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Francesco d’Assisi. Giullare, non trovatore [6^ parte]

Dopo aver descritto le principali caratteristiche del mercante medievale è opportuno soffermarsi sulla figura del cavaliere, non senza aver prima ringraziato quanti ci seguono ormai con costanza e attenzione.

Nell’Occidente europeo la cavalleria sviluppa caratteristiche differenti da regione a regione ma è comunque possibile individuarne alcuni caratteri comuni.

In una prima fase, nell’Alto Medioevo e in particolare nel periodo carolingio, la cavalleria è alla base dell’organizzazione dell’esercito feudale: il feudatario concede l’investitura al cavaliere che in cambio gli giura fedeltà e mette a sua disposizione il suo valore di combattente. Lo scopo prevalente è pertanto essenzialmente militare.

Successivamente la cavalleria assume una connotazione sociale: con la Constitutio de feudis di Corrado II del 1037 la trasmissione del feudo diviene ereditaria e poiché la successione avviene a favore del primo figlio maschio – il cosiddetto diritto di maggiorasco – ai cadetti rimane la carriera ecclesiastica o quella del cavaliere. Nel secondo caso il giovane rampollo entra a servizio di un feudatario del quale diventa dapprima scudiero; successivamente riceve l’investitura a cavaliere o dallo stesso feudatario o da un cavaliere più anziano. Anche se non mancano casi di gruppi di cavalieri che si abbandonano al brigantaggio, approfittando della propria condizione di uomini armati per depredare e saccheggiare, generalmente i cavalieri si spendono con coraggio e generosità per proteggere i deboli e per combattere l’ingiustizia. Gradualmente sorge in essi il bisogno di istituzionalizzare, di codificare la loro condizione con precise formalità e rituali al punto che il cavalierato giunge a costituirsi come un vero e proprio ordo, termine utilizzato nell’antichità romana per indicare una partizione della società sia di tipo laico che ecclesiastico; il cavaliere non è tale solo perché possiede armi e cavallo ma perché ha uno status ben definito in base al quale si assoggetta a delle regole, assume dei doveri. Tuttavia, sebbene sia costituita prevalentemente da cadetti di nobili famiglie, la cavalleria non coincide esattamente con l’aristocrazia feudale: vi sono casi di uomini di umili origini che i feudatari promuovono al rango di cavalieri per ricompensarne la fedeltà o per premiarne il valore sul campo di battaglia; di contro, vi sono nobili che non giungono mai a essere cavalieri. È questo un tipico esempio di come nel Medioevo la mobilità sociale, per quanto limitata, non fosse del tutto sconosciuta.

Una ulteriore trasformazione della cavalleria è provocata dalla Chiesa che conferisce a tale istituzione un’impronta sacra. Carica di significati rituali e simbolici è la cerimonia dell’investitura nella quale i connotati religiosi sono così marcati da configurarsi come un vero e proprio sacramento: si parla infatti di «ordinazione cavalleresca». La sera precedente la cerimonia, il candidato digiuna, si confessa e passa la notte in orazione durante la cosiddetta «veglia delle armi». La cerimonia dell’investitura si inserisce nella liturgia eucaristica; il vescovo del luogo interroga il candidato in merito alle sue disposizioni nell’assumere gli obblighi che la sua condizione di cavaliere gli impone e benedice le armi che di lì a poco gli saranno consegnate. Ricevuto il giuramento di obbedienza il vescovo consegna pezzo per pezzo l’armatura al neo cavaliere che con la spada sguainata si impegna a versare il proprio sangue – e quello altrui – per difendere la fede e la Chiesa; in cambio la Chiesa gli assicura perdono e indulgenze. La Chiesa utilizza il nuovo corso della cavalleria per i propri fini politici e in particolare per le Crociate e a partire dal XII secolo nascono anche ordini religiosi-militari o monastico-guerrieri, tra cui l’Ordine degli Ospedalieri, l’Ordine di Malta e l’Ordine dei Templari.

L’importanza della cavalleria nella società medievale è testimoniata anche dalla presenza di uno specifico genere artistico e letterario, al quale sono legate le prime manifestazioni delle lingue volgari o neolatine. Si suole distinguere questa forma artistica, diffusa dai trovatori presso le principali corti europee, in due segmenti. Il primo è quello che nasce nella Francia settentrionale nell’XI secolo, si sviluppa in lingua d’oil e tratta argomenti epico-cavallereschi. Viene distinto un ciclo carolingio (che celebra le gesta di Carlo Magno e dei suoi più fedeli paladini, quali il paladino Rolando) e un ciclo bretone (che sviluppa le leggende celtiche ambientate nelle isole britanniche legate alle gesta di re Artù, i Cavalieri della Tavola Rotonda, Lancillotto, Tristano e Isotta, ecc.). Vengono esaltati i valori tipici della nobiltà e della cavalleria come la fedeltà e il coraggio, valori per i quali nobili cavalieri sono disposti a dare la vita. Il modello lirico più diffuso è quello della canzone, la chanson, e quindi la chanson de geste. Particolarmente nota è la Chanson de Roland nella quale viene esaltata la figura di Rolando, l’eroe cristiano che si sacrifica per la fede. Il secondo segmento nasce invece nella Francia meridionale, particolarmente in Provenza, nel XII e XIII secolo, e si sviluppa in lingua d’oc; tratta prevalentemente argomenti amorosi, sublimando l’ideale del cosiddetto «amor cortese». Si tratta di componimenti «cortesi-cavallereschi» nei quali il cavaliere, sempre pronto ad affrontare avventure pericolose per la sua dama fino all’estremo sacrificio, è sinonimo di combattente coraggioso ma anche di amante passionale e spregiudicato.

