ESSERE RESPONSABILI OFS AI TEMPI DI PAPA FRANCESCO

image_pdfimage_print

Mons. Domenico Sigalini - Vescovo di Palestrina
Mons. Domenico Sigalini – Vescovo di Palestrina

Il 19-20 e 21 giugno si è tenuta a S. Maria degli Angeli – Assisi, presso Casa Leonori, l’Assemblea nazionale dell’Ofs d’Italia che ha visto la partecipazione dei ministri, viceministri e consiglieri di tutte le fraternità regionali.
Il pomeriggio del 19 è intervenuta la prof.ssa Rosanna Virgili che ha dedicato il suo intervento al discernimento personale. A conclusione dell’incontro ci siamo recati a pregare, senza la presenza di altri fedeli, sulla tomba di San Francesco.
La mattina del 20 giugno c’è stato l’intervento di Mons. Sigalini – Vescovo di Palestrina e Francescano Secolare – che ci ha fatto riflettere sul nostro ruolo di responsabili, alla luce della Evangelii Gaudium di papa Francesco.
Nel pomeriggio ci sono stati i laboratori dove si sono simulate alcune situazioni di fraternità in difficoltà a cui i vari gruppi di lavoro che simulavano ciascuno un consiglio regionale, dovevano trovare una soluzione.
Dopo la cena ci siamo recati sulla piazza del vescovado – ad Assisi – per un incontro di preghiera.
La domenica mattina ci siamo dedicati alla presentazione del nuovo testo dell’anno, del Festival Francescano che si terrà a Bologna nel prossimo settembre e di alcune problematiche che riguardano la nostra fraternità nazionale.
Di seguito è riportato l’intervento di Mons. Sigalini, cui ha fatto seguito un ampio dibattito.

Introduzione
Cogliamo immediatamente, come invito e statuto speciale del responsabile, l’esortazione apostolica “La gioia del vangelo” (EG). È lo scritto più completo del pensiero di papa Francesco oggi e ci suggerisce di definire la figura del responsabile su quattro parole: gioia, conversione, missione, azione, con una conclusione che può sorprendere: il responsabile è anche un accompagnatore spirituale, in OFS sempre in collaborazione con l’assistente spirituale Non sono parole di poco conto. Posso dire senza scandalizzare che un responsabile OFS ha una vita da cani?! S Ei sempre sulla breccia, se non ti muovi, muore tutto, se ti scoraggi peggio ancora. Se richiami ti danno del nulla facente che ah tempo da perdere; tu non hai una famiglia come la mai e soprattutto un parroco come il mio ecc… Vogliamo oggi aiutarci tutti a delineare le varie attese, speranze, ma anche le immancabili difficoltà, sapendo che chi fa il responsabile è ben lontano dallo scoraggiamento, anzi la difficoltà gli dà adrenalina. Oggi noi l’adrenalina la vogliamo ricevere da papa Francesco. È un dono di Dio per noi immeritato, ma oggi sicuro e confortante. L’esortazione apostolica ci è ancora più necessaria e definitoria perché viene da una rielaborazione molto personale e vivace da parte di papa Francesco del lavoro fatto nell’ultimo sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione. Conta cioè sul sentire di tutta la chiesa e riceve dal papa il suo entusiasmo e la grazia che Dio gli concede per il suo servizio petrino. La gioia del vangelo te la mostra il papa col suo sorriso, quando bacia i bambini che gli si aggrappano, quando telefona alla nonnina rimasta vedova e sola, quando si mette la maglia della sua squadra del cuore, quando bacia gli ammalati, i giovani in carrozzella; quando lascia l’auto blindata e si tuffa nella folla e continua a sorridere; quando sconfigge gli eserciti con la preghiera, quando ci dice “buon giorno”.

