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CREDO IN UN SOLO SIGNORE GESÙ CRISTO …

Credo in un solo Signore Gesù Cristo … Questa parte del “Credo” raccoglie i più grandi temi della nostra Fede:

  1. I titoli di Gesù;
  2. Il rapporto tra Gesù e il Padre;
  3. Il rapporto tra Gesù e la sua umanità;
  4. La coscienza di Gesù.

I TITOLI DI GESÙ

Ci sono tre titoli importanti che riguardano Gesù:

a)    CRISTO. Cristo è la trascrizione italiana della parola greca Christòs che traduceva la parola ebraica Mashìah, da cui la parola italiana messia. Entrambe le parole significano «Unto». Presso gli ebrei si ungeva con olio qualcuno che si voleva consacrare a Dio (Gn 28,18). La persona sul cui capo era versato olio profumato era considerata come rappresentante di Dio, quindi l’“unto” era il “rappresentante di Dio”. Cristo è unto dal Signore che lo consacra; questo è il più importante titolo di Gesù.

b)    SIGNORE. Il Signore è chi vince la morte. Quando gli Apostoli scrivono i Vangeli, i fatti sono già avvenuti, perciò lo chiamano Signore anche prima di raccontare la Resurrezione di Gesù. Il nome di Dio, nell’Antico Testamento, non era pronunciabile – YHWH – perciò era indicato col nome di “Signore”. Il primo credo che troviamo nella Scrittura è: “Gesù Cristo è il Signore”.

IL RAPPORTO TRA GESÙ E IL PADRE

Che rapporto c’è tra il Padre e il Figlio? A questa domanda tanti hanno cercato di dare una risposta. Vuol dire che c’è un Dio più grande e uno più piccolo? Quando diciamo “generato non creato”, affermiamo che nel rapporto tra Padre e Figlio non c’è subordinazione, ma si trovano sullo stesso livello; il primo Concilio di Costantinopoli (381) parla di stessa sostanza Se Dio è Amore, ha bisogno di qualcuno con cui relazionarsi e costui è l’immagine di se stesso.

IL RAPPORTO TRA GESÙ E LA SUA UMANITÀ

Con l’incarnazione del Cristo, Dio vuole partecipare la sua materia divina alla nostra natura umana, ma che rapporto c’è tra l’umanità e la divinità di Gesù?

Siamo tentati di pensare che Gesù fosse talmente tanto Dio da schiacciare la sua umanità. Come uomo, invece, Gesù ha avuto tutte le nostre fragilità. Ha lavorato con le mani di uomo e ha pensato con la testa di uomo.

L’incarnazione è il primo atto d’amore di Dio che aveva il fine di indicarci la strada per diventare come Lui. Gesù, infatti, ci dice di essere la via per arrivare alla perfezione umana che abbiamo perso col peccato originale e la strada che ci propone è proprio quella della sua umanità.

Il Concilio di Calcedonia (451) afferma che Gesù è vero Dio e vero uomo evidenziando che la Sua umanità e la Sua divinità non si mescolano.

Qualcuno degli antichi Padri affermava che Maria fosse la madre dell’uomo – Gesù e basta. Invece Maria è Madre dell’uomo – Dio di quest’unione umana – divina. Maria tesse la carne all’uomo – Dio e non solo all’uomo o solo a Dio.

Nel grembo di Maria avviene una nuova creazione; lì, dal nulla, Dio crea la carne umana dell’uomo – Dio del Figlio di Dio. Questa carne è plasmata nel grembo di Maria già come uomo – Dio e non è uomo su cui si innesta, poi, la divinità.

LA COSCIENZA DI GESÙ

Gesù cresce in età, sapienza e grazia (Lc 2, 51-52). Lui già da bambino intuisce di avere un rapporto speciale con il Padre. A dodici anni, nel tempio di Gerusalemme, Gesù dice a Maria e Giuseppe “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio? (Lc 2,49)

Questo doveva suonare come una bestemmia per gli ebrei; nemmeno Maria comprende quelle parole, però le conserva dentro di sé.

Gesù inizia la sua missione a trent’anni. Fino a quell’età vive nella sua famiglia e da essa impara tutto ciò che utilizzerà nei suoi insegnamenti. Non ha iniziato prima la sua missione, perché non aveva ancora raggiunto la pienezza della maturità umana. Col crescere, Gesù comprendeva sempre più di essere il prediletto del Padre e questa sensazione gli è ratificata nel giorno del suo Battesimo. Da quel momento Gesù cambia completamente il suo modo di essere; parla con autorità e si scontra col modo di vivere la fede nel suo tempo.

Il Padre era sempre con lui, soprattutto nella preghiera, in particolar modo in quella del Getsemani.

Che volontà aveva Gesù: umana o divina?

Gesù ha una volontà divina che cresce sempre più in Lui, ma ha anche una volontà umana che è libera e che si è donata: la volontà umana segue liberamente quella divina. È bello pensare che Gesù abbia scelto, liberamente, di fare la volontà del Padre: “Padre, se possibile, allontana da me questo calice …” (Mt 26,39).  

dall’incontro di formazione di p. Gianluca Manganelli
con la Fraternità Ofs di Avellino – Roseto

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IL MIO DIO SI CHIAMA LIBERTÀ

Teologo e filosofo, Vito Mancuso è anche uno scrittore che sa come  dialogare con i lettori, credenti e non credenti. I suoi libri vendono decine di migliaia di copie, diventando veri e propri casi editoriali e  dimostrando che  c’è “ una domanda di spiritualità molto forte nel nostro paese alla quale l’offerta della religione tradizionale per molti aspetti non riesce ad andare incontro”(Mancuso) .

E’ stato definito  «il teologo che vuole rifondare la fede»  per le sue posizioni non sempre allineate con le gerarchie ecclesiastiche. Qui parla del suo ultimo libro, in una intervista  rilasciata in occasione della consegna di  un premio letterario.

 Vito Mancuso è a Reggio Calabria, vincitore del Premio Rhegium Julii “I.Falcomatà” dedicato alla saggistica con il volume Obbedienza e libertà. Parlare con Mancuso è immergersi nei suoi silenzi, disimparare le regole ordinarie di conversazione per reimpararne di nuove, seguendo un ritmo meno sincopato, più ampio, disteso, profondo.

