1

CREDO IN UN SOLO DIO …

“Credo in un solo Dio” è il video tratto dall’incontro di formazione tenuto da p. Gianluca Manganelli alla Fraternità Ofs di Avellino – Roseto. L’argomento è il “Credo”, analizzato nella sua parte iniziale, fino all’incarnazione che sarà trattata nell’incontro del 15 dicembre. Anche se la qualità e l’audio non sono eccezionali, con un po’ di attenzione, si riesce comunque a seguire bene. In seguito ci organizzeremo meglio, per migliorare la qualità video e, soprattutto, audio, affinché anche da casa si possa comunque coltivare la propria fede, anche quando gli impegni della vita non ci lasciano un attimo di tregua per dedicarci alla nostra anima, l’unica parte di noi che non si corrompe e che nessuno può rubarci.

[banner network=”altervista” size=”468X60″ align=”aligncenter” corners=”rc:0″]




IL VILLAGGIO DI CARTONE

In una vecchia chiesa ormai in disuso un anziano prete assiste impotente allo smantellamento di tutti i simboli religiosi fino alla sparizione del grande crocifisso e alla trasformazione della casa del Signore in un centro di accoglienza per gli immigrati, «i veri ornamenti del tempio di Dio». Il vecchio prete, senza più un luogo in cui officiare i suoi servizi, si troverà a prendersi cura dei disperati che, inseguiti dalla polizia, hanno cercato un rifugio nella chiesa dismessa, e grazie a loro ritroverà una fede ormai vacillante. Il messaggio di Ermanno Olmi non lascia spazio a dubbi: via i simulacri, dentro gli uomini. La sceneggiatura del film del grande regista lombardo, presentato fuori concorso alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2011 e accolto dal giudizio unanime dei critici come un piccolo capolavoro, è stata scritta valendosi delle considerazioni di Claudio Magris e Gianfranco Ravasi ed è stata pubblicata da ARCHINTO nel febbraio 2012, accompagnata da un saggio introduttivo del teologo Vito Mancuso.




E TU DA CHE PARTE STAI?

Ieri sera, 8 ottobre 2012, è andata in onda su LA7 una trasmissione televisiva sul Concilio Vaticano II dal titolo “Di chi è la Chiesa?” condotta da Gad Lerner. Ospiti in studio: il card. Angelo Scola, lo storico del Concilio Alberto Melloni, il prete operaio Giovanni Nicolini, il direttore di TV2000 Dino Boffo, il giornalista Giuliano Ferrara, lo storico Roberto de Mattei, la fondatrice della comunità Nuovi Orizzonti Chiara Amirante.
Personalità molto diverse che hanno presentato i propri punti di vista spesso contrastanti se non irriducibili, a testimonianza di quanto siano differenti le visioni che ancora oggi vi sono del Concilio; visioni talmente variegate da non essere riassumibili, se non a prezzo di inaccettabili semplificazioni, nelle ben note ermeneutiche della continuità o della rottura. La collocazione stessa degli ospiti nello studio sottolineava questa diversità di vedute: progressisti da un lato, tradizionalisti dall’altro, il cardinale Scola nel mezzo. Una curiosità: per quanto attestati su posizioni diverse, quasi tutti hanno richiamato a più riprese la figura di Francesco d’Assisi, dividendosi anche su questo: chi sosteneva che fu sempre fedele alla chiesa di Innocenzo III, chi invece a dire che pur senza contestare niente e nessuno fece comunque di testa sua.Seguendo il dibattito televisivo ho maturato alcune riflessioni e quella che voglio condividere con voi è questa. Sappiamo bene che la vita, in tutte le sue manifestazioni, ci obbliga spesso a scegliere da che parte stare: nella sfera pubblica siamo chiamati ad accordare il nostro consenso a questa o quella formazione politica, nell’attività lavorativa siamo chiamati a decidere come impostare la nostra professione, nel nostro privato siamo chiamati a scegliere i criteri ai quali ispirare la nostra condotta e quella della nostra famiglia. Ebbene, questo vale anche con riferimento alla Chiesa: anche nella Chiesa siamo chiamati a scegliere da che parte stare. La Chiesa è una, certo, ma al suo interno coesistono visioni diverse, spesso anche radicalmente diverse; la Chiesa è una realtà complessa, problematica, decifrarla non è facile. C’è una fede del cuore e una fede dell’intelletto e vanno alimentate entrambe. Le reliquie, ad esempio, alimentano sicuramente la fede del cuore ma per alimentare la fede dell’intelletto occorre ben altro: occorre studiare e documentarsi con serietà e impegno. E se alimentare la fede del cuore è importante perché ci dona quel senso di pace interiore di cui abbiamo così tanto bisogno, alimentare la fede dell’intelletto non è meno importante perché volenti o nolenti dobbiamo scegliere da che parte stare; non importa quale sia la scelta purché sia una scelta consapevole, motivata, ponderata. Non possiamo sottrarci a questo dovere; significherebbe privare la Chiesa del nostro contributo, significherebbe seppellire i nostri talenti. Beninteso, anche questa in fondo è una scelta: le conseguenze però le conosciamo.