1. Gioia
Quale è la gioia più grande di un responsabile? La freschezza del suo rapporto con tutti gli altri membri dell’OFS? La pazienza che bisogna avere, la sfida che sale dalle loro vite semplici e piene di fede, le carognate che si sente dire da chi li osteggia? Le confidenze, nonostante tutto che ascolta, le lacrime, sconosciute a tutti, di chi si affida? La gioia di sentirsi utile nonostante tutto? la faccia contenta che ti costringono ad avere tutte le volte che li incontri? gli sms che ti mandano continuamente? Le bombardate di foto e di lagne che ti fanno in facebook? L’assoluta assenza di momenti di solitudine? Il papa sorvola su tutto questo e ve lo lascia godere tranquillamente, ma la gioia di cui lui parla e che deve caratterizzare fin nelle midolla un responsabile è la gioia del vangelo, non pensando solo e soprattutto a un libro in quattro versioni (Matteo, Marco, Luca e Giovanni), ma la gioia pura, piena, entusiasmante, gratuita che ci dà il vangelo che è Gesù. È la gioia di averlo incontrato, di esserne stato e esserne ancora innamorato perso. È la gioia di sentire nella tua mano la sua che ti conduce, come ha fatto con il cieco di Betsaida, è la gioia di chi ha potuto uscire dalla noia e ha incontrato la sua forza e la sua parola. È la gioia di quando ti sei sentito solo come un cane, con nessuno che ti dava una mano e ti sei sentito la Sua sulla spalla, e ti diceva: quando sei giù di corda, quando hai il morale ai tacchi, vieni da me, che non avrò altro da fare che coccolarti, amarti e dirti la mia gioia di stare con te. Il vangelo non si sbrodola così, ma dice: venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò.
“Ci sono cristiani che sembrano avere uno stile di Quaresima senza Pasqua. Però riconosco che la gioia non si vive allo stesso modo in tutte la tappe e circostanze della vita, a volte molto dure. Si adatta e si trasforma, e sempre rimane almeno come uno spiraglio di luce che nasce dalla certezza personale di essere infinitamente amato, al di là di tutto. Capisco le persone che inclinano alla tristezza per le gravi difficoltà che devono patire, però poco alla volta bisogna permettere che la gioia della fede cominci a destarsi, come una segreta ma ferma fiducia, anche in mezzo alle peggiori angustie: « Sono rimasto lontano dalla pace, ho dimenticato il benessere … Questo intendo richiamare al mio cuore, e per questo voglio riprendere speranza. Le grazie del Signore non sono finite, non sono esaurite le sue misericordie. Si rinnovano ogni mattina, grande è la sua fedeltà … È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore » (Lam 3,17.21-23.26)” (EG 6).
La gioia del vangelo in un responsabile gli dà la carica di non godersela da solo, ma lo mette in moto per comunicarla a tutti. I membri dei gruppi OFS non sono sempre giovanissimi, hanno al loro età, vanno avanti spesso per inerzia: abbiamo sempre fatto così; noi senza rosario o coroncine non possiamo vivere… ma hanno tutti voglia di provare la gioia di Gesù e hanno un indelebile slancio di apostolato, anche se un po’ troppo datato. A loro piacerebbe sentirsi dire qualche lezione di catechismo, che non guasta mai, ma tu vorresti che si raccontassero le esperienze che fanno di Dio, l’entusiasmo di san Francesco che li abita, i dialoghi che riescono a fare sul pianerottolo di casa per aiutare il vicino a non disperare, la pazienza e la costanza di un servizio all’ammalato che hanno in casa e che gli abita di fronte e che nessuno vede.
“Il bene tende sempre a comunicarsi. Ogni esperienza autentica di verità e di bellezza cerca per se stessa la sua espansione, e ogni persona che viva una profonda liberazione acquisisce maggiore sensibilità davanti alle necessità degli altri. Comunicandolo, il bene attecchisce e si sviluppa. Per questo, chi desidera vivere con dignità e pienezza non ha altra strada che riconoscere l’altro e cercare il suo bene. Non dovrebbero meravigliarci allora alcune espressioni di san Paolo: « L’amore del Cristo ci possiede » (2Cor 5,14); « Guai a me se non annuncio il Vangelo! » (1Cor 9,16)” (EG9).

E c’è un grande segreto nella vita di ogni uomo, ancor prima di dirsi cristiano, ma solo perché è una persona: nella vita sarai felice se della tua vita saprai fare un dono. Se non capiamo questo non saremo mai felici e la gioia del vangelo nasce proprio da qui. Gesù è stato l’uomo più felice del mondo perché ha saputo dare la sua vita fino all’ultima goccia. Se sei un responsabile sicuramente ti metti in questa prospettiva e donando la tua vita annunci il vangelo.
“La proposta è vivere ad un livello superiore, però non con minore intensità: « La vita si rafforza donandola e s’indebolisce nell’isolamento e nell’agio. Di fatto, coloro che sfruttano di più le possibilità della vita sono quelli che lasciano la riva sicura e si appassionano alla missione di comunicare la vita agli altri ». Quando la Chiesa chiama all’impegno evangelizzatore, non fa altro che indicare ai cristiani il vero dinamismo della realizzazione personale: « Qui scopriamo un’altra legge profonda della realtà: la vita cresce e matura nella misura in cui la doniamo per la vita degli altri. La missione, alla fin fine, è questo ». Di conseguenza, un evangelizzatore non dovrebbe avere costantemente una faccia da funerale. Recuperiamo e accresciamo il fervore, « la dolce e confortante gioia di evangelizzare, anche quando occorre seminare nelle lacrime […]. Possa il mondo del nostro tempo – che cerca ora nell’angoscia, ora nella speranza – ricevere la Buona Novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati, impazienti e ansiosi, ma da ministri del Vangelo la cui vita irradi fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo » (EG10).

2. Conversione
Papa Francesco dedica gran parte del suo scritto alla figura dei responsabili che lui chiama operatori pastorali, che non sono quelli che per scarsa fantasia stanno sempre in chiesa e non sanno come andare a divertirsi, ma sono i vescovi, preti, genitori, giovani, educatori, tutti i cristiani battezzati, che si scaldano per il vangelo e per far conoscere e incontrare Gesù Cristo. Quindi ci stanno nel pensiero del papa tutti gli educatori di ogni età, di ogni aggregazione, di ogni movimento o associazione. Immediatamente non sta a fare tante definizioni di chi è un responsabile, come si rapporta con tutti i membri di cui deve rispondere va subito al cuore della vita di ciascuno e ci presenta le tentazioni a cui ogni responsabile è soggetto. Alle tentazioni si risponde resistendo e convertendosi

Prima tentazione: la mondanità

Papa Francesco fa il ritratto bruciante di quando un responsabile cede alla mondanità, ha smesso di sognare, di stare cuore a cuore con Gesù.
“Chi è caduto in questa mondanità: guarda dall’alto e da lontano, rifiuta la profezia dei fratelli, squalifica chi gli pone domande, fa risaltare continuamente gli errori degli altri, è ossessionato dall’apparenza. Ha ripiegato il riferimento del cuore all’orizzonte chiuso della sua immanenza e dei suoi interessi non impara dai propri peccati né è autenticamente aperto al perdono. È una tremenda corruzione con apparenza di bene”.