Nel volume afferma che la sua è una teologia laica: potrebbe sembrare un ossimoro…

La laicità non è uno stato della persona: ci sono dei preti o dei monaci perfettamente laici e viceversa dei laici perfettamente clericali o anticlericali (la stessa cosa in positivo o negativo). La teologia laica è quella modalità di intendere e sviluppare il discorso teologico non per appartenere a una istituzione, quindi non per essere funzionale a una struttura di potere, ma per servire la verità per se stessa, così come si manifesta nella coscienza umana. E’ una teologia che si potrebbe esemplificare con la frase di Albert Schweitzer, “la sincerità è il fondamento della vita spirituale”: una teologia che ama la verità e da questo amore prende il coraggio di fare emergere tutte le aporie del discorso tradizionale, cercando di risolverle e sapendo che solo così si può servire la coscienza contemporanea…

Scrive che la verità libera quando ci si chiede continuamente che cos’è la verità… però la teologia di fatto nasce per dare una risposta a questa domanda…oppure no?

Io penso di no. Penso che il centro del Vangelo, dove Gesù dice “Io sono la verità”, mostri che la verità non vada intesa come un contenuto (perché altrimenti non avrebbe nessun senso che un essere umano dica: “Io sono la verità”), ma come metodo. “Io sono la via, la verità e la vita”: la verità è al centro, della via e della vita, è un metodo. Solo così si capisce la fede.  In un altro passo del Vangelo Gesù dice: “Chi fa la verità viene alla luce”. Anche qui la verità non è un contenuto, perché un contenuto lo si dichiara, lo si professa, non lo si “fa”. La verità (radice di veritas in latino è la stessa di primavera) è un metodo in grado di far fiorire la vita, di fare sì che le cose, e l’energia primordiale di cui noi consistiamo, si dispongano in modo tale da creare maggiore organizzazione: vitale, mentale, spirituale. Questa concezione legata alla prassi è precisamente la concezione evangelica: il cristianesimo non è nato per servire un sistema dottrinale, anzi il fondatore del cristianesimo è stato messo a morte perché considerato una minaccia per un preciso sistema politico-dottrinale. Il cristianesimo nel suo nucleo originale ha potuto sorgere e svilupparsi proprio per questa disposizione metodologica: io mi dispongo nella vita in modo tale da ricercare sempre qual è il punto di vista per servire la verità, e per fare questo sono disposto anche a infrangere alcuni dogmi, alcune usanze, alcune dottrine, come faceva Gesù quando violava il sabato o le leggi di purità rituale e così via…

Però a questo punto la verità diventa un telos, un obiettivo da raggiungere, a cui tendere,  ma che non si raggiunge mai…

Si raggiunge sempre ma non si può mai definire, concludere. Se la verità è la logica della vita, ogni situazione ha una logica che la rende vera. In questo momento, stiamo facendo un’intervista: esiste una logica del nostro discorso? La stiamo servendo? Siamo in una situazione autentica? Io ritengo di sì. In questo momento stiamo facendo la verità. La stiamo definendo? No, perché dopo di questo incontro ce ne saranno altri, etc… e ogni volta dovremmo cercare la logica mentale e operativa in base alla quale disporsi. Non è una formula in base alla quale uno possa pensare di possederla.

Il punto fermo però, in questa analisi e nel libro, è l’oggettività del bene, cioè il bene definibile universalmente cercando dentro la coscienza , quindi la capacità dell’uomo in quanto tale di sapere riconoscere “naturalmente” il bene…

Esatto. C’è bisogno di fidarsi dell’istinto naturale di cui siamo formati, perché la logica che ha portato all’esistenza il nostro corpo e che lo mantiene è la logica dell’armonia relazionale, tra le componenti subatomiche, poi atomiche,  molecolari e così via. Il fondo del mio pensiero è il principio della relazione: uno deve semplicemente essere fedele a questa logica e trasmetterla al di fuori di sé. La religione, intesa come religio, legame, è in funzione di questo, armonia attraverso la relazione, dentro di sé, tra se stessi e gli altri, tra se stessi e la natura. Ai ragazzi del liceo (lo scrittore ha incontrato gli studenti del Campanella, ndr) ho chiesto:  la famosa frase kantiana, “Due cose riempiono la mia anima: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me” rimanda a una sola realtà o a due realtà? La legge morale dentro di me è della stessa pasta del cielo stellato sopra di me? Qui ci sono diverse scuole ma la religione è quella disposizione della mente e del cuore che ti fa capire che quanto più sei fedele alla legge morale dentro di te tanto più sei fedele alla legge cosmica che ti ha portato all’esistenza, e viceversa. Questa è la religio. Un’unione tra me e il cosmo.

Nel volume parla del postmodernismo come una sorta di neopaganesimo. Eppure, la concezione antidottrinale della verità cui fa riferimento  mi fa venire in mente, per assurdo forse, quella espressa da Eco ne “Il nome della rosa” (“Forse il compito di chi ama gli uomini é di far ridere della verità, fare ridere la verità, perché l’unica verità è imparare a liberarci dalla passione insana per la verità)

Beh, la concezione che ho della verità, identificazione della legge cosmica che ci pervade e informa l’energia e che è stata individuata nelle diverse tradizioni con nomi diversi, più che alla contemporaneità la vedo affine ad una dimensione classica. Se per paganesimo si intende questa dimensione, quindi non l’accezione comune (cancellazione di ogni riferimento trascendente, immoralismo etc) ma un discorso che partendo dalla realtà materiale vuole condurre un rigoroso discorso spirituale io non vedo contraddizione, anzi, probabilmente aggiungo che in quello che definivi postmodernismo, che è la condizione in cui ci muoviamo, il bisogno fondamentale della coscienza umana sia quello di giungere a sanare la frattura scientifica/materiale e umanistica/spirituale. Se devo dare una spiegazione dell’attenzione che vedo attorno a quello che scrivo è perché probabilmente la gente vede che questa frattura viene ricucita.