Non stupisce quindi il potente fascino che il modello di vita cavalleresco era in grado di esercitare sui giovani del tempo: per i cadetti di famiglie nobili rappresentava un mezzo per rientrare a pieno titolo nell’ambiente aristocratico; per i giovani appartenenti alle classi subalterne ed emergenti, quale fu Francesco d’Assisi, una opportunità di ascesa sociale.

Pace e bene

Pietro Urciuoli





Francesco d’Assisi. Giullare, non trovatore [4^ parte]

Dopo il post sulle Fonti Francescane – forse lungo e noioso ma necessario – cominciamo il nostro percorso di approfondimento sulla figura di Francesco d’Assisi partendo dai suoi anni giovanili. La descrizione di questo periodo della sua vita è contenuta nella Vita prima di Tommaso da Celano, nella Leggenda maggiore di Bonaventura da Bagnoregio e nella Leggenda dei tre compagni. Analizziamoli in ordine; costituirà, tra l’altro, una applicazione pratica di quanto si è detto nel post precedente circa la diversa prospettiva delle fonti documentali su Francesco.

Vita prima di Tommaso da Celano (cap. 1, FF 318-321)
Viveva ad Assisi, nella valle spoletana, un uomo di nome Francesco. Dai genitori ricevette fin dalla infanzia una cattiva educazione, ispirata alle vanità del mondo. Imitando i loro esempi, egli stesso divenne ancor più leggero e vanitoso.
Questa pessima mentalità, infatti, si è diffusa tra coloro che si dicono cristiani: si è fatto strada il sistema funesto, quasi fosse una legge, di educare i propri figli fin dalla culla con eccessiva tolleranza e dissolutezza. Ancora fanciulli, appena cominciano a balbettare qualche sillaba, si insegnano loro con gesti e parole cose vergognose e deprecabili. Sopraggiunto il tempo dello svezzamento, sono spinti non solo a dire, ma anche a fare ciò che è indecente. Nessuno di loro, a quella età, osa comportarsi onestamente, per timore di essere severamente castigato. Ben a ragione, pertanto, afferma un poeta pagano: «Essendo cresciuti tra i cattivi esempi dei nostri genitori, tutti i mali ci accompagnano dalla fanciullezza». E si tratta di una testimonianza vera: quanto più i desideri dei parenti sono dannosi ai figli, tanto più essi li seguono volentieri!

Raggiunta un’età un po’ più matura, istintivamente passano a misfatti peggiori, perché da una radice guasta cresce un albero difettoso, e ciò che una volta è degenerato, a stento si può ricondurre al suo giusto stato. E quando varcano la soglia dell’adolescenza, che cosa pensi che diventino? Allora rompono i freni di ogni norma: poiché è permesso fare tutto quello che piace, si abbandonano senza riguardo ad una vita depravata. Facendosi così volutamente schiavi del peccato, trasformano le loro membra in strumenti di iniquità; cancellano in se stessi, nella condotta e nei costumi, ogni segno di fede cristiana. Di cristiano si vantano solo del nome. Spesso gli sventurati millantano colpe peggiori di quelle realmente commesse: hanno paura di essere tanto più derisi quanto più si conservano puri.

Ecco i tristi insegnamenti a cui fu iniziato quest’uomo, che noi oggi veneriamo come santo, e che veramente è santo! Sciupò miseramente il tempo, dall’infanzia fin quasi al suo venticinquesimo anno. Anzi, precedendo in queste vanità tutti i suoi coetanei, si era fatto promotore di mali e di stoltezze. Oggetto di meraviglia per tutti, cercava di eccellere sugli altri ovunque e con smisurata ambizione: nei giuochi, nelle raffinatezze, nei bei motti, nei canti, nelle vesti sfarzose e morbide. E veramente era molto ricco ma non avaro, anzi prodigo; non avido di denaro, ma dissipatore; mercante avveduto, ma munificentissimo per vanagloria; di più, era molto cortese, accondiscendente e affabile, sebbene a suo svantaggio. Appunto per questi motivi, molti, votati all’iniquità e cattivi istigatori, si schieravano con lui. Così, circondato da facinorosi, avanzava altero e generoso per le piazze di Babilonia, fino a quando Dio, nella sua bontà, posando il suo sguardo su di lui, non allontanò da lui la sua ira e non mise in bocca al misero il freno della sua lode, perché non perisse del tutto.