Come si evita tutto ciò, come ci si converte?
“Mettendo la Chiesa in movimento di uscita da sé, di missione centrata in Gesù Cristo, di impegno verso i poveri. Dio ci liberi da una Chiesa mondana sotto drappeggi spirituali o pastorali! Questa mondanità asfissiante si sana assaporando l’aria pura dello Spirito Santo, che ci libera: dal rimanere centrati in noi stessi, nascosti in un’apparenza religiosa vuota di Dio”.

Primo comandamento dell’educatore che vuol vincere la mondanità:
Non lasciamoci rubare il Vangelo (EG 97).

Seconda tentazione: la guerra tra noi
Non ci vuole molto acume e ricerca approfondita per vedere come moltissime volte noi cristiani siamo in guerra tra di noi: nel quartiere, nel posto di lavoro, a scuola, sui campi da gioco, nel tempo libero. Lo chiamano bullismo, superficialità, invidie e gelosie, guerra con altri cristiani che si frappongono alla loro ricerca di potere, di prestigio, di piacere o di sicurezza economica. Più che appartenere alla Chiesa intera, con la sua ricca varietà, appartengono a questo o quel gruppo che si sente differente o speciale e che fa guerra agli altri, li disprezza e li scredita presso gli altri.
Papa Francesco non ci pensa due volte per chiederci l’impossibile: “Ai cristiani di tutte le comunità del mondo desidero chiedere specialmente una testimonianza di comunione fraterna che diventi attraente e luminosa. Che tutti possano ammirare come vi prendete cura gli uni degli altri, come vi incoraggiate mutuamente e come vi accompagnate: « Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri » (Gv 13,35). È quello che ha chiesto con intensa preghiera Gesù al Padre: « Siano una sola cosa […] in noi […] perché il mondo creda » (Gv 17,21). Attenzione alla tentazione dell’invidia! Siamo sulla stessa barca e andiamo verso lo stesso porto! Chiediamo la grazia di rallegrarci dei frutti degli altri, che sono di tutti”(EG 99). I nostri gruppi OFS forse non arrivano a tanto, ma qualche semente di discordia, di gelosia, di canzonatura cattiva appare se il responsabile non è in pace con se stesso e con la parola di Dio; “Mi fa tanto male riscontrare come in alcune comunità cristiane, e persino tra persone consacrate, si dia spazio a diverse forme di odio, divisione, calunnia, diffamazione, vendetta, gelosia, desiderio di imporre le proprie idee a qualsiasi costo, fino a persecuzioni che sembrano una implacabile caccia alle streghe. Chi vogliamo evangelizzare con questi comportamenti?” (EG 100).
Tutti abbiamo simpatie ed antipatie, e forse proprio in questo momento siamo arrabbiati con qualcuno. Diciamo almeno al Signore: “Signore, sono arrabbiato con questo, con quella. Ti prego per lui e per lei”. Pregare per la persona con cui siamo irritati è un bel passo verso l’amore, ed è un atto di evangelizzazione. Facciamolo oggi!
È un dovere di ogni responsabile pregare per ciascuno dei membri del suo gruppo, tenerli nella mente e nel cuore davanti a Dio, conoscere i loro pregi e supplicare Dio che li conservi, i loro inganni sperando sempre nella grande misericordia di Dio.

Secondo comandamento dell’educatore:
Non lasciamoci rubare l’ideale dell’amore fraterno

Terza tentazione: il pessimismo sterile
Pessimismo è ritenere il nostro compito di responsabili un dovere che deve sempre avere successo, una attività sempre gratificante, una sorta di pensione goduta dopo tanti sacrifici… è la nostra sconfitta più immediata.
È pessimismo pensare di non avere fragilità che di fronte a tutti i membri ci umiliano e ci creano scoraggiamento, È non avere fiducia in noi stessi e continuare a farci del male per ogni contrarietà, darci per vinti ad ogni insuccesso; Pessimismo è avere paura della croce, che dobbiamo portare con una tenerezza combattiva; pessimismo è trovare necessario strappare e separare prima del tempo il grano dalla zizzania nell’impeto dell’entusiasmo o in una visione lucida della realtà. È coltivare il senso di sconfitta, che ci trasforma in pessimisti scontenti e disincantati dalla faccia scura.
È evidente che in alcuni luoghi si è prodotta una “desertificazione” spirituale, frutto del progetto di società che vogliono costruirsi senza Dio o che distruggono le loro radici cristiane. Lì « il mondo cristiano sta diventando sterile, e si esaurisce, come una terra supersfruttata che si trasforma in sabbia ». In altri Paesi, la resistenza violenta al cristianesimo obbliga i cristiani a vivere la loro fede quasi di nascosto nel Paese che amano. Questa è un’altra forma molto dolorosa di deserto. Anche la propria famiglia o il proprio luogo di lavoro possono essere quell’ambiente arido dove si deve conservare la fede e cercare di irradiarla. Ma « è proprio a partire dall’esperienza di questo deserto, da questo vuoto, che possiamo nuovamente scoprire la gioia di credere, la sua importanza vitale per noi, uomini e donne. Nel deserto si torna a scoprire il valore di ciò che è essenziale per vivere; così nel mondo contemporaneo sono innumerevoli i segni, spesso manifestati in forma implicita o negativa, della sete di Dio, del senso ultimo della vita. E nel deserto c’è bisogno soprattutto di persone di fede che, con la loro stessa vita, indichino la via verso la Terra promessa e così tengono viva la speranza ». In ogni caso, in quelle circostanze siamo chiamati ad essere persone-anfore per dare da bere agli altri. A volte l’anfora si trasforma in una pesante croce, ma è proprio sulla Croce dove, trafitto, il Signore si è consegnato a noi come fonte di acqua viva, quando gli fu squarciato il petto..