9 ottobre 2012
Pietro Urciuoli, francescano

Ecclesiaspiritualis.blogspot.it




ANNO DELLA FEDE

Benedetto XVI nella sua Lettera Apostolica Porta fidei ha scritto che “Fin dall’inizio del mio ministero come Successore di Pietro ho ricordato l’esigenza di riscoprire il cammino della fede per mettere in luce con sempre maggiore evidenza la gioia ed il rinnovato entusiasmo dell’incontro con Cristo” (n. 2). Alla luce di questo pensiero, ha indetto un Anno della fede che avrà inizio nella felice coincidenza di due anniversari: il cinquantesimo dell’apertura del Concilio Vaticano II (1962) e il ventesimo della pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica (1992).
Dall’intera Chiesa proviene un pensiero di sincero ringraziamento al Santo Padre per avere voluto questo Anno. L’attesa è grande come pure il desiderio di voler corrispondere in modo pieno e coerente.
L’Anno della fede, anzitutto, intende sostenere la fede di tanti credenti che nella fatica quotidiana non cessano di affidare con convinzione e coraggio la propria esistenza al Signore Gesù. La loro preziosa testimonianza, che non fa notizia davanti agli uomini, ma è preziosa agli occhi dell’Altissimo, è ciò che permette alla Chiesa di presentarsi nel mondo di oggi, come lo fu nel passato, con la forza della fede e con l’entusiasmo dei semplici. Questo Anno, comunque, si inserisce all’interno di un contesto più ampio segnato da una crisi generalizzata che investe anche la fede. Sottoposto da decenni alle scorribande di un secolarismo che in nome dell’autonomia individuale richiedeva l’indipendenza da ogni autorità rivelata e faceva del proprio programma quello di “vivere nel mondo come se Dio non esistesse”, il nostro contemporaneo si ritrova spesso a non sapersi più collocare. La crisi di fede è espressione drammatica di una crisi antropologica che ha lasciato l’uomo a se stesso; per questo si ritrova oggi confuso, solo, in balia di forze di cui non conosce neppure il volto, e senza una meta verso cui destinare la sua esistenza. È necessario poter andare oltre la povertà spirituale in cui si ritrovano molti dei nostri contemporanei, i quali non percepiscono più l’assenza di Dio dalla loro vita, come una assenza che dovrebbe essere colmata. L’Anno della fede, quindi, intende essere un percorso che la comunità cristiana offre a tanti che vivono con la nostalgia di Dio e il desiderio di incontrarlo di nuovo. È necessario, pertanto, che i credenti sentano la responsabilità di offrire la compagnia della fede, per farsi prossimo con quanti chiedono ragione del nostro credere.Il Papa ha indicato in Porta fidei gli obiettivi verso cui indirizzare l’impegno della Chiesa. Ha scritto: “Desideriamo che questo Anno susciti in ogni credente l’aspirazione a confessare la fede in pienezza e con rinnovata convinzione, con fiducia e speranza. Sarà un’occasione propizia anche per intensificare la celebrazione della fede nella liturgia, e in particolare nell’Eucaristia… Nel contempo, auspichiamo che la testimonianza di vita dei credenti cresca nella sua credibilità. Riscoprire i contenuti della fede professata, celebrata, vissuta e pregata, e riflettere sullo stesso atto con cui si crede, è un impegno che ogni credente deve fare proprio” (Pf 9). Un programma arduo che si immette, anzitutto, all’interno della vita quotidiana di ogni credente, e nella pastorale ordinaria della comunità cristiana, perché si ritrovi il genuino spirito missionario necessario per dare vita alla nuova evangelizzazione. A questo riguardo sono contento di poter dare notizia che la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti ha approvato il formulario di una s. Messa speciale “Per la Nuova Evangelizzazione”. Un chiaro segno perché in questo Anno e alla vigilia del Sinodo dedicato alla nuova evangelizzazione e trasmissione della fede si dia il primato alla preghiera e specialmente alla s. Eucaristia fonte e culmine di tutta la vita cristiana.