La mano del Signore si posò su di lui e la destra dell’Altissimo lo trasformò, perché, per suo mezzo, i peccatori ritrovassero la speranza di rivivere alla grazia, e restasse per tutti un esempio di conversione a Dio.

Leggenda maggiore di san Bonaventura (cap. 1, FF 1027-1029)
Vi fu, nella città di Assisi, un uomo di nome Francesco, la cui memoria è in benedizione, perché Dio, nella sua bontà, lo prevenne con benedizioni straordinarie e lo sottrasse, nella sua clemenza, ai pericoli della vita presente e, nella sua generosità, lo colmò con i doni della grazia celeste.
Nell’età giovanile, crebbe tra le vanità dei vani figli degli uomini. Dopo un’istruzione sommaria, venne destinato alla lucrosa attività del commercio. Assistito e protetto dall’alto, benché vivesse tra giovani lascivi e fosse incline ai piaceri, non seguì gli istinti sfrenati dei sensi e, benché vivesse tra avari mercanti e fosse intento ai guadagni, non ripose la sua speranza nel denaro e nei tesori. Dio, infatti, aveva infuso nell’animo del giovane Francesco un sentimento di generosa compassione, che, crescendo con lui dall’infanzia, gli aveva riempito il cuore di bontà, tanto che già allora, ascoltatore non sordo del Vangelo, si propose di dare a chiunque gli chiedesse, soprattutto se chiedeva per amore di Dio. Una volta, tutto indaffarato nel negozio, mandò via a mani vuote contro le sue abitudini, un povero che gli chiedeva l’elemosina per amor di Dio. Ma subito, rientrato in se stesso, gli corse dietro, gli diede una generosa elemosina e promise al Signore Iddio che, d’allora in poi, quando ne aveva la possibilità, non avrebbe mai detto di no a chi gli avesse chiesto per amor di Dio.

E osservò questo proposito fino alla morte, con pietà instancabile, meritandosi di crescere abbondantemente nell’amore di Dio e nella grazia. Diceva, infatti, più tardi, quando si era ormai perfettamente rivestito dei sentimenti di Cristo, che, già quando viveva da secolare, difficilmente riusciva a sentir nominare l’amore di Dio, senza provare un intimo turbamento. La dolce mansuetudine unita alla raffinatezza dei costumi; la pazienza e l’affabilità più che umane, la larghezza nel donare, superiore alle sue disponibilità che si vedevano fiorire in quell’adolescente come indizi sicuri di un’indole buona, sembravano far presagire che la benedizione divina si sarebbe riversata su di lui ancora più copiosamente nell’avvenire. Un uomo di Assisi, molto semplice, certo per ispirazione divina, ogni volta che incontrava Francesco per le strade della città, si toglieva il mantello e lo stendeva ai suoi piedi, proclamando che Francesco era degno di ogni venerazione, perché di lì a poco avrebbe compiuto grandi cose, per cui sarebbe stato onorato e glorificato da tutti i cristiani.

Leggenda dei tre compagni (cap. 1, FF 1395-1397)
Francesco fu oriundo di Assisi, nella valle di Spoleto. Nacque durante un’assenza del padre, e la madre gli mise nome Giovanni; ma, tornato il padre dal suo viaggio in Francia, cominciò a chiamare Francesco il suo figlio.
Arrivato alla giovinezza, vivido com’era di intelligenza, prese a esercitare la professione paterna, il commercio di stoffe, ma con stile completamente diverso. Francesco era tanto più allegro e generoso, gli piaceva godersela e cantare, andando a zonzo per Assisi giorno e notte con una brigata di amici, spendendo in festini e divertimenti tutto il denaro che guadagnava o di cui poteva impossessarsi. A più riprese, i genitori lo rimbeccavano per il suo esagerato scialare, quasi fosse rampollo di un gran principe anziché figlio di commercianti. Ma siccome in casa erano ricchi e lo amavano teneramente, lasciavano correre, non volendolo contristare per quelle ragazzate. La madre, quando sentiva i vicini parlare della prodigalità del giovane, rispondeva: “Che ne pensate del mio ragazzo? Sarà un figlio di Dio, per sua grazia”.

Non era spendaccione soltanto in pranzi e divertimenti, ma passava ogni limite anche nel vestirsi. Si faceva confezionare abiti più sontuosi che alla sua condizione sociale non si convenisse e, nella ricerca dell’originalità, arrivava a cucire insieme nello stesso indumento stoffe preziose e panni grossolani. Per indole, era gentile nel comportamento e nel conversare. E seguendo un proposito nato da convinzione, a nessuno rivolgeva parole ingiuriose o sporche; anzi, pur essendo un ragazzo brillante e dissipato, era deciso a non rispondere a chi attaccava discorsi lascivi. Così la fama di lui si era diffusa in quasi tutta la zona, e molti che lo conoscevano, predicevano che avrebbe compiuto qualcosa di grande.