Alla fine però non abbandona la dimensione gerarchica della Chiesa. Tutto quello che dice, scrive, sembra condurre più ad una dimensione orizzontale, reticolare, e invece lei mantiene quella gerarchica…

Noi viviamo di dimensione orizzontale e verticale. Non esiste nulla (che conosca io) in natura che prescinda da una gerarchia: la natura non conosce nulla che non abbia una funzione gerarchica. Questo però non significa cadere nel verticismo, nell’autoritarismo,  significa capire che ci sono dei sistemi gerarchicamente configurati, tali solo nella misura in cui ascoltano le dinamiche orizzontali. Io sono un figlio spirituale del card. Martini: è stato il mio punto di riferimento, con il quale avevo un rapporto vivo, intenso ma asimmetrico, un rapporto in cui lui mi dava del tu e io del lei. Io ho avuto beneficio da questo rapporto, soprattutto nella mia giovane età, perché avevo bisogno di una guida, di un supporto, e ancora adesso ne ho bisogno.  Ho sempre aderito a questa guida perché non era una guida che imponeva se stessa ma che diceva l’ultima parola dopo avere ascoltato la prima, la seconda, l’ennesima, una parola che sorgeva dalla sintesi, dall’ascolto, dal discernimento.  Quindi io ritengo che la struttura verticale, non verticista, sia qualcosa di positivo: ha un fondamento naturale ed anche biblico. Gesù sceglieva: c’erano le folle, i 72 discepoli,  i 12 discepoli, i 3 preferiti, e poi uno solo, Pietro o Giovanni a seconda delle scuole… Ma deve essere una gerarchia tale che chi sta sopra stia in funzione del basso:  va cambiato proprio il flusso di energia, dal basso verso l’alto e non viceversa.

In questo senso pensa che il Sud del mondo possa dare un contributo?

Sì. Ed è una bella domanda questa. Penso che soprattutto il sud del mondo possa fare scaturire questo. Purtroppo c’è da dire che quando tentava di emergere, soprattutto attraverso la Teologia della Liberazione, il vertice verticista ha fatto di tutto per soffocarla e di fatto c’è riuscito. Adesso dobbiamo combattere per la liberazione della teologia.

Poi sorride. E sembra il sorriso di Siddharta. Der suchende. Colui che cerca.

Intervista di Josephine Condemi

Tratto da: A Vito Mancuso il premio Rhegium Julii “I.Falcomatà”




UNA “PASSIONE” ALTERNATIVA

Irena, attrice-regista d’avanguardia, accetta la proposta del cappellano di un penitenziario, don Iridio, di mettere in scena la Passione di Gesù, ma quando arriva il momento di stabilire i ruoli, nessuno tra i detenuti vuole fare la parte di Giuda, perché Giuda è il traditore e in carcere non puoi chiedere a un detenuto di fare la parte dell’infame per eccellenza. Tutto si blocca. Che si fa?
Davide Ferrario, regista di Tutta colpa di Giuda, per molti anni ha fatto esperienza di laboratorio teatrale nelle carceri italiane. Il film è ambientato nel carcere Le Vallette di Torino, ha per protagonisti i detenuti stessi e diventa da subito un modo per riflettere sulla condizione del carcere vista dal di dentro, con gli occhi di chi la vive giorno per giorno, cercando di “galleggiare” (come dice a Irena il direttore del carcere) in attesa che il tempo passi …
Sorgono delle domande: il carcere come è concepito e vissuto serve a qualcosa? è prudente far sentire i detenuti “troppo vivi” o è meglio cercare di tenerli tranquilli, tanto tutto quello che aspettano è uscire? chi lavora in carcere crede davvero nella validità delle attività teatrali , creative, rieducative o tira a campare pure lui?
Intanto Giuda non si trova e così Irena ha un’idea:
“Il figlio di Dio si è fatto uomo, e che cosa vuole l’uomo? Vuole soffrire, vuole morire? No! Vuole essere felice, vuole vivere… e allora noi sogneremo il mondo senza dolore, qui, adesso, senza Giuda, senza tradimento, senza processo, senza condanna… senza la croce!”
Ferrario, ateo convinto, si interroga sulla religione e sul senso ultimo del sacrificio.Sorgono altre domande: cosa dà senso alla sofferenza? quando vale la pena di sacrificarsi? È possibile un’alternativa a una religione basata su tradimento-condanna-passione-croce?
Gesù ci avrebbe salvato lo stesso se fosse morto tranquillamente in un letto, solo per il fatto di essere nato, di essersi fatto uomo?
E se qualcuno decide di rappresentare la Passione senza la croce è un eretico, un blasfemo?
Un artista ha il diritto di trattare il sacro con libertà?
Quando Irena è finalmente riuscita a coinvolgere i detenuti, il suo “Gesù senza Giuda” fa imbestialire don Iridio:

  • -Non è l’arte che ci salva, è la fede!
  • – La religione ci rende schiavi, l’arte ci libera!
  • -La fede!
  • -La poesia!
  • -L’obbedienza!
  • -La libertà!
  • -Vade retro Satana!

Il carcere, il teatro, la fede, la libertà: tanti temi “pesanti” in un film leggero, a tratti ironico, quasi un musical, con coreografie e canzoni , dal rap ai Marlene Kuntz.
Comunque, per tornare alla storia, alla fine la soluzione la trovano in parte …Dio, in parte i detenuti.
Se volete sapere qual è, guardate il film.