Insieme a questo percorso quotidiano, la Nota di carattere pastorale che la Congregazione per la Dottrina della fede ha pubblicato lo scorso 6 gennaio propone diverse iniziative concrete che possono trovare riscontro a livello di Conferenze Episcopali, diocesi, parrocchie, associazioni e movimenti. Come si sa, al Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione è stato affidato il compito di proporre, animare, coordinare eventi a carattere universale. Di seguito, illustro alcune iniziative che sono state approvate e saranno momenti caratterizzanti lo svolgimento dell’Anno della fede.
1. È stato preparato, anzitutto, il logo che segnerà tutti gli avvenimenti di quest’Anno. Esso rappresenta una barca, immagine della Chiesa, in navigazione sui flutti. L’albero maestro è una croce che issa le vele le quali, con segni dinamici, realizzano il trigramma di Cristo (IHS). Sullo sfondo delle vele è rappresentato il sole che associato al trigramma, rimanda all’Eucaristia.
2. A partire da questo momento entrerà in funzione il sito che sarà disponibile in versione multilingua e direttamente consultabile all’indirizzo www.annusfidei.va.Il sito è stato progettato in maniera innovativa ed è consultabile da tutti i dispositivi mobili e tablet attraverso la scelta di componenti e tecnologie di nuova concezione. Offre, quindi, l’opportunità di conoscere tutti gli appuntamenti previsti con il Santo Padre e gli eventi di maggior rilievo delle Conferenze Episcopali, delle Diocesi, dei Movimenti e delle Associazioni. Da oggi è fornito in italiano e inglese mentre dai prossimi giorni verrà aggiunta l’edizione in lingua spagnola, francese, tedesca e polacca.
3. È pronto anche l’inno ufficiale dell’Anno della Fede. Credo, Domine, adauge nobis fidem è il ritornello che permane come invocazione al Signore perché abbia ad aumentare in tutti noi la fede, sempre così debole e bisognosa della sua grazia.
4. Nei primi giorni di settembre uscirà nelle diverse lingue il Sussidio pastorale, Vivere l’Anno della Fede, preparato per accompagnare, in primo luogo, la comunità parrocchiale, e quanti vorranno inserirsi nell’intelligenza dei contenuti del Credo.
5. Una piccola immagine del Cristo del Duomo di Cefalù accompagnerà tutti i pellegrini e i credenti nelle varie parti del mondo. Nel retro si trova scritta la Professione di fede. Uno degli obiettivi dell’Anno della fede, infatti, è fare del credo la preghiera quotidiana imparata a memoria, come era consuetudine nei primi secoli del cristianesimo. Secondo le parole di S. Agostino: “Ricevete la formula della fede che è detta Simbolo. E quando l’avete ricevuta imprimetela nel cuore e ripetetevela ogni giorno interiormente. Prima di dormire, prima di uscire, munitevi del vostro Simbolo. Nessuno scrive il Simbolo al solo scopo che sia letto, ma perché sia meditato”.
[…]
Come ha ben scritto Benedetto XVI: “Solo credendo la fede cresce e si rafforza” (Pf 7). Questi eventi a carattere universale intendono essere solo un segno per ripercorrere insieme un tratto di storia che ci accomuna e rende responsabili per il momento che siamo chiamati a vivere. D’altronde, non si crede mai da soli. Il cammino da percorrere è sempre frutto di una vita di relazioni e di esperienza di comunità che permette di cogliere la Chiesa come primo soggetto che crede e che trasmette la fede di sempre. È una tappa di quella storia bimillenaria che “per fede” anche noi siamo chiamati a percorrere.