Queste virtù spontanee furono come gradini che lo elevarono fino a dire a se stesso: “Tu sei generoso e cortese verso persone da cui non ricevi niente, se non una effimera vuota simpatia; ebbene, è giusto che sia altrettanto generoso e gentile con i poveri, per amore di Dio, che contraccambia tanto largamente”. Da quel giorno incontrava volentieri i poveri e distribuiva loro elemosine in abbondanza, infatti benché fosse commerciante, aveva il debole di sperperare le ricchezze. Un giorno che stava nel suo negozio, tutto intento a vendere delle stoffe, si fece avanti un povero a chiedergli la elemosina per amore di Dio Preso dalla cupidigia del guadagno e dalla preoccupazione di concludere l’affare, egli ricusò l’elemosina al mendicante, che se ne uscì. Subito però come folgorato dalla grazia divina, rinfacciò a se stesso quel gesto villano, pensando: “Se quel povero ti avesse domandato un aiuto a nome di un grande conte o barone, lo avresti di sicuro accontentato. A maggior ragione avresti dovuto farlo per riguardo al re dei re e al Signore di tutti”.

Dopo questa esperienza, prese risoluzione in cuor suo di non negare mai più nulla di quanto gli venisse domandato in nome di un Signore così grande.

Le tre descrizioni muovono chiaramente da presupposti diversi, così come diversi risultano i ritratti che ci forniscono di Francesco: Tommaso da Celano ce lo presenta come un depravato destinato a compiere chissà quali nefandezze se Dio in persona non lo avesse preso per i capelli; Bonaventura prende atto della sua inclinazione al peccato ma la inserisce in un grandioso disegno della provvidenza divina; i tre compagni ce lo descrivono come una sorta stravagante bamboccione ma animato, in fondo, da buoni sentimenti.

Quale è il vero Francesco?
Ai posteri l’ardua sentenza, verrebbe da dire, se non fosse che i posteri siamo noi.

Pace e bene

Pietro Urciuoli




Francesco d’Assisi. Giullare, non trovatore [3^ parte]

Il presente post ha per oggetto le Fonti Francescane. Com’è noto trattasi di una selezione di testi del primo secolo di storia francescana pubblicata per la prima volta nel 1977 dalle EFR. Il volume si divide in due parti, la prima relativa a san Francesco, la seconda a santa Chiara d’Assisi; le riflessioni che seguono si limitano alla prima parte.Scritti di Francesco d’Assisi
Gli scritti di Francesco non pongono eccessivi problemi di autenticità, anche se Francesco non è presente in essi in egual misura. Gli autografi di cui disponiamo sono due: la Benedizione a frate Leone con le Lodi di Dio altissimo (di incerta datazione) e la Lettera a frate Leone (1223/1224), conservate rispettivamente ad Assisi e a Spoleto. Altri testi, invece, non sono stati scritti materialmente da Francesco ma sono stati da lui dettati a un frate che ha svolto mansioni di mero segretario: è il caso delle Lettere circolari (A tutti i chierici, Al capitolo generale e a tutti i frati, A tutti i fedeli, Ai reggitori dei popoli) che coprono un arco temporale che va dal 1220 agli ultimi anni della sua vita quando ormai si muoveva con difficoltà e del famosissimo Testamento (1226). Altrove il materiale estensore del testo ha svolto un ruolo più importante: è il caso delle Ammonizioni (1216/1221); le idee sono di Francesco, probabilmente esposte oralmente in varie occasioni, ma il testo vero e proprio è da attribuire al redattore che tali idee ha raccolto e organizzato. Ancora diverso, infine, è il caso delle due Regole (1221 e 1223) che sono frutto del lavoro collettivo di un gruppo di frati; Francesco faceva parte del gruppo ma la sua voce non era sempre preponderante.
Biografie di Francesco d’Assisi
In questo caso la questione si fa molto più controversa. Il dato da cui bisogna partire è il seguente. Alla morte di Francesco nel 1226 era ormai netta nell’Ordine dei Minori la contrapposizione tra una maggioranza, indicata come i frati della comunità, che premeva per una stabilizzazione e istituzionalizzazione dell’Ordine, e una minoranza, i cosiddetti spirituali, che aspiravano a un ritorno alle primitive origini del movimento francescano. All’interno di questa conflittualità si inserivano altre tensioni più o meno sotterranee: ad esempio, tra frati italiani e frati stranieri, tra frati laici e frati chierici. Questi conflitti interni durarono circa un secolo e si intrecciarono con altre vicende non meno dolorose che videro l’Ordine coinvolto in aspri contrasti con le istituzioni ecclesiastiche: gli anni dal 1252 al 1257 furono contrassegnati dallo scontro con il clero secolare dell’Università di Parigi; gli anni dal 1322 al 1328 dal conflitto con il papa Giovanni XXII riguardo alla povertà di Cristo e degli apostoli. Pertanto, l’arco temporale in cui si collocano le biografie di Francesco inserite nelle Fonti Francescane coincide con quello che è sicuramente il periodo più tormentato della storia dell’Ordine dei Minori; un corretto approccio a tali testi non può non tener conto di questo fattore.