Maria Urciuoli




«SIGNORE DA CHI ANDREMO?» – Incontro Ofs della Zona Interdiocesana di Avellino

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Domenica 13 novembre, si è svolto a Mercogliano, presso la sala riunioni delle Suore salesiane di Don Bosco, il primo incontro della zona Interdiocesana di Avellino, organizzato in collaborazione con la Fraternità locale.
La simpatica introduzione di Ciro che, come sempre, sa attrarre allegramente l’attenzione dei presenti sul tema da affrontare, ha attenuato, notevolmente, il freddo che letteralmente ci avviluppava.
Scherzosamente ci ha distratto da questo pensiero passando a presentare e salutare le Fraternità intervenute all’incontro: Volturara I., Atripalda, Lioni, Montefusco, Avellino [Cuore Immacolato di Maria], Avellino [Roseto] e Mercogliano, per un totale di cinquantacinque persone.
Brevemente, il delegato di micro – zona, ha presentato il tema che sarà approfondito durante l’anno sociale e che avrà, come spunto di riflessione, l’interrogativo-scelta degli Apostoli che alla domanda di Gesù: «Volete andarvene anche voi?», risposero: «Signore da chi andremo?» (cfr. Giov. 6,68-69); tema peraltro proposto anche nell’ambito del Congresso Eucaristico di Ancona.
Il passo del Vangelo di Giovanni è stato scelto, perché mette in risalto la difficoltà del percorso di conformazione a Cristo che pone i suoi stessi discepoli di fronte al bivio: stare con lui o voltargli le spalle.
Questa dinamica, però, non si riassume in una scelta definitiva, ma accade ogniqualvolta ci interroghiamo, nel nostro vivere quotidiano, se agire secondo Cristo o no.La risposta dei discepoli – “Signore da chi andremo?” -, riassume anche tutto il nostro disagio a vivere una vita senza Gesù e ci spinge ad una continua ricerca di Lui:
Nella Parola;
• Nell’Eucarestia;
Nei Fratelli.
L’appartenenza a Cristo e alla Fraternità, il modellarsi a Lui e le relative difficoltà, già presenti nelle prime comunità dei discepoli, sono stati i punti focali del commento a questa bellissima pagina del Vangelo di Giovanni che don Vitaliano Della Sala, oggi Parroco al servizio della Chiesa di Mercogliano, ha magistralmente trattato.
Nella Parola di Dio che alimenta la nostra vita spirituale e che ci manifesta la Sua volontà, nell’intreccio sublime tra teoria e pratica, tra dottrina e vita vissuta, tra trascendenza ed immanenza, sta il messaggio del Cristianesimo.
Un messaggio positivo, afferma appassionatamente e teneramente don Vitaliano; un annuncio con cui Gesù è venuto a dirci che la nostra vita è una festa, perché Dio ci vuole bene.
Così tutta la nostra vita diventa una continua Eucarestia, cioè ringraziamento a Dio, per il dono del suo Figlio Unigenito, grazie al quale non siamo più “schiavi”, ma abbiamo acquistato la dignità di figli.
Questo ringraziamento, però, deve tramutarsi in atteggiamenti concreti, in vita quotidiana e questo è il motivo per cui, secondo il racconto di Giovanni nel suo Vangelo, alcuni discepoli tornarono indietro.
Gesù, però, parla chiaramente ai suoi discepoli e a tutti noi, senza “addomesticare” il suo messaggio, dimostrando di non aver paura di perdere i suoi seguaci, pronti a tirarsi indietro appena il percorso si fa più impegnativo.
Vivere concretamente l’Amore di Cristo, amando il nostro prossimo come noi stessi, questo è il grosso ostacolo che incontrarono i suoi discepoli – abituati a un Dio lontano, cui era sufficiente offrire sacrifici animali, per avere la coscienza a posto – e anche noi oggi.
Gesù quando dice ai discepoli «chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui», vuole proprio dire questo: l’amore è concretezza.
Il verbo “mangiare” deriva dal greco “trogon” che significa: “Masticare” la sua Carne e bere il suo Sangue, affinché circoli in noi la Vita divina, dono gratuito, buono, efficace e duraturo. È quest’assimilazione che ci trasforma e ci rende Eucaristia per il mondo, per gli altri, per la salvezza dell’umanità.
“Dio ci fa questo regalo” – dice Don Vitaliano – perché ci vuole bene, perché si fida di noi, perché vuole che anche gli uomini tra di loro si amino, dello stesso Amore con cui Lui ci ama, e si fidino di Lui.
Il cristianesimo è un cammino caratterizzato da periodi in cui si fanno passi in avanti e altri indietro: i discepoli tornano indietro di fronte alla richiesta, da parte di Gesù, della concretezza di un amore vissuto.
Gesù chiede agli apostoli, cioè quelli che Lui stesso ha scelto perché gli stessero vicino, se anche loro vogliono tornare indietro. A questo punto, Pietro prende la parola e risponde: «Signore da chi andremo?», dimostrando di aver compreso la difficoltà del cammino, ma, nel contempo, la gioia nel percorrerlo.
In questo modo, Pietro, dimostra di aver afferrato un aspetto fondamentale del messaggio di Gesù: il Regno di Dio non sta al di là, ma al di qua.
La vita eterna che Gesù ci presenta, non inizia dopo la morte, ma fin da ora e, allora, comprendiamo che la morte è solo un passaggio.
Se riusciamo a mettere in pratica il messaggio d’amore di Gesù, vivendo in buoni rapporti col nostro fratello, ci accorgiamo che migliora la qualità della nostra vita e, in questo modo, viviamo già da ora la vita eterna.
Questo dono d’Amore, però, non possiamo tenercelo dentro, dobbiamo trasmetterlo agli altri, sull’esempio di Gesù che non riesce a tenere per se l’amore del Padre e lo dona a tutti noi.
Se ci accorgiamo di non amare appieno gli altri, vuol dire che non abbiamo ancora accolto l’amore di Dio.
Il tirarsi indietro, allora, sembra quasi impossibile, assurdo, insensato, per chi ama sinceramente Cristo.
Amarlo e conoscerlo, quindi, per essere in Lui e per restare con Lui, è l’invito di Don Vitaliano che, da uomo di gran fede, ci sprona a rileggere le lettere di San Giovanni, così cariche di vita vissuta e a recuperare il messaggio di Francesco d’Assisi che ha imparato a vivere nell’amore concreto verso tutti (vedi l’esempio del lebbroso e del lupo di Gubbio).
L’incontro è proseguito con la formazione di tre gruppi di lavoro che si sono confrontati su tre aspetti basilari della nostra vocazione:
1. La libertà di scegliere se seguire o meno Gesù;
2. Uno stile di vita rinnovato che deve essere il frutto della nostra scelta;
3. Il dono di se agli altri.
Gruppi sapientemente animati da Teresa, di Volturara, e da Marco e dalla cara Mena, di Avellino, artefici anche della preghiera iniziale e finale che ci ha donato la possibilità di elevare il nostro spirito a Dio, per rafforzare la nostra fede e continuare il cammino, insieme a Gesù, nell’impegno quotidiano di modellarci a Lui.
A conclusione ci attendeva un gradito ristoro, offerto dalle sorelle che ci hanno ospitato.

Eugenia Iannone




CHE COS’È IL VANGELO?