[banner network=”altervista” size=”468X60″ corners=”rc:0″]




L’INCONTRO CON CRISTO NELLA PAROLA – 2° incontro Ofs della zona interdiocesana di Avellino

ngg_shortcode_0_placeholder

Nel I° incontro zonale ci siamo lasciati con la “Volontà di rimanere in Cristo”, per ritrovarci con grande gioia al II° incontro zonale “Con Cristo nella Parola”. Si è sottolineata l’importanza della comunicazione per essere in comunione, ponendo a tutti noi appartenenti alle rispettive fraternità presenti, sei domande formulate dai vescovi. Ognuno di noi, ma soprattutto un buon francescano dovrebbe rendere il Vangelo parte integrante della propria vita ritrovando nelle sue parole il senso della sua esistenza nella quotidianità. Una quotidianità spesso nascosta dietro ad un video, creando delle relazioni irreali dove tutto ha un’identità incerta e precaria; ed è proprio lì che l’unico educatore, il Signore, con la sua presenza reale e attraverso la Parola riesce a “resettare ” l’IO che prende il sopravvento in noi stessi e fa si che ci si incontri e ci si relazioni con i fratelli. Solo ponendoci continue domande sui nostri dubbi e scavando nelle Verità di Fede, potremmo essere sereni nelle risposte. Il confrontarci, ha tuttavia fatto riaffiorare tutte le paure del “dirsi” francescano nella società odierna, dove le problematiche socio-economiche che affliggono l’uomo fino allo stremo comportano, a partire dalla famiglia che dovrebbe essere la linfa vitale della società cristiana, una diseducazione alla Parola del Signore, portando all’offuscamento della vera identità. È proprio dinanzi a questi dubbi che bisogna perseverare con la testimonianza; una delle domande chiedeva: “Un vero incontro con Cristo mi porta a testimoniarlo, annunciarlo. Quando, come cristiano e francescano, questo avviene nella mia vita?”. La risposta? Ebbene la possiamo trovare solo nella profondità della nostra fede e nella forza che essa ci dona nel riuscire a superare il dolore, le difficoltà che sembrano insormontabili, condividendo le piccole gioie e raccogliendo i frutti dopo tanti “raccolti “distrutti, riuscendo a non perdere mai di vista quella “luce” che illumina la nostra strada senza mai oscurarla. È questo che segna il nostro incontro con Cristo e non si può stabilire come e quando ciò avviene, perché solo rimanendo con Lui ed in Lui, in ascolto della sua Parola, potremmo avere delle risposte. «Io sono la vite, voi i tralci; chi rimane in me ed io in lui, questi porta molto frutto; perché senza di me non potete far niente» (Gv 15, 5).

Assunta D’Argenio
Fraternità di Atripalda

[banner network=”altervista” size=”468X60″ background=”FFD712″]




LE QUATTRO CANDELE

Quattro candele bruciavano lentamente e silenziosamente, sull’altare. Il silenzio era tale che si poteva udire la conversazione delle quattro fiammelle. La prima disse: “Io sono la candela della pace, ma nel mondo ci sono guerre, divisioni, rivalità anche tra amici e parenti e nessuno viene più a cercarmi”. E si spense. La seconda candela disse: ” Io sono la candela della fede, ma tutti vogliono solo sempre vedere e toccare e mai credere, così nessuno viene più a cercarmi”. E si spense. La terza candela disse: “Io sono la candela della gioia, ma nel mondo c’è tanto pessimismo, scoraggiamento e tristezza e nessuno viene più a cercarmi”. E si spense. In quel momento arrivò un bambino che, vedendo le tre candele spente, si mise a piangere e disse: ” Ma perché vi siete spente, è troppo buio così!”. Allora prese la parola la quarta candela e disse: “Non temere bimbo mio, finché la mia fiammella rimane accesa niente è perduto perché con quella possiamo accendere tutte le altre. Sai chi sono io? Sono la candela della speranza“.
Ecco cos’è il tempo d’Avvento: tempo di speranza! Chiediamo a Maria “zolla innocente, aiuola fiorita e profumata nell’immensa palude dell’umanità” (Paolo VI) di ravvivare la nostra speranza, affinché la nostra anima non si spenga.




LA FRATERNITÀ FRANCESCANA, FORMA DI VITA E DI SANTITÀ. 2° incontro zonale per Formandi e Iniziandi Ofs

Sabato 16 aprile, dalle 16.30 alle 18.30, si è tenuto il secondo, e ultimo, appuntamento dedicato a Formandi e Iniziandi delle fraternità Ofs appartenenti alla Zona di Avellino.
Anche in quest’occasione, come per il primo appuntamento, la zona è stata divisa in due micro-zone, per ridurre al minimo gli spostamenti, cosicché, le fraternità di Lioni, Serino, Volturara, Montella e Salza, hanno converso nel convento di S. Rocco a Lioni, mentre Avellino [Roseto e Cuore Immacolato], Mercogliano, Montefusco, Atripalda, Lacedonia e Zungoli nel convento di S. Egidio di Montefusco.
L’argomento dell’incontro, (di cui in seguito è riportata una breve esposizione), era comune a entrambe le micro-zone ed ha avuto per tema: “La fraternità francescana, forma di vita e di santità”.
I relatori degli incontri sono stati: p. Lino Barelli, per la micro-zona di Lioni e Mena Riccio, per quella di Montefusco.
La partecipazione è stata buona, per la micro-zona di Lioni, dove erano presenti diciassette confratelli provenienti da Serino[7], Montella[1], Volturara[2] e Lioni[7], poco incoraggiante, invece, per quella di Montefusco, dove erano presenti solo sette confratelli della fraternità locale.

