere un mio pensiero che è questo: se qualcuno pensa che il “nostro” blog non serva a nulla (e potrebbe aver ragione), a cosa serve il sito regionale? E quello nazionale?Questo blog, purtroppo, è l’unico strumento (se si esclude Facebook, per il quale si trova sempre il tempo) su cui si può interagire e condividere tutto quello che pensiamo, senza il timore di essere censurati.
Nonostante queste belle premesse, però, poche sono state le tracce lasciate da chi ha visitato le nostre pagine: molti lettori, pochi scrittori!
Il blog è come la fraternità: se niente mettiamo, niente troviamo e se non troviamo niente, poco alla volta finiamo per non visitarlo più, lasciandolo morire, poco alla volta.
Allora saremo contenti di tenerci il nostro sito regionale (senza voler mancare di rispetto a chi lo gestisce che è una persona che io stimo molto) e nazionale, tanto, poi, se dobbiamo dire qualcosa, abbiamo sempre Facebook!
Ora che non sono più delegato di zona, per la gioia di qualcuno [soprattutto di Domenico che mi scrive messaggi subliminali], non posso più chiedere alle fraternità di scrivere articoli su questo o quell’evento, pertanto, l’obiettivo di questo blog rimane “solo” quello di fare formazione-informazione e condivisione.
Se vuoi che questo strumento continui ad esistere, dai anche tu il tuo contributo [non economico, anche se non guasta mai!] e non restare a guardare alla finestra, ma scendi in strada e condividi il tuo pensiero e le tue esperienze: non una volta, ma in ogni circostanza che ti va di farlo. Grazie!

Ciro d’Argenio




DON CIOTTI, PRETE DI LOTTA E DI GOVERNO “HO COMINCIATO SUI TRENI DEI DISPERATI”

Don Ciotti

L’INTERVISTA DA REPUBBLICA
Incontro con il fondatore di Libera: “Il vescovo mi disse: affido a Luigi una parrocchia, e gli do come parrocchia la strada
di FABRIZIO RAVELLI

Don Luigi Ciotti è uno di quei preti lottatori che non mollano mai, che trovi per strada e non in sacrestia, che dà del tu a tutti (anche nel primo incontro con l’avvocato Agnelli, che non fece una piega). Il Gruppo Abele lo conoscono tutti. La sua vita, un po’ meno. Si incontrano una maestra nervosa, un medico disperato, un vescovo coraggioso, e tanti altri. Conta molto che Ciotti sia un montanaro.

Montanaro veneto, no?
“Sì sono nato a Pieve di Cadore nel ’45, ed emigrato in Piemonte con mio padre, mia madre e le mie sorelle per la ragione che nel dopoguerra spinse migliaia e migliaia di persone ad andare a cercare altrove la dignità di lavoro, la speranza”.

E te ne sei andato a cinque anni.
“Mi ricordo l’impatto traumatico con la città di Torino, perché mio padre aveva trovato lavoro ma non aveva trovato casa. E quindi la nostra casa è stata la baracca del cantiere del Politecnico di Torino. Mio padre lavorava nell’impresa che ha costruito la parte più vecchia. Quegli anni hanno segnato la mia vita insieme con la baracca, il cantiere, le facili etichette che la gente ti mette perché tu vivi dietro uno steccato. Un pensiero sempre sbrigativo, che generalizza, e che tuttora resta una delle ferite aperte. Mio padre era muratore, poi è diventato il capocantiere,
il capomastro”.