Alcuni credono che il vangelo sia la biografia di Gesù, come i libri lo sono, per i personaggi storici.
Il vangelo, invece, è la “buona notizia” che Gesù è risorto e così non fosse, tutta la nostra fede sarebbe vana.
Il vangelo, dunque, non è una semplice “biografia” di Gesù, ma è una rilettura della sua vita, alla luce della Resurrezione; è come leggere un libro o veder un film di cui già si conosce il finale.
Il vangelo fu scritto alcuni anni dopo la morte di Gesù.
Il gruppetto degli Apostoli che si riuniva con Maria, grazie alla discesa dello Spirito Santo, esce dal cenacolo, per annunziare la Resurrezione di Cristo, a cui essi avevano assistito, in veste di testimoni diretti.
Questi discepoli analfabeti che prima si rinchiudevano nel cenacolo, per paura di fare la stessa fine di Gesù, all’improvviso, dopo l’incontro col Risorto e rafforzati dallo Spirito Santo, trovano il coraggio di andare per il mondo.
Andando per il mondo, gli Apostoli annunciano la morte e Resurrezione di Gesù, cioè la “buona novella” o “Vangelo”.
Accanto a quest’annuncio, gli Apostoli riportano anche le parole dette da Gesù che erano trascritte su bigliettini e conservate.La prima forma di trasmissione del Vangelo, quindi, è stata quella orale sostituita solo alcuni decenni dopo la morte di Gesù dalla forma scritta.
I Vangeli canonici, cioè quelli “ispirati” da Dio e riconosciuti dalla Chiesa, sono stati scritti da Luca, Matteo, Marco e Giovanni.
L’autore del Vangelo è detto “evangelista” ed è chi mette, per la prima volta, nero su bianco l’annuncio di Gesù.
Matteo e Giovanni sono stati anche Apostoli di Gesù, mentre Luca e Marco sono discepoli che sono cresciuti sotto la guida di Paolo e Pietro.
Gli evangelisti, a un certo punto della storia, hanno deciso di mettere insieme quei bigliettini lasciati dagli Apostoli nelle loro predicazioni.
Nasce, così, la prima redazione del Vangelo, con l’obiettivo principale di evitare cattive interpretazioni del pensiero degli Apostoli che, piano piano, andavano scomparendo, a causa delle persecuzioni, dell’età, ecc..
I quattro evangelisti riportano episodi della vita di Gesù, visti da prospettive diverse: il punto di vista da cui guarda Luca è diversa da quella da cui guardano Marco, Matteo e Giovanni.
È come leggere il commento di una partita fatto da tifosi di squadre avverse che raccontano lo stesso evento, ma secondo prospettive diverse.
Matteo, ad esempio, è un ebreo, quindi, il suo obiettivo è di annunciare il messaggio di Gesù agli ebrei, basando tutta la storia della salvezza sulla tradizione ebraica, cioè innestando il Vangelo sulle scritture dell’Antico Testamento.
Matteo, perché Gesù sia accolto anche dal popolo ebraico, lo presenta come il vero Messia promesso dalle scritture.
La radice ebraica del Vangelo di Matteo si può notare già dall’inizio, cioè dal “vangelo dell’infanzia”, dove il protagonista è Giuseppe – e non Maria come avviene per Luca, a d esempio – e questo perché l’ebreo era maschilista e anche Matteo lo era.
L’evangelista Luca è greco ed è discepolo di Paolo, ma è un pagano e non conosce nulla della Legge ebraica.
Questa libertà da qualunque radice religiosa la mette in risalto in alcuni temi fondamentali che emergono dal suo vangelo, tra cui l’universalità della salvezza che, al contrario di Matteo, non è destinata solo al popolo ebraico, ma a tutta l’umanità.
Il concetto di una salvezza universale lo porta ad approfondire le varie problematiche legate alla misericordia divina.
Anche Marco, come Luca, è pagano; il suo è un vangelo soprattutto narrativo, infatti, è il più breve.
Il vangelo di Giovanni è, in ordine di tempo, quello a noi più vicino. È scritto quando Giovanni ha tra gli ottanta e i novanta anni e la comunità ha già fatto un certo cammino, perché sono già passati alcuni decenni dalla morte di Gesù.
Nel vangelo di Giovanni non c’è la cronologia degli eventi, l’autore racconta la vita di Gesù riportando alcuni episodi importanti della sua vita, per presentare, teologicamente, un messaggio ben preciso, ad esempio approfondendo il tema dei “segni” (Giovanni non parla mai di miracoli), di cui Gesù si serve, per trasmetterci il suo insegnamento.
Tra i vari “segni” compiuti da Gesù, Giovanni ne sceglie sette.
I Vangeli sono stati scritti in epoche diverse, per cui, quando Luca scrive, tiene conto di Marco e Matteo e questo si può evincere dall’introduzione del suo vangelo.
I fatti raccontati, anche se scritti in epoche differenti, coincidono (nonostante la prospettiva diversa), per questo motivo sono detti “sinottici”.

dalle catechesi di p. Gianluca Manganelli




LA FRATERNITÀ FRANCESCANA, FORMA DI VITA E DI SANTITÀ. 2° incontro zonale per Formandi e Iniziandi Ofs

Sabato 16 aprile, dalle 16.30 alle 18.30, si è tenuto il secondo, e ultimo, appuntamento dedicato a Formandi e Iniziandi delle fraternità Ofs appartenenti alla Zona di Avellino.
Anche in quest’occasione, come per il primo appuntamento, la zona è stata divisa in due micro-zone, per ridurre al minimo gli spostamenti, cosicché, le fraternità di Lioni, Serino, Volturara, Montella e Salza, hanno converso nel convento di S. Rocco a Lioni, mentre Avellino [Roseto e Cuore Immacolato], Mercogliano, Montefusco, Atripalda, Lacedonia e Zungoli nel convento di S. Egidio di Montefusco.
L’argomento dell’incontro, (di cui in seguito è riportata una breve esposizione), era comune a entrambe le micro-zone ed ha avuto per tema: “La fraternità francescana, forma di vita e di santità”.
I relatori degli incontri sono stati: p. Lino Barelli, per la micro-zona di Lioni e Mena Riccio, per quella di Montefusco.
La partecipazione è stata buona, per la micro-zona di Lioni, dove erano presenti diciassette confratelli provenienti da Serino[7], Montella[1], Volturara[2] e Lioni[7], poco incoraggiante, invece, per quella di Montefusco, dove erano presenti solo sette confratelli della fraternità locale.