Incontro della micro-zona di Lioni
Il tema dell’incontro, cui ha preso parte anche il sottoscritto, delegato di microzona, è stato approfondito da p. Lino Barelli, assistente della nascente fraternità di Lioni che, dopo una breve preghiera, ha iniziato la sua riflessione, introducendo il concetto di “comunione”.
La sorgente del nostro stare insieme – afferma p. Lino – la ritroviamo nella partecipazione, attraverso lo Spirito Santo, alla vita divina e, in particolare, alla Trinità, dove Padre, Figlio e Spirito Santo sono una cosa sola.
In Gesù è presente sia la natura divina, sia quella umana (una donatagli dal Padre, l’altra da Maria) che, grazie all’opera dello Spirito Santo, sono in piena comunione.
Lo Spirito Santo che anima l’unità in Gesù, anima anche la comunione nella Chiesa, dove ciascuno di noi è membro di un unico corpo.
Siamo membra l’una diversa dall’altra, ma siamo uniti nella diversità, come Gesù non è il Padre, né lo Spirito Santo, ma è tutt’uno con loro.
La comunione che esiste tra noi, membra della Chiesa, si fonda sulla comunione tra Gesù e la Chiesa ed è dono di Dio.
In questo modo, anche la nostra fraternità non può essere ridotta a un’associazione culturale, perché è Dio stesso che ci mette insieme, per camminare sulla via della santità.
L’azione di Dio, nella costruzione della fraternità, è sostenuta anche da papa Benedetto XVI che afferma: «Questa fraternità, gli uomini potranno mai ottenerla da soli? La società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli. La ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità. Questa ha origine da una vocazione trascendente di Dio Padre, che ci ha amati per primo, insegnandoci per mezzo del Figlio che cosa sia la carità fraterna». (Caritas in Veritate, 19)
La comunione nasce dal fatto che il Padre ci ha creato dall’inizio: corpo, anima e Grazia. Col peccato abbiamo perso la comunione con la vita divina che, con Gesù, abbiamo avuto l’opportunità di riconquistare.

Infatti, «a quanti l’hanno accolto – afferma l’apostolo Giovanni nel suo prologo – ha dato potere di diventare figli di Dio» (cfr. Gv 1,12), mediante il dono dello Spirito Santo che abbiamo ricevuto grazie al sangue versato da Gesù sulla croce.
Infatti, l’apostolo Paolo, quando scrive agli Efesini, dice: «in Cristo Gesù, voi che allora eravate lontani siete stati avvicinati mediante il sangue di Cristo. Lui, infatti, è la nostra pace; lui che dei due popoli ne ha fatto uno solo e ha abbattuto il muro di separazione abolendo nel suo corpo terreno la causa dell’inimicizia, … per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo facendo la pace; e per riconciliarli tutti e due con Dio in un corpo unico mediante la sua croce, sulla quale fece morire la loro inimicizia. Con la sua venuta ha annunciato la pace a voi che eravate lontani e la pace a quelli che erano vicini; perché per mezzo di lui gli uni e gli altri abbiamo accesso al Padre in un medesimo Spirito» (Ef 2, 13-18).
Sull’esempio di Gesù, anche noi, se vogliamo la comunione tra i popoli, dobbiamo salire sulla croce, come ci insegna il nostro Serafico Padre S. Francesco.