Terzo comandamento dell’educatore:
Non lasciamoci rubare la speranza!

3. Missione
Papa Francesco ci dà una forte strigliata ogni volta che parla. Il verbo che suona come una sveglia quotidiana è: uscite. Ce lo ha detto a Rio de Janeiro, in quel mare di giovani sulle rive dell’oceano, lo ha detto a vescovi, preti e seminaristi presenti nella cattedrale di Rio de Janeiro. Non gli va proprio una chiesa annoiata o malata perché sta sempre chiusa in se stessa a guadarsi addosso, a soffocare di muffa. Preferisce che subisca un incidente perché sta sulle strade del mondo. Un responsabile OFS che si crea il suo nido con il suo gruppo, che si fa la sua clack, che chiude gli orizzonti anche al più difficile dei suoi laici francescani, è fuori di testa. È lui il primo che deve guidare la missione. Sa che c’è un mondo che ha bisogno di speranza, di gioia, di Gesù e ha il coraggio di andare e inviare, di offrire alla chiesa un squadra pronta ad ogni missione. Dice infatti papa Francesco: “Il bene tende sempre a comunicarsi. Ogni esperienza autentica di verità e di bellezza cerca per se stessa la sua espansione, e ogni persona che viva una profonda liberazione acquisisce maggiore sensibilità davanti alle necessità degli altri. Comunicandolo, il bene attecchisce e si sviluppa. Per questo, chi desidera vivere con dignità e pienezza non ha altra strada che riconoscere l’altro e cercare il suo bene. Non dovrebbero meravigliarci allora alcune espressioni di san Paolo: « L’amore del Cristo ci possiede » (2Cor 5,14); « Guai a me se non annuncio il Vangelo! » (1Cor 9,16)” (EG 9).
A Rio ha detto: “Non possiamo restare chiusi nella parrocchia, nelle nostre comunità, nella nostra istituzione parrocchiale o nella nostra istituzione diocesana, quando tante persone sono in attesa del Vangelo! Uscire inviati. Non è semplicemente aprire la porta perché vengano, per accogliere, ma è uscire dalla porta per cercare e incontrare! Spingiamo i giovani affinché escano. Certo che faranno stupidaggini. Non abbiamo paura! Gli Apostoli le hanno fatte prima di noi. Spingiamoli ad uscire. Pensiamo con decisione alla pastorale partendo dalla periferia, partendo da coloro che sono più lontani, da coloro che di solito non frequentano la parrocchia. Loro sono gli invitati VIP. Andare a cercarli nei crocevia delle strade”.
E ancora: “Il tuo cuore … vuole costruire un mondo migliore. Seguo le notizie del mondo e vedo che tanti giovani in tante parti del mondo sono usciti per le strade per esprimere il desiderio di una civiltà più giusta e fraterna. I giovani nelle strade. Sono giovani che vogliono essere protagonisti del cambiamento. Per favore, non lasciate che altri siano protagonisti del cambiamento! Voi siete quelli che hanno il futuro! Voi […] attraverso di voi entra il futuro nel mondo. A voi chiedo anche di essere protagonisti di questo cambiamento. Continuate a superare l’apatia, offrendo una risposta cristiana alle inquietudini sociali e politiche, che si stanno presentando in varie parti del mondo. Vi chiedo di essere costruttori del mondo, di mettervi al lavoro per un mondo migliore. Cari giovani, per favore, non «guardate dal balcone» la vita, mettetevi in essa, Gesù non è rimasto nel balcone, si è immerso, non «guardate dal balcone» la vita, immergetevi in essa come ha fatto Gesù”.
Qualcuno di voi responsabile potrebbe sentirsi soffocare a stare in parrocchia, a tenere ogni mese una buona riunione di gruppo, a fare gli esercizi spirituali ogni anno, a dover inventare di tutto per riunire e dare slancio al gruppo.. Giusto: uno spazio in cui guardarci in faccia e tentare di fare passi graduali per crescere è necessario. Una comunità OFS che vi senta suoi figli, vi apprezzi, vi ami, vi tenga il fiato sul collo dovete desiderarla. Papa Francesco non ci fa mancare neanche a questo riguardo il suo pensiero:
“La parrocchia non è una struttura caduca; proprio perché ha una grande plasticità, può assumere forme molto diverse che richiedono la docilità e la creatività missionaria del pastore e della comunità. Sebbene certamente non sia l’unica istituzione evangelizzatrice, se è capace di riformarsi e adattarsi costantemente, continuerà ad essere « la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie ». Questo suppone che realmente stia in contatto con le famiglie e con la vita del popolo e non diventi una struttura prolissa separata dalla gente o un gruppo di eletti che guardano a se stessi. La parrocchia è presenza ecclesiale nel territorio, ambito dell’ascolto della Parola, della crescita della vita cristiana, del dialogo, dell’annuncio, della carità generosa, dell’adorazione e della celebrazione. Attraverso tutte le sue attività, la parrocchia incoraggia e forma i suoi membri perché siano agenti dell’evangelizzazione. È comunità di comunità, santuario dove gli assetati vanno a bere per continuare a camminare, e centro di costante invio missionario. Però dobbiamo riconoscere che l’appello alla revisione e al rinnovamento delle parrocchie non ha ancora dato sufficienti frutti perché siano ancora più vicine alla gente, e siano ambiti di comunione viva e di partecipazione, e si orientino completamente verso la missione” (EG 28).
“Le altre istituzioni ecclesiali, comunità di base e piccole comunità, movimenti e altre forme di associazione, sono una ricchezza della Chiesa che lo Spirito suscita per evangelizzare tutti gli ambienti e settori. Molte volte apportano un nuovo fervore evangelizzatore e una capacità di dialogo con il mondo che rinnovano la Chiesa. Ma è molto salutare che non perdano il contatto con questa realtà tanto ricca della parrocchia del luogo, e che si integrino con piacere nella pastorale organica della Chiesa particolare. Questa integrazione eviterà che rimangano solo con una parte del Vangelo e della Chiesa, o che si trasformino in nomadi senza radici”(EG 29).

