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LA MIA PRIMA COMUNIONE

LA PRIMA COMUNIONE DI ROBERTA E ANDREADomenica scorsa è stata la mia “Prima Comunione” … da papà!
È stata, per me, un’emozione fortissima accompagnare i miei bambini, Roberta e Andrea, all’incontro con Gesù.
Non un incontro con una persona qualunque, ma l’“incontro” che cambierà la loro vita, perché, d’ora innanzi non vivranno più per se stessi, ma per Gesù.
Roberta e Andrea, però, sono ancora dei bambini, come potranno comprendere questa loro missione?
A questo punto entriamo in gioco noi genitori che non abbiamo concluso il nostro dovere, pagando il conto al ristorante, ma abbiamo la responsabilità di accompagnarli fino a che saranno adulti nella fede, potranno camminare con le loro gambe e fare le loro scelte.
Si proprio così, perché loro, come tutti noi, saranno sempre liberi di scegliere se essere amici o meno di Gesù, sforzandosi, ogni giorno, di non cadere nella tentazione di vivere una vita senza valori e, quindi, senza Dio!
Il mondo, purtroppo, offre ai nostri figli modelli sbagliati che vanno in una direzione opposta all’amore e i risultati li vediamo, ogni giorno, su quel rettangolo scuro che arreda tutte le nostre stanze: violenze, abbandoni, povertà, soprusi, ecc.
Gesù, però, ci ha insegnato che, se vogliamo essere suoi amici dobbiamo amarci gli uni gli altri, come Lui stesso ci ha amati e cioè, fino a donare la propria vita per il nostro bene.
Questo deve essere il punto fisso per tutti noi che ci diciamo cristiani ma che non viviamo da cristiani.
La Comunione dei miei bambini è stata, per me, l’occasione per commuovermi, ma anche per riflettere su quelle che sono le mie responsabilità di cristiano e di genitore.Per questo voglio ringraziare, prima di tutto i bambini, per avermi fatto vivere così intensamente questo giorno speciale, perché, più di noi adulti, hanno manifestato in tutti loro gesti l’emozione per quello che stavano vivendo.
Ringrazio, poi, anche Marco, il catechista che li ha accompagnati, in particolare nel mese precedente il giorno della Comunione e che ha saputo mettere da parte gli impegni della sua vita – un esempio tangibile del donarsi –, perché i nostri bambini arrivassero pronti all’incontro con Gesù.
E padre Gianluca? Ha messo la ciliegina sulla torta, aiutandoci a riflettere sul significato fondamentale del sacramento della Comunione, con una semplice profondità che solo lui riesce ad esprimere.
E per tutto questo: grazie Signore!