A Torino da immigrato che viveva in una baracca.
“Sì, la baracca del cantiere. Dignitosa. Una delle cose che mi ricorderò sempre come un avvenimento è di quando una volta all’anno andavamo a comprare la carta da zucchero, quella blu, poi con le asticelle di legno che papà tagliava dalle assi attaccarla al soffitto. Era festa, festa in famiglia. Certo, il gabinetto era una baracca all’esterno. Però ho alcuni dei ricordi belli della mia infanzia. Il padrino della cresima che ho fatto nella parrocchia lì vicino era il gruista, Paolo il gruista. Eri un po’ coccolato dagli operai. Poi venne la drammatica sera, credo fosse proprio un tornado che buttò giù i 42 metri della Mole Antonelliana, fece saltare tutti i tetti della Grandi Motori, e ci portò via gran parte della baracca. Ricordo la mia mamma che ci teneva stretti, un po’ disperata. Volò via un pezzo di tetto, e il gabinetto lì vicino, che era fatto di assi”.

E com’eri tu, bambino della baracca?
“L’altro ricordo è quello legato alla mia esperienza scolastica in prima elementare. Io dovevo andare a scuola in quel territorio, nella zona ricca di Torino. E avvenne un fatto che mi ha segnato molto. Questa scuola, la Michele Coppino, aveva un regolamento: tutti con il grembiule. Mia madre andò dalla maestra a dire che non era in grado di comprare il grembiule e il fiocco per me, perché aveva dovuto comprarlo alle mie sorelle, e non c’erano soldi. Quindi disse: per un mese manderò mio figlio a scuola senza il grembiule. Sai, tu puoi essere povero ma dignitoso, la dignità di andare a dire: guardi, non ce la faccio. Quindi io mi son trovato a essere diverso, dentro una scuola dove tutti avevano questo benedetto grembiule e questo fiocco interminabile, e tutti che ti chiedevano come mai tu non avevi il grembiule. Tu ti senti diverso, ti senti etichettato, ti senti giudicato. Al punto che quando qualcuno mi chiedeva dove abitavo, io non dicevo che abitavo dietro quello steccato, ma in un palazzo”.

Finisce che il diverso si ribella.
“Dopo venti giorni di prima elementare, e io che già mi sentivo diverso e in difficoltà, la maestra è arrivata a scuola quel giorno nervosa, magari aveva litigato col marito. E mentre in fondo alla classe i miei compagni ridevano e scherzavano, lei non se l’è presa con loro, ma se l’è presa con me, che ero il più vulnerabile, il più visibile, mi aveva anche messo al primo banco. E io devo averle detto: ma che cosa vuoi, non c’entro niente. Lei chissà cosa ha capito, e le è scappata un’espressione che per me è stata una ferita: ma cosa vuoi tu, montanaro? Detto quasi con disprezzo. I miei compagni tutti a ridere, e quindi mi sentivo ancora più umiliato da quella affermazione. Allora io ho tirato fuori il calamaio dal banco, uno di quei vecchi banchi di scuola, e gliel’ho tirato. L’ho colpita in pieno. Espulso subito dalla scuola, dopo venti giorni. Portato a casa da un bidello. Io non l’ho mai più incontrato, ma mi ricordo quella mano che mi portava a casa, e io piangevo perché sapevo di avere sbagliato e perché sapevo che mi aspettava una punizione, e mia madre me la diede sonora. Anche se anni dopo mia madre mi disse: Luigi, io lo sapevo che tu avevi difeso la nostra dignità, però non si fa a questo modo. Il vero problema venne quando i miei compagni uscirono di scuola alle 12,30 – io ero già espulso – e avevano qualcosa di nuovo da raccontare ai genitori o alla cameriera. Lo sai mamma cosa è successo oggi a scuola? Dimmi, cicci. Un nostro compagno ha tirato il calamaio alla maestra. Ah, povera maestra. E come si chiama quel compagno? Ciotti. Guai se ti vedo con quel compagno. Sono diventato il compagno cattivo”.