4. Azione
Non c’è assolutamente dubbio che con queste ultime citazioni il papa ci voglia tornare a rinchiudere tra di noi, nella bella vita di gruppo, che non è fatta di serio aiuto vicendevole e scoperta della propria vocazione, ma in cui continuiamo a parlarci addosso, in cui facciamo quadrato contro ogni estraneo che vuole il nostro aiuto, in cui spesso moriamo di parole asfittiche e riduciamo la chiesa a un pollaio. Se c’è un’altra qualità che papa Francesco non solo ci dice, ma che vive sulla sua pelle ogni giorno è proprio la concretezza. L’ OFS con questa mobilitazione dei gruppi, con il questionario, con riunioni a tutti i livelli sta ridisegnando la figura di san Francesco nella contemporaneità, per l’oggi della chiesa e del mondo. La sua storia è sempre stata storia di servizio, di ascolto popolare dei bisogni della gente, attività concreta di «apostolato» allora si diceva; oggi diciamo pure di evangelizzazione, non fatta di astrazioni, di linguaggi esoterici che comprendiamo solo noi, di «sarebbe bello se», di «prima ci prepariamo, poi usciamo», ma di responsabilità da cristiani e attività nel territorio, di responsabilità che ci prendiamo nelle istituzioni, di cura dei poveri, di ascolto del loro grido e del popolo come hanno fatto tanti santi frati e santi laici che ci hanno preceduto.
Papa Francesco ci dice: “I laici sono semplicemente l’immensa maggioranza del popolo di Dio. Al loro servizio c’è una minoranza: i ministri ordinati. È cresciuta la coscienza dell’identità e della missione del laico nella Chiesa. Disponiamo di un numeroso laicato, benché non sufficiente, con un radicato senso comunitario e una grande fedeltà all’impegno della carità, della catechesi, della celebrazione della fede. Ma la presa di coscienza di questa responsabilità laicale che nasce dal Battesimo e dalla Confermazione non si manifesta nello stesso modo da tutte le parti. In alcuni casi perché non si sono formati per assumere responsabilità importanti, in altri casi per non aver trovato spazio nelle loro Chiese particolari per poter esprimersi ed agire, a causa di un eccessivo clericalismo che li mantiene al margine delle decisioni. Anche se si nota una maggiore partecipazione di molti ai ministeri laicali, questo impegno non si riflette nella penetrazione dei valori cristiani nel mondo sociale, politico ed economico. Si limita molte volte a compiti intraecclesiali senza un reale impegno per l’applicazione del Vangelo alla trasformazione della società. La formazione dei laici e l’evangelizzazione delle categorie professionali e intellettuali rappresentano un’importante sfida pastorale” (EG 102).
La presenza femminile nella Chiesa e nel mondo da cristiani non è questione di quote rosa, ma di concezione della dignità e dei doni che Dio fa sempre alla chiesa e al mondo chiamando tutti a mettere a disposizione la propria peculiare sensibilità e i propri doni.
“La Chiesa riconosce l’indispensabile apporto della donna nella società, con una sensibilità, un’intuizione e certe capacità peculiari che sono solitamente più proprie delle donne che degli uomini. Ad esempio, la speciale attenzione femminile verso gli altri, che si esprime in modo particolare, anche se non esclusivo, nella maternità. Vedo con piacere come molte donne condividono responsabilità pastorali insieme con i sacerdoti, danno il loro contributo per l’accompagnamento di persone, di famiglie o di gruppi ed offrono nuovi apporti alla riflessione teologica. Ma c’è ancora bisogno di allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva nella Chiesa. Perché « il genio femminile è necessario in tutte le espressioni della vita sociale; per tale motivo si deve garantire la presenza delle donne anche nell’ambito lavorativo » e nei diversi luoghi dove vengono prese le decisioni importanti, tanto nella Chiesa come nelle strutture sociali” (EG 103).
L’inclusione sociale dei poveri sul luminoso esempio di papa Francesco va collocata nel piano educativo che ogni responsabile propone ai suoi gruppi, calibrando le mete a seconda delle possibilità e delle vocazioni.
“A volte si tratta di ascoltare il grido di interi popoli, dei popoli più poveri della terra, perché « la pace si fonda non solo sul rispetto dei diritti dell’uomo, ma anche su quello dei diritti dei popoli ». Deplorevolmente, persino i diritti umani possono essere utilizzati come giustificazione di una difesa esacerbata dei diritti individuali o dei diritti dei popoli più ricchi. Rispettando l’indipendenza e la cultura di ciascuna Nazione, bisogna ricordare sempre che il pianeta è di tutta l’umanità e per tutta l’umanità, e che il solo fatto di essere nati in un luogo con minori risorse o minor sviluppo non giustifica che alcune persone vivano con minore dignità. Bisogna ripetere che « i più favoriti devono rinunciare ad alcuni dei loro diritti per mettere con maggiore liberalità i loro beni al servizio degli altri ». Per parlare in modo appropriato dei nostri diritti dobbiamo ampliare maggiormente lo sguardo e aprire le orecchie al grido di altri popoli o di altre regioni del nostro Paese. Abbiamo bisogno di crescere in una solidarietà che « deve permettere a tutti i popoli di giungere con le loro forze ad essere artefici del loro destino », così come « ciascun essere umano è chiamato a svilupparsi»” (EG 190).
Non è secondario che l’educatore aiuti ciascuno a trovare la strada della sua vita a rispondere a una chiamata che Dio fa a ciascuno. Nessuno è generico, ma tutti chiamati a una missione che realizza e dà felicità alla nostra vita. Non siamo buttati a caso in questo mondo, ciascuno risponde in maniera creativa a un progetto. Azione concreta è soprattutto decidersi per una vita donata. Rendiamo evidente anche la chiamata alla vita consacrata, a diventare preti o suore. Ancora tanti gruppi di OFS o di GIFRA sono l’ambiente in cui si può decidere di donare la vita ad un amore verginale.
“In molti luoghi scarseggiano le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. Spesso questo è dovuto all’assenza nelle comunità di un fervore apostolico contagioso, per cui esse non entusiasmano e non suscitano attrattiva. Dove c’è vita, fervore, voglia di portare Cristo agli altri, sorgono vocazioni genuine. Persino in parrocchie dove i sacerdoti non sono molto impegnati e gioiosi, è la vita fraterna e fervorosa della comunità che risveglia il desiderio di consacrarsi interamente a Dio e all’evangelizzazione, soprattutto se tale vivace comunità prega insistentemente per le vocazioni e ha il coraggio di proporre ai suoi giovani un cammino di speciale consacrazione. D’altra parte, nonostante la scarsità di vocazioni, oggi abbiamo una più chiara coscienza della necessità di una migliore selezione dei candidati al sacerdozio. Non si possono riempire i seminari sulla base di qualunque tipo di motivazione, tanto meno se queste sono legate ad insicurezza affettiva, a ricerca di forme di potere, gloria umana o benessere economico”(EG 107).