La prima biografia di cui disponiamo è la Vita prima scritta da Tommaso da Celano nel 1229 su incarico di Gregorio IX; si trattava di offrire all’intera cristianità il volto di un santo segnato dal prodigio delle stimmate e canonizzato l’anno precedente. Gregorio IX scelse Tommaso sia per le sue note capacità letterarie sia perché aveva conosciuto Francesco personalmente, pur non essendo stato tra i suoi primissimi compagni; era entrato nell’Ordine nel 1215, forse accolto da Francesco stesso. Il Celano per adempiere al compito affidatogli dal papa attinse certamente ai suoi personali ricordi e a quelli dei primi frati nonché agli atti del processo di canonizzazione. Il testo è diviso in tre parti: la prima riguarda la giovinezza di Francesco e i primissimi anni della fraternitas, la seconda gli ultimi due anni della sua vita e il suo transito, la terza la sua canonizzazione. Il testo è ricco di luci e ombre: per un verso è debitore della tradizione agiografica del tempo – si legga la tenebrosa descrizione della giovinezza di Francesco –, per un altro se ne distacca rivelando tratti di sorprendente modernità – notevole è l’analisi dell’evoluzione psicologica di Francesco durante il suo cammino di conversione. In ogni caso, indipendentemente da valutazioni di carattere letterario, la Vita prima costituisce una fonte insostituibile per la conoscenza di Francesco sia perché è la prima in ordine di tempo sia perché è basata su fonti ed esperienze dirette.
L’opera di Tommaso non riscosse unanimi consensi: scontentava gli assisani di cui evidenziava la durezza di cuore; il ceto mercantile di cui deplorava la ricerca di guadagno; umiliava i genitori di Francesco, ritraendoli come genitori insensibili e preoccupati solo del loro ruolo sociale; l’Ordine stesso, del quale non evidenziava lo sviluppo prodigioso; e scontentava anche il papa perché non esaltava adeguatamente una Chiesa che aveva canonizzato il santo a tempo di record. Infine, anche dal punto di vista della ricostruzione biografica si presentava piuttosto lacunosa. E così il ministro generale Crescenzo da Jesi nel Capitolo di Genova del 1244 impegnò Tommaso in una nuova biografia e chiese a tutti i frati di inviare eventuali ricordi e testimonianze scritte. Questi documenti giunsero a Crescenzo nel 1246 accompagnati da una lettera a firma di Leone, Angelo e Rufino – la cosiddetta Lettera di Greccio del 11 agosto 1246 – che si fecero in un certo senso garanti del materiale. Tommaso nel 1248 licenziò la cosiddetta Vita seconda che si componeva di due parti di diversa lunghezza: la prima, di 17 capitoli, completava il racconto della biografia di Francesco fatto nella Vita prima; la seconda, di 166 capitoli, era concepita come una sorta di florilegio delle virtù del santo. Normalmente in questi casi le cartelle preparatorie, le minute e le bozze vengono eliminate una volta terminata l’opera; in questo caso non fu così e molti documenti inviati a Crescenzo rimasero in circolazione. È questa una vicenda di importanza fondamentale in quanto tali documenti furono utilizzati negli anni successivi per l’elaborazione di altri testi.
Anche questa biografia non riuscì a soddisfare tutti i frati – divisi, come si è detto, in varie fazioni – ma soprattutto essa si dimostrava carente in un punto: il Capitolo di Genova del 1244 aveva stabilito che la nuova biografia avrebbe dovuto anche alimentare la venerazione di san Francesco offrendo il racconto dei miracoli che aveva operato e che continuava a operare e questo aspetto non era stato per nulla preso in considerazione dal Celano. E così il ministro generale Giovanni da Parma commissionò a Tommaso una terza opera. Tommaso si rimise al lavoro e nel 1252 scrisse il Trattato dei miracoli.
Col passare degli anni l’Ordine era cresciuto enormemente in numero e in prestigio e si sentì il bisogno di una biografia che presentasse ai frati ormai sparsi in tutta Europa non tanto il frate Francesco quanto il santo Francesco, l’alter Christus, l’uomo insignito delle sacre stimmate che Dio aveva inviato per sostenere la sua Chiesa. Il Capitolo di Narbona del 1260 affidò l’incarico di redigere una nuova biografia a Bonaventura da Bagnoregio, allora ministro generale dell’Ordine nonché illustre teologo. Bonaventura non aveva conosciuto né Francesco né i primi compagni; nato intorno al 1221 si era recato a studiare a Parigi nel 1235 – dove era rimasto fino al 1257 – e nel 1243 era entrato nell’Ordine; non poteva quindi basarsi su fonti dirette o su ricordi personali. Per scrivere la sua biografia attinse essenzialmente alla trilogia del Celano che rielaborò in chiave teologica utilizzando le sue eccelse doti di filosofo e di teologo; nacquero così nel 1262 la Leggenda maggiore e un suo sunto a uso liturgico, la Leggenda minore. La Leggenda maggiore piacque tanto che il Capitolo di Parigi del 1266 dispose la distruzione di tutte le precedenti biografie di Francesco in modo che non vi potesse essere confusione sulla corretta interpretazione della sua figura e delle sue volontà. Così la Legenda nova (il blocco di Bonaventura) diventava la biografia ufficiale di Francesco e andava a sostituire quella che assunse il nome di Legenda antiqua (il blocco del Celano).
La drastica decisione del Capitolo di Parigi incontrò l’ostilità di molti frati e in special modo degli spirituali, contrari alla piega clericale che l’Ordine ormai aveva assunto. Essi cercarono di recuperare tutto il materiale scampato alla distruzione – in particolare ciò che era rimasto delle bozze inviate a Crescenzo da Jesi nel 1246 – e lo rielaborarono dando vita a nuove legendae il cui scopo era presentare il vero spirito delle origini del movimento francescano. Si trattava quindi di biografie che non avevano il carattere dell’ufficialità – non erano scritte, cioè, su commissione come le biografie di Tommaso e Bonaventura – ed erano destinate a un circuito limitato se non addirittura clandestino. Sono testi molto disomogenei: vi riconoscono parti che sono la trascrizione fedele delle cartelle preparatorie del 1246, parti che costituiscono una rielaborazione di vari frammenti documentali e parti aggiunte ex novo. In alcuni casi gli autori inserirono nel testo la pericope «nos qui cum eo fuimus» [noi che fummo con lui] a significare polemicamente che il loro scritto, a differenza della biografia di Bonaventura, non era frutto di una operazione a posteriori svolta tavolino ma si basava sulle testimonianze dirette dei primi frati; una sorta di sigillo d’autenticità. La più nota tra queste biografie non ufficiali è certamente la Leggenda dei tre compagni, così detta perché nei manoscritti giunti fino a noi è preceduta dalla lettera di Leone, Angelo e Rufino del 1246; trattasi però di una denominazione impropria in quanto, come si è detto, questa lettera accompagnava tutto il materiale inviato a Crescenzo; nessuno dei tre è quindi il reale estensore del testo. L’importanza della Leggenda dei tre compagni risiede nel fatto che i primi 17 capitoli provengono sicuramente dal materiale del 1246 e quindi sono stati fonte diretta della Vita seconda; gli altri capitoli sono frutto di una aggiunta successiva, avvenuta in epoca post-bonaventuriana. Un’altra biografia non ufficiale è quella del cosiddetto Anonimo perugino; il titolo è dovuto al fatto che l’autore di questo manoscritto, ritrovato in un’unica copia a Perugia, è ignoto e si presenta come un discepolo di Francesco. Il testo presenta notevoli affinità con la Leggenda dei tre compagni anche se non è chiaro se sia stato scritto prima o dopo di essa.
Ma non è ancora finita. Il Capitolo di Padova del 1276, constatato che l’editto di Parigi aveva acuito i contrasti più che appianarli, ordinò una nuova ricerca di notizie su Francesco. Tra la fine del 1200 e l’inizio del 1300 si ebbe così una nuova produzione di scritti biografici, perlopiù anonimi che però vennero attribuiti ai primi compagni e in particolare a frate Leone. Quasi tutto questo nuovo materiale biografico fu incorporato in due compilazioni. La prima è la Leggenda perugina, databile verso il 1310; come per la Leggenda dei tre compagni la sua importanza risiede nel fatto che parte di essa – per la precisione i numeri dall’1 al 97 – proviene sicuramente dal pacchetto inviato a Crescenzo nel 1246 o è ad esso addirittura anteriore. La seconda è lo Specchio di perfezione che fu pubblicata nel 1898 da Paul Sabatier come «Leggenda antichissima di san Francesco» e attribuita a frate Leone che l’avrebbe scritta nel 1227, prima ancora, quindi, delle opere del Celano (da cui il nome di Leggenda antichissima). Si trattava però di un errore di datazione del grande storico francese; oggi tutti gli studiosi concordano sul fatto che sia stata scritta verso il 1318. Il testo ha molto in comune con la Leggenda perugina rispetto alla quale ha sicuramente un’importanza secondaria.
Altri testi, scritti da frati appartenenti alla corrente degli spirituali, completano il quadro. Due di essi hanno un carattere aneddotico/leggendario: si tratta degli Actus beati Francisci et sociorum eius e dei famosissimi Fioretti. Il primo è una raccolta di 76 aneddoti tramandati oralmente e risalente al 1330, il secondo una selezione di 53 capitoli degli Actus scritta in volgare nel 1390. Vi è poi un poemetto allegorico il Sacrum commercium sancti Francisci cum domina Paupertate, di autore e datazione ignoti.  Infine sono da citare l’Albero della vita crocifissa di Gesù di Ubertino da Casale e la Cronaca delle sette tribolazioni dell’Ordine dei Minori di Angelo Clareno, due importantissimi esponenti della corrente degli spirituali.