Ciro

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E VENNE SENZA VISTO

L’ anno in cui sua madre lo partorì non era santo. I suoi, gli ebrei, avevano per legge di consacrare un anno ogni sette lasciando in pace il suolo. Il suo anno di nascita non apparteneva al ciclo dei sabbatici, al rituale imposto dal verbo «shabbàt», cessare.
Non nacque in un momento di allegria, ma durante un viaggio, uno spostamento forzato. Il suo popolo amava i pellegrinaggi e si metteva in cammino volentieri per onorare qualche festività, Pasqua o altre, in Gerusalemme. Ma lui non nacque in un pellegrinaggio. I suoi si spostavano per un dovere triste e insidioso: obbedire a un censimento.
Oggi noi siamo abituati a essere contati, iscritti e arruolati in elenchi, a disporre di molti contrassegni numerici. Alcuni di noi stimano giusto, così per scrupolo di conoscenza, rilevare anche le impronte digitali di donne e uomini arrivati a noi da fughe senza fine. Perciò da moderni non possiamo intendere la paura degli ebrei di allora, la rovina che avevano già sperimentato quando un loro re aveva osato contare il popolo presso il quale Dio aveva piantato prima una tenda poi un tempio. Quel re ottenne cifre sbagliate o subì il castigo di un’ epidemia. Gli ebrei erano dunque già stati messi in guardia contro l’ arroganza di dare un numero agli esseri umani.
Quando nacque, il suo popolo era suddito della potenza militare romana e doveva perciò sottoporsi alla conta imposta dai conquistatori, come capi di bestiame. Non venivano marchiati, questo no, per sigillo sopra di loro bastava l’ aquila romana conficcata sui loro luoghi sacri.
I suoi genitori erano in viaggio verso Sud, andavano in Giudea a tappe forzate. Non erano ammesse eccezioni, anche una donna assai avanti nella gravidanza doveva raggiungere il suo luogo di conta, incolonnata insieme a tutti gli altri. Così partirono da Nazareth in due e a Betlemme diventarono tre. Era nato, sua madre aveva avuto le contrazioni proprio lì, i suoi muscoli espulsori obbedirono a un luogo predisposto e prescritto: a Betlemme di Giuda è tenuto a nascere il Messia, il più aspettato intruso del mondo.
Non era sabbatico quell’ anno, non di pellegrinaggio era il viaggio dei suoi genitori. Nacque sotto la coda e l’auspicio di una cometa, non un segno di buona fortuna secondo le credenze e le superstizioni antiche. Oggi sui presepi si appunta a medaglia la stellina con uno strascico d’ oro a conforto della notte, ma allora la cometa fu uno spietato riflettore che denunciava luogo e avvenimento. Scrive Matteo che tre stranieri vennero da un altro Oriente per registrare il prodigio già annunciato dai loro calcoli, portando offerte solenni degne di una nascita di re. Il re in carica, Erode, se ne risentì, ebbe timore di un’ usurpazione. Comandò una strage di bambini, tra due anni e zero, in Betlemme e in tutto il territorio circostante. Fu una misura estrema e inefficace: è dimostrato, da Mosè in poi, che ne scampa sempre uno, quello giusto, quello che è un riassunto di tutti gli altri uccisi. Chi si trova a essere resto di innumerevoli assenti, assume e contiene le energie di quelle vite impedite. Fare miracoli allora è solo un piccolo risarcimento.
Un angelo avvertì in sogno suo padre dell’ agguato, così fuggirono di notte senza aspettare l’ alba e questo spiega perché Giuseppe non avvertì nessuno del sogno e del pericolo. Non spiega perché l’ angelo non visitò anche qualche altro padre: aveva l’ autonomia di volo di un sogno solamente? E perché un angelo solo? È vano bussare a spiegazioni, se non sono state scritte. Doveva svolgersi uno dei molti massacri di bambini. Oggi pure ne avvengono, tra gli scugnizzi di strada dell’ America del Sud, tra le neonate delle campagne cinesi, tra i piccoli rapiti da orchi e da chirurghi clandestini che espiantano e trapiantano organi. Oggi siamo più tranquilli: sappiamo perché avvengono. Ma nel racconto di Matteo si agita in un lettore il dubbio sull’ onnipotenza di chi non mandò a salvare nessun bambino oltre quel suo Messia.
Così nacque e fu vivo per il solo prodigio di cui non fu lui stesso autore. Per tutta la vita, poca, cercò di pareggiare il conto di quell’ ingiustizia, fino a farsi appiccare sopra l’ osceno patibolo romano che esponeva la morte in alto, in vista, a manifesto. Non avrebbero mai potuto immaginare, quei conquistatori, che razza di icona stavano montando sopra il Golgota. Avrebbero preteso l’ esclusiva dei diritti di riproduzione.
Per tutta la vita, poca, fu abitato da una folla di bambini mancati, dal dolore delle loro madri. Così poté sopportare quello della sua ai piedi della croce.
Molti dei suoi prodigi erano scherzi di bambini che giocavano a fare i dottori, a salvare la natura curando d’ improvviso lebbre e storpiature. Erano miracoli, ma non colossali, non inceppò la macchina del cielo come Giosuè che fermò il sole in Gabaòn e la luna sulla valle di Aialòn. Non aprì le acque come Mosè, però ci camminò sopra senza bagnarsi. Non creò il frutto della vite, ma seppe provvedere, in una festa, a vendemmiare vino dall’ acqua. Non creò il sole, il fuoco, né luna, né stelle già create, ma diede vista ai ciechi e questo è un modo di inventare luce. Non ebbe figli, non procurò una sua discendenza, ma litigò con sua sorella Morte e le strappò di mano un corpo già in sepolcro, riportandolo indietro a rivivere, certo, ma anche a rimorire.
Fu battezzato in acqua dolce, amò la pesca, frequentò pescatori, ne riempì le reti, placò le ondate di una tempesta sul Lago di Tiberiade, che i suoi chiamano Mare di Cetra. Delle Scritture Sacre preferì Isaia; di Davide gustò più i Salmi che le imprese. Discendeva da lui, così vuole la legge del Messia. Nella sua linea di antenati c’ era una genitrice cananea, Tamàr, e una moabìta, Rut, perché il Messia è meticcio, non un purosangue.
Chiese all’ offeso di esporre l’ altra guancia, mettendo l’ offensore al rischio del ridicolo, ma pure stabilendo un termine alla prova: in numero di due, non più, sono le guance. Non scrisse, non dettò, le sue parole facevano il viaggio delle api sopra i petali aperti delle orecchie. Salvò una donna dalla condanna di lapidazione chiedendo ai suoi accusatori che il primo di loro, se puro da peccati, si facesse avanti con la prima pietra. Sapeva che gli uomini tirano volentieri le seconde. Diverse donne lo seguivano di luogo in luogo alla pari degli apostoli. Non pretese astinenze, il celibato venne dopo, a chiese fatte.
Sudò sangue, morì con tutto il corpo resistendo alla morte con nervi, fiato, febbre, piaghe, mosche intorno all’ agonia. Resuscitò per intero, carne, ossa e promessa di essere solo il primo dei destinati alla resurrezione.
Nascesse oggi, sarebbe in una barca di immigrati, gettato a mare insieme alla madre in vista delle coste di Puglia o di Calabria. Forse continua a nascere così, senza sopravvivere, e il venticinque dicembre è solo il più celebre dei suoi compleanni. Dopo di lui il tempo si è ridotto a un frattempo, a una parentesi di veglia tra la sua morte e la sua rivenuta. Dopo di lui nessuno è residente, ma tutti ospiti in attesa di un visto. Siamo noi, pasciuti di Occidente, la colonna di stranieri in fila fuori all’ ultimo sportello.