Infatti, in una sua visita su La Verna, papa Giovanni Paolo II affermava che l’Ordine dei frati minori nasceva nel momento in cui Francesco riceveva le sacre stimmate, a imitazione di Gesù che realizzò la comunione tra i popoli, salendo sulla croce.
Francesco, come Gesù [«Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo. Erano tuoi e li hai dati a me» (Gv 17, 6)], considerava un dono i fratelli che il Signore gli aveva dato (cfr. FF. 116) e insegna a noi a fare altrettanto.
Ogni membro della fraternità, quindi, è dono l’uno per l’altro e, quando manca un fratello, essa è meno ricca, perché la fraternità perfetta, come ci insegna Francesco (cfr. FF. 1782), è l’insieme dei doni di ciascuno, nessuno escluso.
Il nostro atteggiamento nei confronti del fratello, quindi, deve essere, innanzitutto, di accoglienza, perché è un dono del Signore e, poiché tale, deve essere valorizzato e aiutato a crescere.
Perché la Fraternità cresca nella comunione, devono esserci compresenza, corresponsabilità e complementarietà, a imitazione delle prime comunità cristiane.
Gli Atti degli Apostoli, nel descrivere i primi cristiani, riportano che «Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli» (At 2,42) che, nella Fraternità, sono rappresentati dal ministro che deve prepararsi a guidarla, nello spirito della Regola.
La Regola è la sintesi del Vangelo [Francesco chiamava la sua Regola “il midollo del Vangelo”] e se i ministri riescono a farne vivere la sostanza, tutta la Fraternità cresce nella comunione a Dio e ai fratelli.
Il fondamento della comunione in Fraternità è la vita sacramentale, perché, prima dell’unità col fratello, è necessario ricercare la comunione con Gesù.
Oltre alla vita sacramentale, la preghiera, operata attraverso lo Spirito Santo, è, per il francescano secolare, la via preferenziale, per vivere in armonia con Gesù, diventando “l’anima del proprio essere e del proprio operare” (Reg. 8).
La preghiera richiede, soprattutto, un atteggiamento di ascolto, perché solo accogliendo la Parola nel nostro cuore, per opera dello Spirito Santo, possiamo stabilire la comunione col Signore e vivere secondo la sua e non la nostra volontà.
Dalla comunione col Padre, poi, ha origine l’armonia col fratello, soprattutto con quello spirituale e, ancor di più con l’ammalato, come ci narrano le fonti: «E ovunque sono e si incontreranno i frati, si mostrino familiari tra loro reciprocamente. E ciascuno manifesti con fiducia all’altro le sue necessità, poiché se la madre nutre e ama il suo figlio carnale, quanto più premurosamente uno deve amare e nutrire il suo fratello spirituale? E se uno di essi cadrà malato, gli altri frati lo devono servire come vorrebbero essere serviti essi stessi». (FF. 91-92)
All’intervento di p. Lino, ha fatto seguito un breve dibattito che ha coinvolto l’intera assemblea, nel quale sono stati messi in risalto i punti salienti della riflessione.
L’incontro si è terminato con la preghiera e con un momento fraterno, organizzato dalla fraternità locale.