Da questa sia pur sintetica descrizione si evince che siamo di fronte a un groviglio di fonti documentali dirette e secondarie, un intricato puzzle di cui neanche si conoscono tutte le tessere; un complesso e articolato campo di indagine che va sotto il nome di «questione francescana», avviato sul finire del 1800 da Paul Sabatier e che ancora oggi si arricchisce di nuovi contributi di storici e filologi.
A noi che abbiamo esigenze di tutt’altra natura basta avere cognizione che le biografie di Francesco non costituiscono affatto un insieme omogeneo di testi e che ognuno di essi risente in maniera più o meno marcata di vari fattori: le contingenze storiche, l’appartenenza dell’autore a una corrente piuttosto che a un’altra, gli scopi che questi voleva raggiungere con il suo lavoro, ecc.. Conseguentemente, nessuna di queste biografie può considerarsi quella giusta, quella che restituisce il vero Francesco: ogni biografia può darci informazioni giuste o sbagliate, dipende da cosa vi cerchiamo; e neanche è corretto utilizzare indifferentemente l’una o l’altra biografia, magari adoperando in maniera acritica l’indice tematico in calce alle Fonti Francescane. Valga come esempio quanto afferma l’illustre storico Theophile Desbonnets a proposito della Leggenda maggiore: «una perfetta sintesi di vita spirituale ma che rappresenta anche l’operazione perfettamente riuscita di imbalsamazione di un morto al quale si vuole negare ogni interferenza con la vita reale (T. Desbonnets, Dall’intuizione all’istituzione, Ed. Biblioteca Francescana, Milano 1986, p.176); a significare che il testo bonaventuriano costituisce sicuramente una eccelsa interpretazione mistico-teologica di san Francesco d’Assisi ma che non è affatto attendibile da un punto di vista biografico e storico, trattandosi del lavoro di un teologo che non aveva conosciuto Francesco e che intendeva presentare il santo non l’uomo.
In definitiva, il vero Francesco non lo fornisce né una singola biografia né tutte le biografie messe insieme. Ciò però non deve costituire motivo di scoraggiamento. Certamente non siamo storici o filologi di professione né ci viene chiesto di diventarlo; ma è necessario essere coscienti dell’importanza di una ricerca personale e di fraternità che sappia coniugare la sincera devozione con l’onestà intellettuale; una ricerca nella quale nessuna sintesi chiuda le porte a nuove ipotesi.