Erri De Luca




UNA STORIA DI GHIACCIO

“Una vecchia canzone di Lucio Dalla diceva in un verso assai suggestivo che «nel centro di Bologna / non si perde neanche un bambino». Mi è tornato in mente con tutto il suo carico di paradossale ironia qualche giorno dopo l’inizio dell’anno, quando ho ascoltato la storia dolente e tragica di Devid (sì, scritto così, con la e al posto della a), un neonato di venti giorni che nel centro di Bologna si è perso per sempre, addormentato nel sonno della morte avvolto in una coltre di gelo. Una storia di ghiaccio, la storia di un bambino passato in poche ore dal tepore dell’incubatrice al sottozero della piazza. Perché i suoi genitori, Claudia e Sergio, una casa non ce l’hanno, e allora girano con i loro cuccioli (oltre a Devid il suo gemellino Kevin e la loro sorellina di venti mesi, figlia di un altro papà) tra piazza Maggiore e le Torri, vanno a cercare un riparo sotto il portico del Podestà o qualche minuto di tepore nell’atrio caldo della Biblioteca Sala Borsa.Claudia e Sergio non hanno l’aspetto dei clochard: certo vivere in strada o in ripari di fortuna non ti consente certo di avere la camicia stirata o la gonna in piega.
Ma non sono dei barboni.
Sono persone come tante, che hanno sbagliato i conti, si sono trovate in una difficoltà economica e hanno perso la casa. Passerotti caduti dal nido, esempi tipici di quella nuova povertà che in parte è frutto della crisi economica. Quando, come nel loro caso, non c’è una vera famiglia alle spalle, si perdono tutti i paracadute e tutte le protezioni.
Facciamo tanta fatica a capirli.
Li vediamo ogni giorno, altre Claudia con altri Devid, passare rasenti alle porte dei nostri centri d’ascolto e guardare da lontano le nostre mense francescane, per tornare magari più tardi quando la penombra protegge dagli sguardi, a chiedere un pò di latte e qualche scatoletta.
Anche nella civilissima Bologna i servizi – sia quelli pubblici che quelli del privato sociale – hanno balbettato davanti alla morte di Devid. Incapaci di capire e di spiegare, impotenti davanti ad una dignità ferita che urla in silenzio il proprio disperato bisogno di aiuto ma che non vuole essere incasellata negli elenchi e negli schedari dei “poveri”.
Il piccolo angelo portato via dal gelo ci indica una strada. Chissà se sapremo capire, se sapremo superare i nostri schemi, se sapremo costruire risposte giuste alle domande che salgono da storie come questa.
Fuori fa ancora tanto freddo”.