Montanaro, e ribelle.
“Meno male che frequentavo la parrocchia. Andavo lì, eravamo un gruppetto, nella parrocchia di questo quartiere molto ricco di Torino. E’ stato per me un momento importante, quando la tua vita viene segnata da quelle etichette. L’altro episodio che mi ha segnato è successivo, io dopo le medie andrò a scuola per prendere il diploma di radiotecnico, e lì avviene l’incontro con un signore su una panchina. Un disperato, che mi aveva colpito, perché io passando col tram lo vedevo sempre lì a leggere libri, sottolineando con una matita rossa e blu. Io avevo 17 anni, con gli entusiasmi e le fantasie di quell’età. Un giorno sono sceso dal tram, sono andato lì e gli ho detto: vuole che vada a prenderle un caffé? E lui niente. Torno alla carica: vuole un té? Lui zitto. Penso, sarà sordo, ma mi accorgo che non lo è. Era un medico, amato e stimato dalla gente, ed era successa una vicenda drammatica nella sua vita, che l’aveva portato su quella panchina. Era andato ubriaco in sala operatoria, e aveva provocato la morte di una donna, la moglie di un amico. Poi era uscito di testa, stava male. Però studiava ed era curioso. Dalla panchina lui vedeva dei ragazzi al bar di fronte, che entravano e uscivano – allora non c’era l’eroina – prendevano delle amfetamine, ci bevevano dei superalcolici e sballavano, facevano la bomba. Un giorno, quando alla fine nasce un rapporto fra me e lui, anche se stentato, mi dice: vedi, dovresti fare qualcosa per quei ragazzi. Lui era un uomo disperato e sofferente, morirà pochi mesi dopo. E io mi sono detto: questo incontro non sarà un incontro qualsiasi. Mi ha indicato una strada. Anche questo episodio ha lasciato un graffio nella mia vita”.

E poi?
“Poi sono andato a vivere da solo. Ho fatto un gruppetto. Poi nasce il Gruppo Abele, che a Natale ha compiuto 45 anni. Io in seminario andrò dopo, avevo già il Gruppo Abele, avevo una storia dietro. Avevamo cominciato ad andare sui treni, dove i disperati senza casa dormivano: i treni arrivavano caldi. Ho pensato, caspita io incontro questa gente fuori, facciamo delle cose insieme, non li lascio soli. A volte la mattina eravamo così stanchi che il treno partiva, e ci trovavamo a Chivasso. Passavano i controllori, te la davi a gambe. Perché sai, se parli a tavolino non capisci questi mondi. E lì nasce la storia del Gruppo Abele, nasce sulla strada, poi le prime comunità, il lavoro al Ferrante Aporti, la casa di rieducazione del Buon Pastore. Le prime comunità in alternativa a quelle strutture. Una storia che è cresciuta, e che non è un Luigi Ciotti, è un noi: ho fatto questo perché l’ho fatto con altri. Io difendo questo noi, vuol dire che non è opera di navigatori solitari. E quando verrò ordinato sacerdote dal cardinale Michele Pellegrino, grande vescovo che si faceva chiamare padre, in una chiesa zeppa di mondo di strada, alla fine di quella celebrazione non volava una mosca, lui guardò tutti questi ragazzi e disse: Luigi è nato con voi, è cresciuto con voi, e io ve lo lascio. Però affido anche a lui una parrocchia, e gli do come parrocchia la strada”.

Michele Pellegrino, insigne grecista, vescovo coraggioso e innovatore.
“Lui veniva da noi. Ai nostri campi in montagna. Venne una volta e c’erano tutte le ragazze del mondo della prostituzione. Lui ascoltò e poi mi disse: quando hai una sera libera vieni a cena da me, tu mi hai aperto una finestra e io voglio capire di più questo mondo. Non giudicava, non semplificava, voleva capire. Un anno dopo andrà a celebrare il Natale con le prostitute del centro storico di Torino. Uno che non si è mai tirato indietro. E sarà lui quello che prenderà posizione quando il quotidiano La Stampa farà la grande campagna per ripulire la città dalle prostitute. La redazione si spaccò in due, per quella iniziativa di legge popolare. E lui fece quell’omelia nella notte di Natale, nel duomo di Torino, partendo dal Vangelo di Giovanni, e pose delle domande sulle cause, non solo sulle donne costrette a prostituirsi ma anche sui clienti, sulla prevenzione. Tu immagina un cardinale che fa questa omelia nel duomo, e si mette contro il quotidiano della città che raccoglieva firme. Pensa che venne Gina Lollobrigida con l’aereo per mettere la firma, e Claudio Villa il reuccio della canzone italiana. E poi la tenda di Porta Nuova, era il 1973, ti faccio vedere le foto con lui: disadattati e delinquenti non si nasce ma si diventa. Quando abbiamo preso posizione contro le carceri per minorenni, perché fossero solo l’extrema ratio, e si cercassero soluzioni diverse. Il Gruppo Abele cominciò un lavoro dentro le carceri, siamo andati dentro a vivere”.

