LA SECONDA VENUTA DI FRANCESCO

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La seconda venuta di Francesco è il titolo di una sceneggiatura teatrale scritta da Josè Saramago nel 1987[1]. Al pari del più famoso Il vangelo secondo Gesù Cristo del 1997 alla sua uscita suscitò lo sdegno del mondo cattolico; o meglio, di quella gerarchia ecclesiastica che ritiene di esserne l’unica legittima rappresentante, deputata ad esprimere l’opinione alla quale tutti i cattolici si devono conformare.
Personalmente, in quanto francescano secolare non mi sono sentito per nulla offeso dalla versione che il grande scrittore portoghese ha offerto di Francesco e del francescanesimo; la sua mente acuta non era mai blasfema anche quando si soffermava su quel sacro che categoricamente rifiutava. Non solo, ma gli sono anche riconoscente per quella sua impareggiabile capacità di portare impietosamente in superficie quegli interrogativi che spesso, per timore non si sa bene di cosa, noi francescani non osiamo porci; le prospettive che egli apre, seppur discutibili, mi hanno aiutato ad interrogarmi sul mio francescanesimo molto più di tante stanche e ripetitive conferenze, così come l’inquietante Il Vangelo secondo Gesù Cristo ha stimolato la mia riflessione più di tante soporifere omelie domenicali.Nell’immaginazione di Saramago Francesco torna tra i suoi frati ma è costretto a constatare  che l’Ordine è cambiato, è divenuto una sorta di società finanziaria: quelli che un tempo erano i frati più fidati – Leone, Masseo, Egidio, Ginepro, Rufino, Bernardo – ora sono i membri del Consiglio di amministrazione il cui presidente è frate Elia; suo padre Pietro di Bernardone ne è il direttore generale; sua madre Pica dirige il personale amministrativo del quale fanno parte Chiara, Agnese e Jacopa. Il saio è una divisa da indossare nelle riunioni ufficiali.
Francesco vorrebbe riportare l’Ordine alla originaria povertà ma si scontra con il rifiuto dei consiglieri e si mette in aperta competizione con loro, specie con Elia. Addirittura, si  ingegna per cercare di distruggere l’Ordine; la sua strategia è singolare: distribuire a tutti i frati – che nel frattempo sono diventati agenti di commercio – il testo della Regola, caduta nell’oblio, sommersa da avvisi, ordini di servizio e circolari. Sicuramente a noi francescani non fa piacere vedere un Ordine diviso, lacerato; ma abbiamo dimenticato i forti contrasti che hanno attanagliato l’Ordine vivente ancora Francesco e proseguite con inaudita violenza dopo la sua morte? Ci sembra paradossale un Francesco che vuole distruggere l’Ordine; ma abbiamo dimenticato come Francesco al Capitolo delle Stuoie del 1221 maledice i frati che volevano imporgli di scrivere una regola, abbiamo rimosso la sua reazione rabbiosa alla vista della casa che il comune di Assisi aveva edificato per i frati approfittando della sua assenza?
Saramago presenta Francesco e suo padre come due estranei che non sono mai riusciti a perdonarsi e mette in bocca al Poverello parole di odio che sicuramente suscitano inquietudine e turbamento. Ma come non considerare che Francesco ha chiamato «fratello» finanche una bestia feroce ma non suo padre? Che ha chiamato «sorella» finanche la morte ma non sua madre? Il primo campo di apostolato per un laico non è forse la propria stessa famiglia? Francesco fa eccezione? Non sono mai riuscito a spiegarmi il gesto di Francesco sulla piazza di Assisi: Francesco era sempre molto discreto nei suoi comportamenti, perché in quella circostanza ha voluto sottoporre il padre a quella umiliazione pubblica? Non gli era più che sufficiente abbandonare la sua casa e intraprendere la sua nuova strada senza tanti clamori?
Piuttosto enigmatico nel testo di Saramago è il rapporto tra Francesco e Chiara; a volte si cercano, altre si evitano; a volte sembrano estranei, altre complici. Poche parole, dalle quali non si capisce bene, o almeno non lo capisco io, se Saramago voglia attribuire al sentimento profondo che lega i due anche una velata sfumatura di umanissimo amore. Ma anche se vi fosse stata questa componente che male vi sarebbe? Forse sminuirebbe la purezza di queste due creature?
Ma ancora più sconvolgente è il finale. Francesco, per vincere la sua battaglia con frate Elia, fa entrare un povero nel corso di una seduta del Consiglio di amministrazione ma questi, a sorpresa, lo tradisce: gli rinfaccia di aver beatificato e sublimato la povertà, di aver fatto di una piaga sociale la strada verso il cielo: «Non siamo poveri allo stesso modo», gli dice. Francesco comprende, si pente e come di fronte a una nuova vocazione, liberato da un peso, esclama: «Ora lotterò contro la povertà. È la povertà che deve essere eliminata dal mondo. La povertà non è santa. Tanti secoli per capirlo. Prenderò il nome di Giovanni, che è il mio vero nome. Sceglierò un’altra vita, sarò un altro uomo. Qualcuno viene con me? Chiara?». Chiara lo segue e così  Leone e Ginepro. E poi anche Pica che rivolta ad Elia dice: «Vado ad aiutare Giovanni a scrivere la sua prima pagina».  Sicuramente un Francesco marxista è una forzatura; ma come non considerare che Francesco e i primi frati con la povera gente non avevano nulla a che fare essendo tutti borghesi se non addirittura nobili? Come non ricordare che sulle prime incassarono l’ostilità dei poveri che li guardavano come figli di papà cui d’improvviso aveva dato di volta il cervello? E come non ammettere che l’Ordine ben presto cominciò a trascurare il servizio ai poveri per dedicarsi alla riflessione teologica sulla povertà?
Insomma, un gran bel testo, come tutta la produzione di Saramago, che consiglio vivamente. Forse l’unica cosa che non mi sento di condividere con il grande scrittore portoghese è l’ambientazione della vicenda; sicuramente noi francescani abbiamo perso molto dell’originaria carica ideale, specie in materia di povertà e di presenza sociale; e sicuramente abbiamo tante altre carenze sulle quali forse non ci interroghiamo abbastanza; ma non siamo ridotti a una macchina da soldi, non siamo noi a fare affari con la cricca.
Un anno fa, il 18 giugno 2010, Josè Saramago moriva nella sua casa di Lanzarote. L’Osservatore Romano commentava la notizia con un pezzo al limite dell’offensivo, straripante di antico livore[2]; recentemente, in occasione della morte di Osama Bin Laden la Santa Sede ha mostrato un atteggiamento più rispettoso. «Lucidamente autocollocatosi dalla parte della zizzania nell’evangelico campo di grano», concludeva il giornale vaticano. Sarà pure. Tuttavia mi chiedo: da cosa bisogna guardarsi maggiormente, dalle piante di zizzania o dal lievito dei farisei?

 

Pietro Urciuoli, OFS d’Italia


[1] In Italia è pubblicato, insieme ad altri tre testi teatrali, nel volume: Josè Saramago, Teatro, ed. Einaudi, Torino 1997.

[2] L’onnipotenza (presunta) del narratore, di Claudio Toscani, l’Osservatore Romano del 20 giugno 2010. Nel 1998 il Vaticano si oppose alla attribuzione del Nobel per la letteratura, considerandola dovuta a motivazioni più ideologiche che artistiche.

 

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