ngg_shortcode_1_placeholder




IL GESÙ’ STORICO SECONDO RATZINGER

di Vito Mancuso
in “la Repubblica” dell’11 marzo 2011

Nel primo libro su Gesù pubblicato nel 2007 Benedetto XVI chiedeva ai lettori quell’anticipo di simpatia senza il quale non c’è alcuna comprensione». Aveva ragione, perché occorre essere ben disposti verso l’autore di un libro o di una musica, come verso ogni persona che si incontra, per poter adeguatamente comprendere. È necessario però capire bene il senso della simpatia richiesta dal pontefice: nell’ambito teologico in cui si colloca non si tratta di un semplice sentimento, il quale peraltro c’è o non c’è perché nasce solo spontaneamente. Simpatia va intesa qui nel senso originario di patire-con, coltivando un comune pathos ideale. La domanda quindi è: qual è il pathos che ha mosso Benedetto XVI a pubblicare due volumi su Gesù di oltre 800 pagine complessive, di cui oggi arriva in libreria il secondo che riguarda, recita il sottotitolo, il periodo «dall’ingresso in  Gerusalemme fino alla risurrezione»? La preoccupazione del Papa concerne il problema decisivo del cristianesimo odierno, a confronto del quale i cosiddetti “valori non negoziabili” (scuola, vita, famiglia) sono acqua fresca: cioè il legame tra il Gesù della storia reale e il Cristo professato dalla fede. Senza scuole cattoliche il cristianesimo va avanti, senza leggi protettive sulla famiglia e la bioetica lo stesso, anzi non è detto che una dieta al riguardo non gli possa persino giovare. Ma senza il legame organico tra il fatto storico Gesù (Yeshua) e quello che di lui la fede confessa (che è il Cristo) tutto crolla, e alla Basilica di San Pietro non resterebbe che trasformarsi in un museo. Nella fondamentale premessa del primo volume, una specie di piccolo discorso sul metodo, il Papa si chiede “che significato può avere la fede in Gesù il Cristo (…) se poi l’uomo Gesù era così diverso da come lo presentano gli evangelisti e da come, partendo dai Vangeli, lo annuncia la Chiesa”, domanda retorica la cui unica risposta è “nessun significato” e da cui appare quanto sia decisiva la connessione storia-fede. Chiaro l’obiettivo, altrettanto lo è il metodo: «Io ho fiducia nei Vangeli (…) ho voluto fare il tentativo di presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale, come il Gesù storico in senso vero e proprio»; concetto ribadito nella premessa del nuovo volume dove l’autore scrive di aver voluto «giungere alla certezza della figura veramente storica di Gesù» a partire da «uno sguardo sul Gesù dei Vangeli». Il Papa fa così intendere che mentre l’esegesi biblica contemporanea perlopiù divide il Gesù storico reale dal Cristo dei Vangeli e della Chiesa, egli li identifica mostrando che la costruzione cristiana iniziata dagli evangelisti e proseguita dai concili è ben salda perché poggia su questa esatta equazione: narrazione evangelica = storia reale. Questo è l’intento programmatico su cui Benedetto XVI chiede la sua “simpatia”.
Peccato per lui però che in questo nuovo volume egli stesso sia stato costretto a trasformare il segno uguale dell’equazione programmatica nel suo contrario: narrazione evangelica ? storia reale. Il nodo è la morte di Gesù, precisamente il ruolo al riguardo del popolo ebraico, questione che travalica i confini dell’esegesi per arrivare nel campo della storia con le accuse di “deicidio” e le immani  tragedie che ne sono conseguite. Chiedendosi “chi ha insistito per la condanna a morte di Gesù”, il Papa prende atto che “nelle risposte dei Vangeli vi sono differenze”: per Giovanni fu l’aristocrazia del tempio, per Marco i sostenitori di Barabba, per Matteo “tutto il popolo” (su Luca il Papa non si pronuncia, ma Luca è da assimilare a Matteo). E a questo punto presenta la sorpresa: dicendo “tutto il popolo”, come si legge in 27,25, “Matteo sicuramente non esprime un fatto storico: come avrebbe potuto essere presente in tale momento tutto il popolo e chiedere la morte di Gesù?”. Sono parole veritiere e coraggiose (per le quali sarebbe stato bello che il Papa avesse fatto il nome dello storico ebreo Jules Isaac e del suo libro capitale del 1948 Gesù e Israele, purtroppo ignorato), ma che smentiscono decisamente l’equazione programmatica che è il principale obiettivo di tutta l’impresa papale, cioè l’identità tra narrazione evangelica e storia reale.
Alle prese con uno dei nodi più delicati della storia evangelica, il Papa è stato costretto a prendere atto che i quattro evangelisti hanno tre tesi diverse, e che una di esse «sicuramente non esprime un fatto storico». Se questa incertezza vale per uno degli eventi centrali della vita di Gesù, a maggior ragione per altri. Ne viene quello che la più seria esegesi biblica storico-critica insegna da secoli, cioè la differenza tra narrazione evangelica e storia reale.
Significa allora che tutta la costruzione cristiana crolla? No di certo, significa piuttosto che essa è, fin dalle sue origini, un’impresa di libertà. Non è data nessuna statica verità oggettiva che si impone alla mente e che occorre solo riconoscere, non c’è alcuna “res” al cui cospetto poter presentare solo un’obbediente “adaequatio” del proprio intelletto, non c’è nulla nel mondo degli uomini che non richieda l’esercizio della creativa responsabilità personale, nulla che non solleciti la libertà del soggetto. La libertà di ciascun evangelista nel narrare la figura di Gesù è il simbolo della libertà cui è chiamato ogni cristiano nel viverne il messaggio. Se persino di fronte ai santi Vangeli la libertà del soggetto è chiamata a intervenire discernendo ciò che è vero da ciò che “sicuramente non esprime un fatto storico”, ne viene che non esiste nessun ambito della vita di fede dove la libertà di coscienza non debba avere il primato (compresa la libertà di non prendere così tanto sul serio l’etichetta “valori non-negoziabili” apposta dal Magistero alla triade scuola-famiglia-vita).
Affrontare seriamente la figura di Gesù, come ha fatto Benedetto XVI in questo suo nuovo libro, significa essere sempre rimandati alla dinamica impegnativa e responsabilizzante della libertà.