Dentro le carceri?
“Sì, a Roma al ministero c’era un direttore dell’Ufficio quarto, Umberto Radaelli, che ebbe l’intuizione e ci portò dentro. E dodici di noi hanno vissuto in carcere: fu la prima esperienza grande in Italia, di condivisione e di progetto dentro il carcere dei minorenni, qui al Ferrante Aporti. Poi a Roma qualcuno si agitò, fu costruita ad arte tutta una cosa per bloccare questa sperimentazione. Noi uscimmo facendo una denuncia, e Pellegrino verrà a quella denuncia del sistema, e con accuse false fummo messi sotto inchiesta col direttore, che fu sospeso. Noi uscimmo, ma dieci anni dopo quello diventò il grande progetto Ferrante Aporti. E una volta dimostrata la falsità delle accuse il direttore Antonio Salvatore fu promosso andò al Beccaria di Milano, e ne divenne il grande direttore. Ma la sua storia cominciò qui, con quell’atto di coraggio che abbiamo condiviso, con lui e con Umberto Radaelli”.

Un momento indietro. Quando già c’era il Gruppo Abele sei andato in seminario.
“Sì, sono andato in seminario qui a Rivoli, uscivo ed entravo. Il cardinale Pellegrino capì che era un servizio per i poveri, per gli ultimi, per quelle fasce dimenticate. Il Gruppo Abele fu il primo in Italia ad aprire un centro droga sulla strada, trovando un gruppo di magistrati che avevano capito che la legge era un mostro giuridico. Noi ci siamo autodenunciati per aprire il centro droga. La legge stabiliva che tu dovevi denunciare, e le strade erano due: o il carcere o l’ospedale psichiatrico. Noi abbiamo aperto in via Giuseppe Verdi a Torino, giorno e notte, dove arrivava un sacco di gente anche per essere accudita, per mangiare e per dormire. Davamo i primi supporti in una città che negava l’esistenza di quel problema, che diceva fosse poca cosa. In due anni quattromila persone arrivarono, perché non c’era nulla, quindi si andavano ad aggrappare dove trovavano dei riferimenti. La città comincia a prendere coscienza, noi cominciamo a fare la battaglia politica per avere una legge diversa, che sfocerà nello sciopero della fame del ’75 in piazza Solferino, che porterà il Parlamento italiano a far la legge con cui nascono i Sert, nascono i servizi. Pellegrino sarà presente in tutti questi momenti”.

Poi quando succedono cose come la spedizione punitiva contro un campo rom ti cadono le braccia.
“Sì, io l’ho detto, sono stato lì. Mi sono stancato di sentir parlare di emergenze in questo Paese. Queste non sono emergenze, sono percorsi che si sono consolidati nel tempo. E se c’è uno sgombero da fare nel nostro Paese è lo sgombero dei pregiudizi, dell’ignoranza, della non conoscenza. Questo dei rom è un popolo che ha voglia di vivere, un popolo gioioso, un popolo poetico. Che dev’essere aiutato a poter vivere delle condizioni di legalità. Questi vivono la terra di nessuno. Non si può parlare di emergenza. Io mi arrabbio quando si scopre con un misto di sorpresa e di vergogna che la miseria, la segregazione, la discriminazione, la violenza sono un problema anche nostro. Qui a Torino è avvenuta un’aggressione razzista, spiace doverlo dire, una vendetta. Ci sono belle esperienze concrete che dimostrano come l’accoglienza e le regole possono mettersi insieme. Qui a Settimo, come a Reggio Calabria per la raccolta dei rifiuti. Noi ne abbiamo assunti alcuni: vai a rubare il rame, e allora vieni qui a lavorare il rame. Si guadagnano la pagnotta in maniera onesta”.