L’accompagnamento personale dei processi di crescita
Nel ritratto dell’operatore pastorale (leggi: responsabile OFS) che papa Francesco ci offre c’è un aspetto che ogni responsabile deve con lungimiranza far crescere dentro di sé: diventare accompagnatore spirituale dei suoi laici francescani. Certo c’è il prete, l’assistente, ma fa parte della figura di un responsabile di un cammino francescano nella vita cristiana anche questo aspetto.
“In una civiltà paradossalmente ferita dall’anonimato e, al tempo stesso, ossessionata per i dettagli della vita degli altri, spudoratamente malata di curiosità morbosa, la Chiesa ha bisogno di uno sguardo di vicinanza per contemplare, commuoversi e fermarsi davanti all’altro tutte le volte che sia necessario. In questo mondo i ministri ordinati e gli altri operatori pastorali (leggi sempre: responsabili) possono rendere presente la fragranza della presenza vicina di Gesù ed il suo sguardo personale. La Chiesa dovrà iniziare i suoi membri – sacerdoti, religiosi e laici – a questa «arte dell’accompagnamento», perché tutti imparino sempre a togliersi i sandali davanti alla terra sacra dell’altro (cf. Es 3,5). Dobbiamo dare al nostro cammino il ritmo salutare della prossimità, con uno sguardo rispettoso e pieno di compassione ma che nel medesimo tempo sani, liberi e incoraggi a maturare nella vita cristiana” (EG 169).
“Benché suoni ovvio, l’accompagnamento spirituale sulle orme di san Francesco, deve condurre sempre più verso Dio, in cui possiamo raggiungere la vera libertà. Alcuni si credono liberi quando camminano in disparte dal Signore, senza accorgersi che rimangono esistenzialmente orfani, senza un riparo, senza una dimora dove fare sempre ritorno. Cessano di essere pellegrini e si trasformano in erranti, che ruotano sempre intorno a sé stessi senza arrivare da nessuna parte. L’accompagnamento sarebbe controproducente se diventasse una specie di terapia che rafforzi questa chiusura delle persone nella loro immanenza e cessi di essere un pellegrinaggio con Cristo verso il Padre” (EG 170).
“Più che mai abbiamo bisogno di uomini e donne che, a partire dalla loro esperienza di accompagnamento, conoscano il modo di procedere, dove spiccano la prudenza, la capacità di comprensione, l’arte di aspettare, la docilità allo Spirito, per proteggere tutti insieme le pecore che si affidano a noi dai lupi che tentano di disgregare il gregge. Abbiamo bisogno di esercitarci nell’arte di ascoltare, che è più che sentire. La prima cosa, nella comunicazione con l’altro, è la capacità del cuore che rende possibile la prossimità, senza la quale non esiste un vero incontro spirituale. L’ascolto ci aiuta ad individuare il gesto e la parola opportuna che ci smuove dalla tranquilla condizione di spettatori. Solo a partire da questo ascolto rispettoso e capace di compatire si possono trovare le vie per un’autentica crescita, si può risvegliare il desiderio dell’ideale cristiano, l’ansia di rispondere pienamente all’amore di Dio e l’anelito di sviluppare il meglio di quanto Dio ha seminato nella propria vita. Sempre però con la pazienza di chi conosce quanto insegnava san Tommaso: che qualcuno può avere la grazia e la carità, ma non esercitare bene nessuna delle virtù « a causa di alcune inclinazioni contrarie » che persistono. In altri termini, l’organicità delle virtù si dà sempre e necessariamente “in habitu”, benché i condizionamenti possano rendere difficili le attuazioni di quegli abiti virtuosi. Da qui la necessità di « una pedagogia che introduca le persone, passo dopo passo, alla piena appropriazione del mistero ». Per giungere ad un punto di maturità, cioè perché le persone siano capaci di decisioni veramente libere e responsabili, è indispensabile dare tempo, con una immensa pazienza. Come diceva il beato Pietro Fabro: « Il tempo è il messaggero di Dio »”(EG 171).
Chi accompagna sa riconoscere che la situazione di ogni soggetto davanti a Dio e alla sua vita di grazia è un mistero che nessuno può conoscere pienamente dall’esterno. Il Vangelo ci propone di correggere e aiutare a crescere una persona a partire dal riconoscimento della malvagità oggettiva delle sue azioni (cf. Mt 18,15), ma senza emettere giudizi sulla sua responsabilità e colpevolezza (cf. Mt 7,1; Lc 6,37). In ogni caso un valido accompagnatore non accondiscende ai fatalismi o alla pusillanimità. Invita sempre a volersi curare, a rialzarsi, ad abbracciare la croce, a lasciare tutto, ad uscire sempre di nuovo per annunciare il Vangelo. La personale esperienza di lasciarci accompagnare e curare, riuscendo ad esprimere con piena sincerità la nostra vita davanti a chi ci accompagna, ci insegna ad essere pazienti e comprensivi con gli altri e ci mette in grado di trovare i modi per risvegliarne in loro la fiducia, l’apertura e la disposizione a crescere”(EG 172).