Ettore Colli Vignarelli

Tratto dal n°2 di febbraio 2011 della rivista dell’Ordine Francescano Secolare d’Italia “Francesco il Volto Secolare”




IL NOME NON È TUTTO UN PROGRAMMA

All’Angelus in piazza San Pietro del 9 gennaio 2011 Benedetto XVI ha raccomandato ai genitori di non dare ai propri figli nomi che non siano compresi nel martirologio cristiano. Infatti, ha spiegato, «ogni battezzato acquista il carattere di figlio a partire dal nome cristiano, segno inconfondibile che lo Spirito Santo fa nascere “di nuovo” l’uomo dal grembo della Chiesa».
Probabilmente il pontefice ha inteso riferirsi alla moda, sempre più diffusa tra certi presunti vip, di attribuire ai figli i nomi più stravaganti: città, oceani, continenti, perfino marchi di fabbrica e eau de toilette. Sicuramente sarebbe auspicabile una maggiore sobrietà ma non bisogna esagerare con i reprimenda per non incorrere in contraddizioni.
Può giovare a tal proposito riportare alla memoria il caso di Francesco d’Assisi. È noto che Francesco nacque tra il 1181 e il 1182 durante un periodo di assenza del padre, in terra di Francia per lavoro; la madre pensò di chiamarlo Giovanni, in onore del Battista, ma il padre, al suo ritorno, gli mutò il nome in Francesco. Leggiamo la gustosa descrizione offerta da Nicola Papini nella sua Storia di San Francesco d’Assisi del 1825, considerata la prima biografia critica moderna del frate di Assisi.

In Assisi, antica città Vescovile dell’Umbria, Provincia ben nota d’Italia, nacque San Francesco nell’anno mille cento ottantuno dell’Incarnazione del divin Verbo, e probabilmente in Settembre: tempo infelice, e di dolorosa ricordanza, se per altre ragioni, per questa specialmente, che, sbandite tra gli uomini le sante virtù, sovraneggiavano allora i vizj presso che tutti. Il padre chiamavasi Pietro di Bernardo Moriconi (da Moricone paese d’origine) famiglia distinta assai tra le popolazioni di Pisa, e di Lucca, e ben cognita fuori ancora d’Italia. Fu il detto Bernardo, che spatriando da Lucca portossi qualche anno prima in Assisi col figlio e con tutto il ricco capitale toccatogli nella divisione de’ beni con un suo fratello, e vi si stabilì, aprendo negozio di varie merci, specialmente di panni lani. Il nome della madre fu Pica della nobil casa Bourlemont in Provenza […]. È naturale che il traffico avendo portato Pietro nella Francia gli aprisse la strada a sì cospicuo parentado. Appunto in Francia si trovava Pietro per affari di mercatura, allorché donna Pica sgravossi del suo portato. In mancanza del marito pensò ella ad imporgli il nome del santo Battesimo, e fu quello di Giovanni; ma rimpatriato indi a non molto il padre e trovato, a mio credere, il bambino vivace oltremodo, bizzarro e tutto brio, e di fattezze e maniere francesi, contentissimo, soprannominollo Francesco […] il quale termine si usava allora in Italia per esprimere, che le persone e cose eran francesi, cioè della Francia, e dicevasi merci francesche, soldati franceschi, ecc. anzi trovasi unito anche a’ nomi proprj di persona come Isabella Francesca, Giovanni Francesco. Prevalse questo nome avventizio […] e andò avanti al suo principale nella bocca delli uomini.

Le ragioni della scelta di Pietro Bernardone non sono ben note; amore per la Francia, è l’interpretazione più comune. Personalmente ritengo che Pietro scelse di apporre questo soprannome al piccolo Giovanni più che altro perché gli evocava una dimensione transnazionale alla quale era molto legato in virtù del suo lavoro: l’Europa dei viaggi e dei commerci, delle libertà comunali, della nascente borghesia. Un soprannome beneaugurante per quello che, nei suoi ambiziosi disegni, sarebbe divenuto un giovane brillante e facoltoso. In ogni caso volle che suo figlio non fosse identificato col nome di battesimo bensì col nome «avventizio», incurante che questo non fosse neanche un nome vero e proprio quanto piuttosto un attributo o un appellativo; insomma, niente a che vedere con il martirologio cristiano.
Un comportamento per nulla conformista, quindi, se non addirittura stravagante che però non mi sembra abbia avuto gravi conseguenze.

Pietro Urciuoli, OFS Avellino