A un certo punto hai cominciato a occuparti di terroristi che stavano in galera.
“Da me venne una figura stupenda, padre David Turoldo. E mi disse: dobbiamo fare qualche cosa per dare una mano a sbrogliare questa situazione, nel rispetto della legalità. Così ho accolto diversi di loro, alcuni sono ancora qui, a una condizione: che si mettessero in gioco, che lavorassero. Che ci fosse, nel rispetto dei percorsi della giustizia, un cambiamento dentro le persone. Il paradosso, se così si può dire, è che in questo settore lavorava come volontario il procuratore della Repubblica Gian Carlo Caselli. Coordinava un gruppo, e si trovava a lavorare con quelli che aveva mandato in galera. Cose che sono successe in questo Gruppo Abele. Come il fatto che oggi accompagniamo in grande silenzio storie di testimoni di giustizia, nella lotta alla criminalità e alle mafie”.

E poi nella tua vita entra la mafia.
“E’ stata una serie di tappe. A Torino è nato il coordinamento delle comunità di accoglienza. Poi quando scoppia il problema Aids nasce la Lila, la lega per la lotta all’Aids, e io sono stato il primo presidente. Dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, mi sono chiesto: noi continuiamo a dare una mano ai giovani vittime delle dipendenze, alle ragazze sfruttate dalla prostituzione, ma chi guadagna dietro a questi? E ti dici: continuiamo a stare sulla strada, a lavorare all’accoglienza, però il problema della mafia attraversa tutto il nostro Paese. E quindi nasce Libera, per mettere insieme tante esperienze, per creare un fermento sociale. Ci chiediamo: cos’è che bisogna portare via a questi signori, i mafiosi? Il denaro, i beni, era il sogno di Pio La Torre, ma lo ammazzeranno quattro mesi prima che si facesse la legge. Però quella confisca dei beni mafiosi, che non parlava ancora di uso sociale, non funzionava, così raccogliamo un milione di firme per una legge ad hoc. E oggi ci sono più di quattrocento associazioni in Italia che gestiscono questi beni e li utilizzano. Cooperative che sono partite autofinanziandosi, tirando la cinghia, andandosi a cercare i soldi da sole. Una storia meravigliosa nata dal basso, dalla gente stufa di essere mortificata. La vendita dei beni mafiosi può esistere, ma dev’essere l’eccezione, non un dogma. Così come ho sentito che ci sono delle proposte: vendiamoli tutti e diamo il ricavato allo Stato. No, perché è uno schiaffo per il mafioso vedere i giovani che arrivano sulla tua terra, quella terra con cui hai gestito il tuo potere, la tua forza. E che sia uno schiaffo si vede dagli attentati. Quest’estate ci hanno fatto fuori trentacinque ettari di grano. Hanno bruciato olivi secolari in terra di Calabria. Distrutto impianti in provincia di Latina. Tagliate le pompe dell’acqua in un altro territorio. Eppure si è andati avanti, non s’è mai fatto un passo indietro, s’è dato lavoro a tanti giovani. Oggi qualcuno vorrebbe impossessarsene, tutti i giorni leggiamo di confische di denaro che non si sa dove finisca. Secondo me quel denaro liquido deve servire per i testimoni di giustizia, e per il risarcimento alla vittime di mafia”.