LE SFIDE DEL POST-UMANO
Si parla spesso oggi di post moderno, di era del relativismo, di mancanza di riferimenti riconosciuti da tutti, solidi e punto di convergenza di una ricerca libera. I responsabili OFS devono almeno cominciare a farsi domande difficili, che non ci scoraggiano, ma ci permettono almeno di alzare le antenne e cominciare a seconda delle capacità di ciascuno a fare mentalità anche nei nostri gruppi. Cerco di spiegarmi, anche se un po’ troppo approssimativamente.

1. Si impongono alcune grandi questioni e sensibilità di carattere culturale ed etico-politico con cui veniamo a contatto quotidianamente. Ne elenco solo alcune:
Inizio della vita umana.
Identità sessuale e teoria del gender. –
Manipolazioni (migliorative?) delle facoltà cognitive dell’uomo.
Problemi inerenti al fine vita.
2. Affiora una nuova antropologia: il post-umanesimo.
Alla nostra età ancora di più siamo consapevoli dello straordinario sviluppo della tecnologia. Questa ha messo in crisi l’idea “umanista” di uomo, incapace di gestire le macchine da lui stesso create e quindi destinato, come uomo, ad essere confinato in un passato fatto di residui archeologici. Fra non molto rifarci al nostro essere uomini e donne, all’essere persone avrà il nome di ricerca di un reperto archeologico.
3. Negazione della possibilità di definire l’essenza dell’uomo come qualcosa di stabile e di immutabile.
La tecnologia offre la possibilità di fare dell’uomo un essere malleabile, suscettibile di essere modificato a piacimento. L’esistenza dell’uomo non è più caratterizzata dal concetto di natura, ma dalla sua continua plasmabilità, mutazione, Diventiamo i primi OGM, contro tutte le assolutizzazioni riguardo alla natura, che non si deve assolutamente mutare, noi facciamo gli trattiamo l’umano come un organismo geneticamente modificabile a piacimento . L’uomo deve farsi carico della sua costituzione biologica, indirizzando i cambiamenti del suo essere. Il soggetto post-umano è un amalgama, una collezione di varie e disparate componenti, un’entità sperimentale i cui confini sono sottoposti a una continua costruzione, decostruzione e ricostruzione.
4. Proviamo a immaginare a questo punto le nostre assemblee ecclesiali, magari parrocchiali, i nostri stessi gruppi OFS.
In che misura le osservazioni svolte finora le riguardano? In che misura suscitano il loro interesse?
Attraverso quali percorsi si può ripartire per verificare ed eventualmente rifondare criticamente da cristiani il discorso sul senso oggettivo della natura dell’uomo e del significato della vita?
Sono possibili diversi tipi di risposte:
puramente testimoniale?
Kerygmatica fondamentalista?
Un recupero di fondazione razionale-metafisica?
o certi temi vanno lasciati alle università?
E noi responsabili OFS siamo disponibili a rapportarci a queste sfide?
In epoca di decostruzione del pensiero e di sfiducia nella possibilità di una verità universale, come lavorare per costruire un tessuto comune di convivenza, almeno, anche facciamo fatica a orientare a fini veri e possibili? Ci possiamo accontentare di una sorta di contrattualismo etico? Riproporre instancabilmente il confronto come metodo e stile?
Ma le nostre comunità francescane, ammesso che siano sensibili al tema, come possono diventare interlocutori credibili nel territorio per questo tipo di dialogo dove è in gioco la ragione e la fede, la libertà e la verità, la legge e la coscienza?