Incontro della micro-zona di Lioni
Il tema dell’incontro, cui ha preso parte anche il sottoscritto, delegato di microzona, è stato approfondito da p. Lino Barelli, assistente della nascente fraternità di Lioni che, dopo una breve preghiera, ha iniziato la sua riflessione, introducendo il concetto di “comunione”.
La sorgente del nostro stare insieme – afferma p. Lino – la ritroviamo nella partecipazione, attraverso lo Spirito Santo, alla vita divina e, in particolare, alla Trinità, dove Padre, Figlio e Spirito Santo sono una cosa sola.
In Gesù è presente sia la natura divina, sia quella umana (una donatagli dal Padre, l’altra da Maria) che, grazie all’opera dello Spirito Santo, sono in piena comunione.
Lo Spirito Santo che anima l’unità in Gesù, anima anche la comunione nella Chiesa, dove ciascuno di noi è membro di un unico corpo.
Siamo membra l’una diversa dall’altra, ma siamo uniti nella diversità, come Gesù non è il Padre, né lo Spirito Santo, ma è tutt’uno con loro.
La comunione che esiste tra noi, membra della Chiesa, si fonda sulla comunione tra Gesù e la Chiesa ed è dono di Dio.
In questo modo, anche la nostra fraternità non può essere ridotta a un’associazione culturale, perché è Dio stesso che ci mette insieme, per camminare sulla via della santità.
L’azione di Dio, nella costruzione della fraternità, è sostenuta anche da papa Benedetto XVI che afferma: «Questa fraternità, gli uomini potranno mai ottenerla da soli? La società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli. La ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità. Questa ha origine da una vocazione trascendente di Dio Padre, che ci ha amati per primo, insegnandoci per mezzo del Figlio che cosa sia la carità fraterna». (Caritas in Veritate, 19)
La comunione nasce dal fatto che il Padre ci ha creato dall’inizio: corpo, anima e Grazia. Col peccato abbiamo perso la comunione con la vita divina che, con Gesù, abbiamo avuto l’opportunità di riconquistare.

Infatti, «a quanti l’hanno accolto – afferma l’apostolo Giovanni nel suo prologo – ha dato potere di diventare figli di Dio» (cfr. Gv 1,12), mediante il dono dello Spirito Santo che abbiamo ricevuto grazie al sangue versato da Gesù sulla croce.
Infatti, l’apostolo Paolo, quando scrive agli Efesini, dice: «in Cristo Gesù, voi che allora eravate lontani siete stati avvicinati mediante il sangue di Cristo. Lui, infatti, è la nostra pace; lui che dei due popoli ne ha fatto uno solo e ha abbattuto il muro di separazione abolendo nel suo corpo terreno la causa dell’inimicizia, … per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo facendo la pace; e per riconciliarli tutti e due con Dio in un corpo unico mediante la sua croce, sulla quale fece morire la loro inimicizia. Con la sua venuta ha annunciato la pace a voi che eravate lontani e la pace a quelli che erano vicini; perché per mezzo di lui gli uni e gli altri abbiamo accesso al Padre in un medesimo Spirito» (Ef 2, 13-18).
Sull’esempio di Gesù, anche noi, se vogliamo la comunione tra i popoli, dobbiamo salire sulla croce, come ci insegna il nostro Serafico Padre S. Francesco.
Infatti, in una sua visita su La Verna, papa Giovanni Paolo II affermava che l’Ordine dei frati minori nasceva nel momento in cui Francesco riceveva le sacre stimmate, a imitazione di Gesù che realizzò la comunione tra i popoli, salendo sulla croce.
Francesco, come Gesù [«Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo. Erano tuoi e li hai dati a me» (Gv 17, 6)], considerava un dono i fratelli che il Signore gli aveva dato (cfr. FF. 116) e insegna a noi a fare altrettanto.
Ogni membro della fraternità, quindi, è dono l’uno per l’altro e, quando manca un fratello, essa è meno ricca, perché la fraternità perfetta, come ci insegna Francesco (cfr. FF. 1782), è l’insieme dei doni di ciascuno, nessuno escluso.
Il nostro atteggiamento nei confronti del fratello, quindi, deve essere, innanzitutto, di accoglienza, perché è un dono del Signore e, poiché tale, deve essere valorizzato e aiutato a crescere.
Perché la Fraternità cresca nella comunione, devono esserci compresenza, corresponsabilità e complementarietà, a imitazione delle prime comunità cristiane.
Gli Atti degli Apostoli, nel descrivere i primi cristiani, riportano che «Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli» (At 2,42) che, nella Fraternità, sono rappresentati dal ministro che deve prepararsi a guidarla, nello spirito della Regola.
La Regola è la sintesi del Vangelo [Francesco chiamava la sua Regola “il midollo del Vangelo”] e se i ministri riescono a farne vivere la sostanza, tutta la Fraternità cresce nella comunione a Dio e ai fratelli.
Il fondamento della comunione in Fraternità è la vita sacramentale, perché, prima dell’unità col fratello, è necessario ricercare la comunione con Gesù.
Oltre alla vita sacramentale, la preghiera, operata attraverso lo Spirito Santo, è, per il francescano secolare, la via preferenziale, per vivere in armonia con Gesù, diventando “l’anima del proprio essere e del proprio operare” (Reg. 8).
La preghiera richiede, soprattutto, un atteggiamento di ascolto, perché solo accogliendo la Parola nel nostro cuore, per opera dello Spirito Santo, possiamo stabilire la comunione col Signore e vivere secondo la sua e non la nostra volontà.
Dalla comunione col Padre, poi, ha origine l’armonia col fratello, soprattutto con quello spirituale e, ancor di più con l’ammalato, come ci narrano le fonti: «E ovunque sono e si incontreranno i frati, si mostrino familiari tra loro reciprocamente. E ciascuno manifesti con fiducia all’altro le sue necessità, poiché se la madre nutre e ama il suo figlio carnale, quanto più premurosamente uno deve amare e nutrire il suo fratello spirituale? E se uno di essi cadrà malato, gli altri frati lo devono servire come vorrebbero essere serviti essi stessi». (FF. 91-92)
All’intervento di p. Lino, ha fatto seguito un breve dibattito che ha coinvolto l’intera assemblea, nel quale sono stati messi in risalto i punti salienti della riflessione.
L’incontro si è terminato con la preghiera e con un momento fraterno, organizzato dalla fraternità locale.