Che vita fai, ti tocca correre di qua e di là come una trottola?
“Abbastanza. Ma vivo qua nel gruppo, in questa ex-fabbrica. Poi c’è il gruppo che dà lavoro a seicento persone. La mia vita è qui: stare con la gente è per me la cosa più importante e fondamentale. Poi s’è creata una rete di comunità, il lavoro di strada, il drop-in, il settore culturale, la casa editrice, la rivista Narcomafie, un centro di documentazione e ricerca, la sede dell’università della strada per la formazione degli operatori. Qui c’è tutto il lavoro per le vie di fuga che facciamo per la tratta e la prostituzione, le ragazze vengono nascoste e reinserite, in luoghi protetti perché questi le cercano. Per me l’accoglienza è fondamentale, se viene meno il faccia a faccia con le persone perdi la vita. Poi c’è Libera”.

Un’ultima cosa. In questo Paese si parla del volontariato, straordinario e meritevole, come di un alibi per chi non fa niente. Non ti manda in bestia?
“Lo dico da sempre, mi auguro che ci sia meno solidarietà e più giustizia. Non verrà mai meno l’attenzione agli altri, l’accoglienza, la relazione. Però noi non possiamo diventare i delegati a occuparsi dei poveri e degli ultimi. Noi continueremo a occuparcene, perché non abbiamo mai chiuso la porta in faccia a nessuno. Ma in questo Paese, oggi, il sociale è mortificato: chiudono cooperative, chiudono associazioni. E si dimentica che la solidarietà è indivisibile dalla giustizia, non si deve dare per carità quello che spetta alla gente per giustizia. Guai se diventiamo il tappabuchi. Abbiamo anche il dovere della denuncia seria e documentata, il dovere di chiedere conto alla politica. E se è lontana dalla strada, dai problemi della gente, dalla sua fatica, allora la politica è lontana dalla politica. C’è un problema di democrazia nel nostro Paese, è una democrazia pallida che non ha senso di responsabilità”.




RITRATTO DI PRETE

Certe persone lasciano il segno. Anche se non le conosci, ti affascinano fin dal primo istante. Don Andrea Gallo è così.
Basta ascoltarlo parlare per pochi secondi, basta leggere poche righe dei suoi scritti e non lo dimentichi più.
Questo ritratto del Don è preso dal sito della comunità di San Benedetto al porto.