Pietro Urciuoli, OFS Avellino Roseto




Francesco d’Assisi. Giullare, non trovatore [2° parte]

Dopo aver indicato, nel primo post, metodo e merito della rubrica occorre spiegarne innanzitutto il titolo. Cosa significa dire che Francesco è stato un giullare e non un trovatore? Chi erano i giullari e chi i trovatori? Perché è necessaria questa precisazione?

Occorre in primo luogo vedere in quale circostanza Francesco si associa – o, per meglio dire, viene associato dai suoi biografi – alla figura del giullare. Il principale riferimento è la Leggenda perugina al n. 43 (FF 1592); dopo aver composto le Laudi del Signore Francesco volle che i suoi frati le cantassero al popolo al termine dei loro sermoni, come «giullari di Dio» [ioculatores Domini, nel testo latino]: «Cosa sono i servi di Dio se non i suoi giullari che devono commuovere il cuore degli uomini ed elevarlo alla gioia spirituale?». Un riferimento sostanzialmente analogo lo offre lo Specchio di perfezione al n. 100 (FF 1799). Il Celano, infine, nella Vita seconda al Cap. XC (FF 711) ci dice che quando Francesco era particolarmente lieto in spirito si esprimeva con «parole francesi» e alla «maniera giullaresca», spesso utilizzando legni raccolti da terra a mo’ di archetto e di viola.

Generalmente questi atteggiamenti di Francesco vengono ricondotti alla sua inclinazione per il canto e per la musica manifestata sin dall’età giovanile. Si tratta, però, di una interpretazione piuttosto riduttiva: il termine «giullare» è infatti carico di significati molto forti, non è verosimile che sia stato usato dai suoi biografi in maniera distratta e superficiale o come sinonimo di altri termini.