LE SFIDE DELLA LAICITÀ
1. Sul piano ideale dei principi e dei valori, la maggior parte del nostro popolo è serenamente aperta a una visione plurale, universalista, multiculturale e multietnica della società nel segno della convivenza e del reciproco rispetto. Quando vicende di cronaca circa emergenze non seriamente affrontate da chi di dovere, o episodi di violenza e trasgressioni di appartenenti a fasce minoritarie o marginali, magari demagógicamente strumentalizzate dalla politica colpiscono l’emotività o scatenano paure, si possono creare fenomeni di reazioni incontrollate che non devono essere sottovalutate.
Possiamo, comunque, ritenere che la presenza della Chiesa nel territorio è un grosso fattore di e di coesione sociale, oltre che di educazione alla moderazione e alla saggezza, contro ogni tentazione di istintività e di fanatismo.
2. Più delicata è, invece, la questione del livello al quale si deve porre e calare la testimonianza e il servizio della Chiesa sulle questioni che concernono l’etica pubblica, il bene comune, la dimensione deontologica del vivere civile.

Su questi temi è essenziale un dialogo fra Pastori e fra presbiteri, fra responsabili e assistenti spirituali, tra lo stesso ordine francescano e la chiesa da cui emergeranno sensibilità diverse e complementari, su cui confrontarsi serenamente e approfonditamente.

L’enciclica Laudato sì
San Francesco d’Assisi
10. Non voglio procedere in questa Enciclica senza ricorrere a un esempio bello e motivante. Ho preso il suo nome come guida e come ispirazione nel momento della mia elezione a Vescovo di Roma. Credo che Francesco sia l’esempio per eccellenza della cura per ciò che è debole e di una ecologia integrale, vissuta con gioia e autenticità. E’ il santo patrono di tutti quelli che studiano e lavorano nel campo dell’ecologia, amato anche da molti che non sono cristiani. Egli manifestò un’attenzione particolare verso la creazione di Dio e verso i più poveri e abbandonati. Amava ed era amato per la sua gioia, la sua dedizione generosa, il suo cuore universale. Era un mistico e un pellegrino che viveva con semplicità e in una meravigliosa armonia con Dio, con gli altri, con la natura e con se stesso. In lui si riscontra fino a che punto sono inseparabili la preoccupazione per la natura, la giustizia verso i poveri, l’impegno nella società e la pace interiore.
11. La sua testimonianza ci mostra anche che l’ecologia integrale richiede apertura verso categorie che trascendono il linguaggio delle scienze esatte o della biologia e ci collegano con l’essenza dell’umano. Così come succede quando ci innamoriamo di una persona, ogni volta che Francesco guardava il sole, la luna, gli animali più piccoli, la sua reazione era cantare, coinvolgendo nella sua lode tutte le altre creature. Egli entrava in comunicazione con tutto il creato, e predicava persino ai fiori e «li invitava a lodare e amare Iddio, come esseri dotati di ragione».[19] La sua reazione era molto più che un apprezzamento intellettuale o un calcolo economico, perché per lui qualsiasi creatura era una sorella, unita a lui con vincoli di affetto. Per questo si sentiva chiamato a prendersi cura di tutto ciò che esiste. Il suo discepolo san Bonaventura narrava che lui, «considerando che tutte le cose hanno un’origine comune, si sentiva ricolmo di pietà ancora maggiore e chiamava le creature, per quanto piccole, con il nome di fratello o sorella».[20] Questa convinzione non può essere disprezzata come un romanticismo irrazionale, perché influisce sulle scelte che determinano il nostro comportamento. Se noi ci accostiamo alla natura e all’ambiente senza questa apertura allo stupore e alla meraviglia, se non parliamo più il linguaggio della fraternità e della bellezza nella nostra relazione con il mondo, i nostri atteggiamenti saranno quelli del dominatore, del consumatore o del mero sfruttatore delle risorse naturali, incapace di porre un limite ai suoi interessi immediati. Viceversa, se noi ci sentiamo intimamente uniti a tutto ciò che esiste, la sobrietà e la cura scaturiranno in maniera spontanea. La povertà e l’austerità di san Francesco non erano un ascetismo solamente esteriore, ma qualcosa di più radicale: una rinuncia a fare della realtà un mero oggetto di uso e di dominio.
12. D’altra parte, san Francesco, fedele alla Scrittura, ci propone di riconoscere la natura come uno splendido libro nel quale Dio ci parla e ci trasmette qualcosa della sua bellezza e della sua bontà: «Difatti dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si contempla il loro autore» (Sap 13,5) e «la sua eterna potenza e divinità vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute» (Rm 1,20). Per questo chiedeva che nel convento si lasciasse sempre una parte dell’orto non coltivata, perché vi crescessero le erbe selvatiche, in modo che quanti le avrebbero ammirate potessero elevare il pensiero a Dio, autore di tanta bellezza.[21] Il mondo è qualcosa di più che un problema da risolvere, è un mistero gaudioso che contempliamo nella letizia e nella lode.

+ Domenico Sigalini

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.