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E VENNE SENZA VISTO

L’ anno in cui sua madre lo partorì non era santo. I suoi, gli ebrei, avevano per legge di consacrare un anno ogni sette lasciando in pace il suolo. Il suo anno di nascita non apparteneva al ciclo dei sabbatici, al rituale imposto dal verbo «shabbàt», cessare.
Non nacque in un momento di allegria, ma durante un viaggio, uno spostamento forzato. Il suo popolo amava i pellegrinaggi e si metteva in cammino volentieri per onorare qualche festività, Pasqua o altre, in Gerusalemme. Ma lui non nacque in un pellegrinaggio. I suoi si spostavano per un dovere triste e insidioso: obbedire a un censimento.
Oggi noi siamo abituati a essere contati, iscritti e arruolati in elenchi, a disporre di molti contrassegni numerici. Alcuni di noi stimano giusto, così per scrupolo di conoscenza, rilevare anche le impronte digitali di donne e uomini arrivati a noi da fughe senza fine. Perciò da moderni non possiamo intendere la paura degli ebrei di allora, la rovina che avevano già sperimentato quando un loro re aveva osato contare il popolo presso il quale Dio aveva piantato prima una tenda poi un tempio. Quel re ottenne cifre sbagliate o subì il castigo di un’ epidemia. Gli ebrei erano dunque già stati messi in guardia contro l’ arroganza di dare un numero agli esseri umani.
Quando nacque, il suo popolo era suddito della potenza militare romana e doveva perciò sottoporsi alla conta imposta dai conquistatori, come capi di bestiame. Non venivano marchiati, questo no, per sigillo sopra di loro bastava l’ aquila romana conficcata sui loro luoghi sacri.
I suoi genitori erano in viaggio verso Sud, andavano in Giudea a tappe forzate. Non erano ammesse eccezioni, anche una donna assai avanti nella gravidanza doveva raggiungere il suo luogo di conta, incolonnata insieme a tutti gli altri. Così partirono da Nazareth in due e a Betlemme diventarono tre. Era nato, sua madre aveva avuto le contrazioni proprio lì, i suoi muscoli espulsori obbedirono a un luogo predisposto e prescritto: a Betlemme di Giuda è tenuto a nascere il Messia, il più aspettato intruso del mondo.
Non era sabbatico quell’ anno, non di pellegrinaggio era il viaggio dei suoi genitori. Nacque sotto la coda e l’auspicio di una cometa, non un segno di buona fortuna secondo le credenze e le superstizioni antiche. Oggi sui presepi si appunta a medaglia la stellina con uno strascico d’ oro a conforto della notte, ma allora la cometa fu uno spietato riflettore che denunciava luogo e avvenimento. Scrive Matteo che tre stranieri vennero da un altro Oriente per registrare il prodigio già annunciato dai loro calcoli, portando offerte solenni degne di una nascita di re. Il re in carica, Erode, se ne risentì, ebbe timore di un’ usurpazione. Comandò una strage di bambini, tra due anni e zero, in Betlemme e in tutto il territorio circostante. Fu una misura estrema e inefficace: è dimostrato, da Mosè in poi, che ne scampa sempre uno, quello giusto, quello che è un riassunto di tutti gli altri uccisi. Chi si trova a essere resto di innumerevoli assenti, assume e contiene le energie di quelle vite impedite. Fare miracoli allora è solo un piccolo risarcimento.
Un angelo avvertì in sogno suo padre dell’ agguato, così fuggirono di notte senza aspettare l’ alba e questo spiega perché Giuseppe non avvertì nessuno del sogno e del pericolo. Non spiega perché l’ angelo non visitò anche qualche altro padre: aveva l’ autonomia di volo di un sogno solamente? E perché un angelo solo? È vano bussare a spiegazioni, se non sono state scritte. Doveva svolgersi uno dei molti massacri di bambini. Oggi pure ne avvengono, tra gli scugnizzi di strada dell’ America del Sud, tra le neonate delle campagne cinesi, tra i piccoli rapiti da orchi e da chirurghi clandestini che espiantano e trapiantano organi. Oggi siamo più tranquilli: sappiamo perché avvengono. Ma nel racconto di Matteo si agita in un lettore il dubbio sull’ onnipotenza di chi non mandò a salvare nessun bambino oltre quel suo Messia.
Così nacque e fu vivo per il solo prodigio di cui non fu lui stesso autore. Per tutta la vita, poca, cercò di pareggiare il conto di quell’ ingiustizia, fino a farsi appiccare sopra l’ osceno patibolo romano che esponeva la morte in alto, in vista, a manifesto. Non avrebbero mai potuto immaginare, quei conquistatori, che razza di icona stavano montando sopra il Golgota. Avrebbero preteso l’ esclusiva dei diritti di riproduzione.
Per tutta la vita, poca, fu abitato da una folla di bambini mancati, dal dolore delle loro madri. Così poté sopportare quello della sua ai piedi della croce.
Molti dei suoi prodigi erano scherzi di bambini che giocavano a fare i dottori, a salvare la natura curando d’ improvviso lebbre e storpiature. Erano miracoli, ma non colossali, non inceppò la macchina del cielo come Giosuè che fermò il sole in Gabaòn e la luna sulla valle di Aialòn. Non aprì le acque come Mosè, però ci camminò sopra senza bagnarsi. Non creò il frutto della vite, ma seppe provvedere, in una festa, a vendemmiare vino dall’ acqua. Non creò il sole, il fuoco, né luna, né stelle già create, ma diede vista ai ciechi e questo è un modo di inventare luce. Non ebbe figli, non procurò una sua discendenza, ma litigò con sua sorella Morte e le strappò di mano un corpo già in sepolcro, riportandolo indietro a rivivere, certo, ma anche a rimorire.
Fu battezzato in acqua dolce, amò la pesca, frequentò pescatori, ne riempì le reti, placò le ondate di una tempesta sul Lago di Tiberiade, che i suoi chiamano Mare di Cetra. Delle Scritture Sacre preferì Isaia; di Davide gustò più i Salmi che le imprese. Discendeva da lui, così vuole la legge del Messia. Nella sua linea di antenati c’ era una genitrice cananea, Tamàr, e una moabìta, Rut, perché il Messia è meticcio, non un purosangue.
Chiese all’ offeso di esporre l’ altra guancia, mettendo l’ offensore al rischio del ridicolo, ma pure stabilendo un termine alla prova: in numero di due, non più, sono le guance. Non scrisse, non dettò, le sue parole facevano il viaggio delle api sopra i petali aperti delle orecchie. Salvò una donna dalla condanna di lapidazione chiedendo ai suoi accusatori che il primo di loro, se puro da peccati, si facesse avanti con la prima pietra. Sapeva che gli uomini tirano volentieri le seconde. Diverse donne lo seguivano di luogo in luogo alla pari degli apostoli. Non pretese astinenze, il celibato venne dopo, a chiese fatte.
Sudò sangue, morì con tutto il corpo resistendo alla morte con nervi, fiato, febbre, piaghe, mosche intorno all’ agonia. Resuscitò per intero, carne, ossa e promessa di essere solo il primo dei destinati alla resurrezione.
Nascesse oggi, sarebbe in una barca di immigrati, gettato a mare insieme alla madre in vista delle coste di Puglia o di Calabria. Forse continua a nascere così, senza sopravvivere, e il venticinque dicembre è solo il più celebre dei suoi compleanni. Dopo di lui il tempo si è ridotto a un frattempo, a una parentesi di veglia tra la sua morte e la sua rivenuta. Dopo di lui nessuno è residente, ma tutti ospiti in attesa di un visto. Siamo noi, pasciuti di Occidente, la colonna di stranieri in fila fuori all’ ultimo sportello.