ATEISMO MILITANTE

Durante la campagna presidenziale, in un articolo su Dilma Rousseff, ho affer­mato che lei non ha nulla di “marxista atea” e che “i nostri torturatori, loro sì che praticavano l’ateismo militante profanando con ogni violenza i templi vivi di Dio: le loro vittime torturate con il pau-de-arara, le scosse elettriche, il soffocamento e la morte”.
Il testo ha provocato la reazione indignata di alcuni lettori, cominciando da Gerardo Xavier Santiago e Daniel Sottomaior, dirigenti dell’ATEA (Associazione Nazionale di Atei e Agnostici).
Ho amici atei e agnostici e persone che professano le più svariate credenze. I miei amici atei hanno letto il testo e nessuno di essi si è sentito offeso o assimilato ai torturatori.
Cosa intendo per “ateismo militante”? È quello che si aggrappa al diritto di divulgare che Gesù è una frottola o Maometto un commediante. Tutti hanno diritto di non credere in Dio e di manifestare questa forma negativa di fede. Ma non di mancare di rispetto alla fede dei cristiani, musulmani, ebrei, indigeni o atei.La tolleranza e la libertà religiosa esigono che si rispettino quelli che credono e quelli che non credono. Per cui difendo il diritto all’ateismo e all’agnosticismo. La mia difficoltà sta nell’accettare qualsiasi forma di fondamentalismo, sia religioso che ateo.
Sono contrario alla confessionalità dello Stato, sia di quello cattolico, come il Vaticano, sia di quello ebraico, come Israele, sia di quello islamico come l’Arabia Saudita; o di quello ateo, come l’ex Unione Sovietica. Lo Stato deve essere laico, fondato su principi costituzionali e non religiosi.
Non ci sono prove scientifiche sull’esistenza o inesistenza di Dio, ha ricordato il fisico Marcelo Gleiser nell’incontro che abbiamo fatto per preparare il libro “Con­versazione su scienza e fede” (titolo provvisorio) che l’Editore AGIR pubblicherà nei prossimi mesi. Gleiser è agnostico.
Come non ho diritto di considerare qualcuno ignorante perché è ateo, nessuno può disprezzare o aggredire la scienza religiosa degli altri. Per questo difendo il diritto all’ateismo ma mi rifiuto di accettare l’ateismo militante.
Perorare la fine dell’insegnamento religioso nelle scuole, il ritiro dei crocifissi dai luoghi pubblici o del nome di Dio dalla Costituzione, e cose simili, non ha nulla di ateismo militante. Questa è una laicità militante, che merita la mia comprensione e il mio rispetto. Il Dio in cui credo è quello di Gesù Cristo come ho spiegato nel romanzo “Un uomo chiamato Gesù”. Il Dio che vuole essere amato e servito in coloro che furono creati (uomini e donne) “a sua immagine e somiglianza”.
Non concepisco una credenza astratta di Dio. Non rendo culto a un concetto teolo­gico, né mi indigno di fronte agli dei negati da Marx, Saramago e ATEA. E tuttavia nego gli dei del capitale, dell’oppressione e dell’Inquisizione. Il principio fonda­mentale della fede cristiana afferma che il Dio di Gesù si riconosce nel prossimo. Chi ama il prossimo ama Dio, anche se non crede. Però la frase rovesciata non è vera.
Ateismo militante è dunque profanare il tempio vivo di Dio: l’essere umano. È quello che praticano i torturatori, gli oppressori, gli inquisitori e i pedofili della Chiesa cattolica. Ogni volta che un essere umano è sottoposto a sevizie e violato nella sua dignità e nei suoi diritti, il tempio di Dio è profanato.
Preferisco un ateo che ama il prossimo a un devoto che lo opprime. Non credo nel dio dei torturatori e dei protocolli ufficiali, né nel dio degli annunci commerciali e dei fondamentalisti accecati; né nel dio dei proprietari di schiavi e dei cardinali che lodano i signori del capitale. Da questo punto di vista anche io sono ateo.
Credo nel Dio libero dal Vaticano e da tutte le religioni esistenti e che esisteranno. Il Dio che precede ogni battesimo, che preesiste ai sacramenti e trascende tutte le dottrine religiose. Libero dai teologi, si diffonde con gratuità nel cuore di tutti, cre­denti e atei, buoni e cattivi, di quelli che si credono salvati e di quelli che si credono figli della perdizione, così come di quelli che sono indifferenti agli abissi misteriosi dell’aldilà. Credo nel Dio che non ha religione, creatore dell’Universo, datore della vita e della fede, presente in pienezza nella natura e negli esseri umani.
Credo nel Dio della fede di Gesù, Dio che si fa bambino nel ventre vuoto della mendicante e si accosta all’amaca per riposarsi dalle fatiche del mondo. Dio del­l’arca di Noè, dei cavalli di fuoco di Elia, della balena di Giona. Dio che sorpassa la nostra fede, che dissente dai nostri giudizi e sorride delle nostre pretese; si irrita per i nostri discorsi moralisti e si diverte quando per disperazione proferiamo le bestemmie.
Credo nel Dio di Gesù. Il suo nome è Amore, la sua immagine è il prossimo.

Frei Betto