I giullari erano mimi, saltimbanchi, giocolieri, acrobati, cantastorie. Erano considerati personaggi ambigui in quanto non appartenevano a alcuno dei tre ordini nei quali, secondo una classificazione introdotta dal vescovo Adalberone da Laon tra X e XI secolo, si considerava divisa la società: oratores, bellatores, laboratores. Girovaghi e vagabondi, qualità ritenute all’epoca molto riprovevoli, venivano considerati come un rifiuto della società e per questo erano disprezzati e perseguitati dalle autorità ecclesiastiche e civili. Per le prime, i giullari erano immondi personaggi al servizio del diavolo: inducevano gli uomini a un riso facile e volgare con discorsi frequentemente sconci e blasfemi né si facevano scrupolo di utilizzare finanche le proprie deformità per procurarsi il denaro. Per le seconde erano invece una sorta di pericolosi sovversivi giacché nelle loro giullarate – spettacoli improvvisati nelle piazze e nei mercati cittadini – sbeffeggiavano nobili e potenti locali. A volte erano tollerati, altre no: Federico II in persona nel 1221 promulgò un editto, Contra jogulatores obloquentes [etimologicamente ob-loquentes significa uno che sotto-parla, quindi un cialtrone, sparlatore, rozzo, volgare], che vietava ai giullari il permesso di entrare in città e consentiva a chiunque di malmenarli fino a ucciderli. In molte città era proibito assistere ai loro spettacoli anche se spesso tale divieto veniva eluso. Del resto molti nobili – non esclusi vescovi e cardinali – avevano l’abitudine di ospitare giullari alla propria corte per allietarne le serate; erano questi i cosiddetti buffoni di corte ai quali il signore per dar prova di magnanimità concedeva ampia libertà di parola, anche se non erano infrequenti i casi di giullari condannati a severe punizioni e finanche alla morte per essersi spinti troppo oltre con i loro sberleffi. Di tutt’altro genere, infine, erano i trovatori. Essi erano un prodotto tipico della società aristocratica; di stirpe nobile – principi, cavalieri e a volte anche chierici con la passione dell’arte e della poesia – presso le grandi corti europee cantavano i valori preminenti della loro classe sociale: le gesta degli eroi e l’amore delle dame e dei cavalieri. Nella maggior parte delle canzoni di gesta si trovano degli «oiez, seigneurs», oppure «oiez, barons» (cioè «udite, signori» o «udite, baroni») che dimostrano a quale ambiente queste opere fossero destinate. Il più famoso trovatore in lingua d’oc è Guglielmo IX d’Aquitania (1071-1127), duca d’Aquitania e di Guascogna nonché conte di Poitiers e Tolosa.

È quindi oltremodo riduttivo vedere nel Francesco «giullare» soltanto il cantore innamorato di Dio; Francesco certamente è stato anche questo ma l’accostamento alla figura del giullare è carico di ben altri significati. Francesco assegna ai suoi frati l’appellativo di ioculatores Domini per indicar loro una precisa scelta di campo: devono avere la forza di porsi coscientemente e deliberatamente dalla parte sbagliata della società, al di fuori degli schemi culturali e istituzionali, civili ed ecclesiastici del tempo. Non devono rivolgere le proprie attenzioni ai signori, indirizzando a essi dotti sermoni alla maniera dei chierici dei capitoli cattedrali, quanto piuttosto al popolo minuto, agli esclusi e agli emarginati, utilizzando un linguaggio per loro comprensibile arricchito se necessario anche dalla musica e dalla gestualità, alla «maniera giullaresca», appunto. Insomma, il suo sentirsi simile ai ioculatores è molto vicino al suo sentirsi parte dei minores.

Alla luce di tutto ciò, cosa significa per noi francescani di oggi stare nella Chiesa e nella società da ioculatores Domini? Sicuramente tante cose. Non c’è un unico modo di essere francescani e ciascuno di noi è legittimato a sviluppare questo tratto della spiritualità e della personalità di Francesco secondo il proprio sentire. Per quel che può interessare, chi scrive guarda con scetticismo e preoccupazione a quella ricerca di visibilità di impronta ruiniana che sembra caratterizzare anche l’operato dei nostri vertici e che si concretizza in quelle periodiche manifestazioni nazionali nelle quali noti conduttori televisivi moderano preziosi dibattiti tra giornalisti, filosofi, scrittori, esponenti del mondo della politica e delle istituzioni; veri e propri salotti intellettuali che però vengono proposti come importanti momenti di incontro e di confronto a una base, per la verità, un po’ troppo ingenua e accondiscendente. Lasciamo che siano altri movimenti cattolici a organizzare meeting nei quali ostentare la propria organicità all’Italia che conta; noi dovremmo essere estranei a certe logiche, dovremmo farci beffe di certe manifestazioni; siamo nati come giullari, non come trovatori.

Pace e bene

Pietro Urciuoli, OFS Avellino Roseto