Erri De Luca




IL GESÙ’ STORICO SECONDO RATZINGER

di Vito Mancuso
in “la Repubblica” dell’11 marzo 2011

Nel primo libro su Gesù pubblicato nel 2007 Benedetto XVI chiedeva ai lettori quell’anticipo di simpatia senza il quale non c’è alcuna comprensione». Aveva ragione, perché occorre essere ben disposti verso l’autore di un libro o di una musica, come verso ogni persona che si incontra, per poter adeguatamente comprendere. È necessario però capire bene il senso della simpatia richiesta dal pontefice: nell’ambito teologico in cui si colloca non si tratta di un semplice sentimento, il quale peraltro c’è o non c’è perché nasce solo spontaneamente. Simpatia va intesa qui nel senso originario di patire-con, coltivando un comune pathos ideale. La domanda quindi è: qual è il pathos che ha mosso Benedetto XVI a pubblicare due volumi su Gesù di oltre 800 pagine complessive, di cui oggi arriva in libreria il secondo che riguarda, recita il sottotitolo, il periodo «dall’ingresso in  Gerusalemme fino alla risurrezione»? La preoccupazione del Papa concerne il problema decisivo del cristianesimo odierno, a confronto del quale i cosiddetti “valori non negoziabili” (scuola, vita, famiglia) sono acqua fresca: cioè il legame tra il Gesù della storia reale e il Cristo professato dalla fede. Senza scuole cattoliche il cristianesimo va avanti, senza leggi protettive sulla famiglia e la bioetica lo stesso, anzi non è detto che una dieta al riguardo non gli possa persino giovare. Ma senza il legame organico tra il fatto storico Gesù (Yeshua) e quello che di lui la fede confessa (che è il Cristo) tutto crolla, e alla Basilica di San Pietro non resterebbe che trasformarsi in un museo. Nella fondamentale premessa del primo volume, una specie di piccolo discorso sul metodo, il Papa si chiede “che significato può avere la fede in Gesù il Cristo (…) se poi l’uomo Gesù era così diverso da come lo presentano gli evangelisti e da come, partendo dai Vangeli, lo annuncia la Chiesa”, domanda retorica la cui unica risposta è “nessun significato” e da cui appare quanto sia decisiva la connessione storia-fede. Chiaro l’obiettivo, altrettanto lo è il metodo: «Io ho fiducia nei Vangeli (…) ho voluto fare il tentativo di presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale, come il Gesù storico in senso vero e proprio»; concetto ribadito nella premessa del nuovo volume dove l’autore scrive di aver voluto «giungere alla certezza della figura veramente storica di Gesù» a partire da «uno sguardo sul Gesù dei Vangeli». Il Papa fa così intendere che mentre l’esegesi biblica contemporanea perlopiù divide il Gesù storico reale dal Cristo dei Vangeli e della Chiesa, egli li identifica mostrando che la costruzione cristiana iniziata dagli evangelisti e proseguita dai concili è ben salda perché poggia su questa esatta equazione: narrazione evangelica = storia reale. Questo è l’intento programmatico su cui Benedetto XVI chiede la sua “simpatia”.
Peccato per lui però che in questo nuovo volume egli stesso sia stato costretto a trasformare il segno uguale dell’equazione programmatica nel suo contrario: narrazione evangelica ? storia reale. Il nodo è la morte di Gesù, precisamente il ruolo al riguardo del popolo ebraico, questione che travalica i confini dell’esegesi per arrivare nel campo della storia con le accuse di “deicidio” e le immani  tragedie che ne sono conseguite. Chiedendosi “chi ha insistito per la condanna a morte di Gesù”, il Papa prende atto che “nelle risposte dei Vangeli vi sono differenze”: per Giovanni fu l’aristocrazia del tempio, per Marco i sostenitori di Barabba, per Matteo “tutto il popolo” (su Luca il Papa non si pronuncia, ma Luca è da assimilare a Matteo). E a questo punto presenta la sorpresa: dicendo “tutto il popolo”, come si legge in 27,25, “Matteo sicuramente non esprime un fatto storico: come avrebbe potuto essere presente in tale momento tutto il popolo e chiedere la morte di Gesù?”. Sono parole veritiere e coraggiose (per le quali sarebbe stato bello che il Papa avesse fatto il nome dello storico ebreo Jules Isaac e del suo libro capitale del 1948 Gesù e Israele, purtroppo ignorato), ma che smentiscono decisamente l’equazione programmatica che è il principale obiettivo di tutta l’impresa papale, cioè l’identità tra narrazione evangelica e storia reale.
Alle prese con uno dei nodi più delicati della storia evangelica, il Papa è stato costretto a prendere atto che i quattro evangelisti hanno tre tesi diverse, e che una di esse «sicuramente non esprime un fatto storico». Se questa incertezza vale per uno degli eventi centrali della vita di Gesù, a maggior ragione per altri. Ne viene quello che la più seria esegesi biblica storico-critica insegna da secoli, cioè la differenza tra narrazione evangelica e storia reale.
Significa allora che tutta la costruzione cristiana crolla? No di certo, significa piuttosto che essa è, fin dalle sue origini, un’impresa di libertà. Non è data nessuna statica verità oggettiva che si impone alla mente e che occorre solo riconoscere, non c’è alcuna “res” al cui cospetto poter presentare solo un’obbediente “adaequatio” del proprio intelletto, non c’è nulla nel mondo degli uomini che non richieda l’esercizio della creativa responsabilità personale, nulla che non solleciti la libertà del soggetto. La libertà di ciascun evangelista nel narrare la figura di Gesù è il simbolo della libertà cui è chiamato ogni cristiano nel viverne il messaggio. Se persino di fronte ai santi Vangeli la libertà del soggetto è chiamata a intervenire discernendo ciò che è vero da ciò che “sicuramente non esprime un fatto storico”, ne viene che non esiste nessun ambito della vita di fede dove la libertà di coscienza non debba avere il primato (compresa la libertà di non prendere così tanto sul serio l’etichetta “valori non-negoziabili” apposta dal Magistero alla triade scuola-famiglia-vita).
Affrontare seriamente la figura di Gesù, come ha fatto Benedetto XVI in questo suo nuovo libro, significa essere sempre rimandati alla dinamica impegnativa e responsabilizzante della libertà.