Andrea nasce a Genova il 18 Luglio 1928 e viene immediatamente richiamato, fin dall’adolescenza, da Don Bosco e dalla sua dedizione a vivere a tempo pieno “con” gli ultimi, i poveri , gli emarginati, per sviluppare un metodo educativo che ritroveremo simile all’esperienza di Don Milani, lontano da ogni forma di coercizione.
Attratto dalla vita salesiana inizia il noviziato nel 1948 a Varazze, proseguendo poi a Roma il Liceo e gli studi filosofici.
Nel 1953 chiede di partire per le missioni e viene mandato in Brasile a San Paulo dove compie studi teologici: la dittatura che vigeva in Brasile lo costringe, in un clima per lui insopportabile, a ritornare in Italia l’anno dopo.
Prosegue gli studi ad Ivrea e viene ordinato sacerdote il 1 luglio 1959.Un anno dopo viene nominato cappellano alla nave scuola della Garaventa, noto riformatorio per minori: in questa esperienza cerca di introdurre una impostazione educativa diversa, dove fiducia e libertà tentavano di prendere il posto di metodi unicamente repressivi; i ragazzi parlavano con entusiasmo di questo prete che permetteva loro di uscire, poter andare al cinema e vivere momenti comuni di piccola autogestione, lontani dall’unico concetto fino allora costruito, cioè quello dell’espiazione della pena.
Tuttavia, i superiori salesiani, dopo tre anni lo rimuovono dall’incarico senza fornirgli spiegazioni e nel ’64 Andrea decide di lasciare la congregazione salesiana chiedendo di entrare nella diocesi genovese: “la congregazione salesiana, dice Andrea, si era istituzionalizzata e mi impediva di vivere pienamente la vocazione sacerdotale”.
Viene inviato a Capraia e nominato cappellano del carcere: due mesi dopo viene destinato in qualità di vice parroco alla chiesa del Carmine dove rimarrà fino al 1970, anno in cui verrà “trasferito” per ordine del Cardinale Siri.
Nel linguaggio “trasparente” della Curia era un normale avvicendamento di sacerdoti, ma non vi furono dubbi per nessuno: rievocare quel conflitto è molto importante, perché esso proietta molta luce sul significato della predicazione e dell’impegno di Andrea in quegli anni, sulla coerenza comunicativa con cui egli vive le sue scelte di campo “con” gli emarginati e sulle contraddizioni che questa scelta apre nella chiesa locale.
La predicazione di Andrea irritava una parte di fedeli e preoccupava i teologi della Curia, a cominciare dallo stesso Cardinale perché, si diceva, i suoi contenuti “non erano religiosi ma politici, non cristiani ma comunisti”.
Un’aggravante, per la Curia è che Andrea non si limita a predicare dal pulpito, ma pretende di praticare ciò che dice e invita i fedeli a fare altrettanto: la parrocchia diventa un punto di aggregazione di giovani e adulti, di ogni parte della città, in cerca di amicizia e solidarietà per i più poveri, per gli emarginati che trovano un fondamentale punto di ascolto.
Per la sua chiara collocazione politica, la parrocchia diventa un punto di riferimento per molti militanti della nuova sinistra, cristiani e non.
L’episodio che scatena il provvedimento di espulsione è un incidente verificatosi nel corso di una predica domenicale: lo descrive il settimanale “Sette Giorni” del 12 Luglio 1970, con un articolo intitolato “Per non disturbare la quiete”.
Nel quartiere era stata scoperta una fumeria di hashish e l’episodio aveva suscitato indignazione nell’alta borghesia del quartiere: Andrea, prendendo spunto dal fatto, ricordò nella propria predica che rimanevano diffuse altre droghe, per esempio quelle del linguaggio, grazie alle quali un ragazzo può diventare “inadatto agli studi” se figlio di povera gente, oppure un bombardamento di popolazioni inermi può diventare “azione a difesa della libertà”.
Qualcuno disse che Andrea era oramai sfacciatamente comunista e le accuse si moltiplicarono affermando di aver passato ogni limite: la Curia decide per il suo allontanamento dal Carmine.
Questo provvedimento provoca nella parrocchia e nella città un vigoroso movimento di protesta, ma la Curia non torna indietro e il “prete scomodo” deve obbedire: rinuncia al posto “offertogli” all’isola di Capraia che lo avrebbe totalmente e definitivamente isolato.
Lasciare materialmente la parrocchia non significa per lui abbandonare l’impegno che ha provocato l’atteggiamento repressivo nei suoi confronti: i suoi ultimi incontri con la popolazione, scesa in piazza per esprimergli solidarietà, sono una decisa riaffermazione di fedeltà ai suoi ideali ed alla sua battaglia. “La cosa più importante” , diceva, “ che tutti noi dobbiamo sempre fare nostra è che si continui ad agire perché i poveri contino, abbiano la parola: i poveri, cioè la gente che non conta mai, quella che si può bistrattare e non ascoltare mai. Ecco, per questo dobbiamo continuare a lavorare!”
Qualche tempo dopo, viene accolto dal parroco di S. Benedetto, Don Federico Rebora, ed insieme ad un piccolo gruppo nasce la comunità di base, la Comunità di S. Benedetto al Porto: quest’anno festeggiamo trentadue anni: se il nostro progetto con tanti compagni e compagne non fosse un poco riuscito, potremmo essere ancora qui???
Dopo tanti anni, la nostra porta è sempre aperta!

Comunità di S. Benedetto al Porto. Genova




PARLIAMONE …