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SAN FRANCESCO E IL SULTANO – Considerazioni finali

Nella giornata di studio “San Francesco e il Sultano” ho scoperto che la storia non era come ce l’avevano raccontata. Da tutte le fonti attendibili emergono sia l’avidità e le scelleratezze dei cristiani (considerate che eravamo noi i deliberati invasori di un popolo che fino ad allora non ci aveva dato alcun fastidio), sia la cortesia del Sultano nell’accogliere Francesco -un uomo del nemico!- ascoltandolo volentieri e lasciandolo persino libero di predicare.
Il sultano voleva la pace, ci aveva offerto la Terrasanta gratis, e le autorità cristiane rifiutarono. Lo fecero per calcoli politici ed economici, ma resta il fatto che rifiutarono. Quindi, per logica conseguenza, da quel momento in poi tutto il carico di sofferenze e morti a causa delle crociate poteva essere evitato. Avremmo avuto il possesso di Gerusalemme e di tutta la Terrasanta, all’unica condizione di non molestare chi già vi abitava; avremmo fatto la pace col mondo islamico, si sarebbe sviluppato un rispetto reciproco, e tante stragi non sarebbero mai avvenute, comprese quelle che succedono oggi. Credo che noi stiamo pagando le conseguenze delle cattive azioni dei nostri antenati.
Tornando al passato, la gente fu mandata a morire e ad uccidere senza nemmeno il pretesto di una necessità morale (liberare il Santo Sepolcro dalle mani degli infedeli), dato che il luogo richiesto ci era stato offerto gratis. Inoltre, i predicatori, per reclutare volontari, parlavano della liberazione dei luoghi santi, e poi in concreto chi si arruolava si ritrovava in Egitto e perfino a Tunisi. Dunque quel che interessava alle autorità civili e religiose era l’annientamento dei regni islamici dovunque fossero, la conquista di territori e ricchezze, e non certo la Terrasanta, zona poco redditizia. Tant’è vero che fu lasciata al suo destino.La cosa che più sbalordisce è che gran parte della documentazione era già presente negli archivi (lettere, cronache) ed è stata volutamente ignorata. Ho diffuso gli appunti nella mia fraternità e via mail anche ad altre fraternità toscane: pensavo che fossero scoperte importantissime, che avrebbero avuto una vasta eco. Macché. Ignorate. Delle rivelazioni uscite in quel convegno non si trova traccia neanche su internet; sono scritte solo in un numero della rivista dei frati minori “Studi Francescani 108/3-4 (2011)”, “Francesco e il Sultano. Atti della Giornata di Studio (Firenze, 25 settembre 2010)”.
Mi sono chiesta a lungo il perché di tutto, sia dell’ostinazione dei crociati a rifiutare la pace offerta dal sultano, sia della mancanza di interesse alla verità oggi. Poi ho visto questa citazione di Dietrich Bonhoeffer:

Per il bene, la stupidità è più pericolosa della malvagità. Contro il male è possibile protestare, opporsi anche con la forza. Ma contro lo stupido non abbiamo difese, perché ai fatti che non quadrano con i suoi pregiudizi egli non crede affatto e qualora non potesse sfuggire all’evidenza lo stupido metterà semplicemente da parte, come non rilevanti, quei fatti. E in questo è molto fiero di sé; anzi, diventa pericoloso in quanto, con facilità e rabbiosamente, passerà al contrattacco.”

(D. BONHOEFFER, Resistenza e resa, cit., 64-66).

Patrizia Mancini OFS Siena




FRANCESCO D’ASSISI. GIULLARE NON TROVATORE [7^ parte]

Nel presente post si vuole dimostrare come alcuni tra gli episodi maggiormente conosciuti della vita di Francesco d’Assisi siano in realtà in tutto o in parte inventati, costruiti ad arte dai suoi biografi allo scopo di creare collegamenti con la Sacra Scrittura; episodi nei quali, in accordo con lo stile agiografico medievale, si fa ampio ricorso a sogni e visioni, figure letterarie utilizzate per rappresentare il modo con cui Dio manifesta la sua volontà.
Per brevità si propongono alla riflessione solo due episodi
Il primo è quello della partenza di Francesco per la Puglia al seguito di Gualtieri di Brienne. La Legenda maggiore ci dice che a Spoleto Francesco è colto da una febbre improvvisa e che in sogno una voce gli avrebbe chiesto: «Francesco, è meglio servire il servo o il padrone?».
In pratica, Francesco è intercettato dal Signore sulla via di Spoleto esattamente come san Paolo sulla via di Damasco e come questi risponde: «Signore, cosa vuoi che io faccia?». Se Francesco abbia effettivamente avuto questa visione non lo possiamo né affermare né negare; di certo sappiamo che Gualtieri di Brienne muore in battaglia nello stesso anno, il 1205, a Sarno. È molto probabile quindi che il giovane Francesco abbia rinunciato a partire non appena appresa la notizia della morte del cavaliere francese e dell’annullamento della missione in Puglia.
Il secondo episodio è quello del sogno di Innocenzo III, un episodio immortalato da Giotto in uno dei suoi più celebri affreschi. Secondo Tommaso da Celano Innocenzo III avrebbe sognato un uomo vestito di miseri stracci sostenere una basilica del Laterano in procinto di crollare e, riconosciuto in Francesco quest’uomo, avrebbe approvato il suo duro progetto di vita. Nulla vieta che Innocenzo III abbia avuto effettivamente tale visione; tuttavia è il caso di osservare quanto segue. Questo episodio è riportato dal Celano nella sua Vita seconda, datata 1246; orbene, una analoga visione è riportata anche da Costantino da Orvieto nella sua Vita di san Domenico scritta nel 1244, due anni prima della Vita seconda del Celano. Se non si può escludere che Innocenzo III abbia avuto la visione di Francesco, è però certamente singolare che ne abbia avute addirittura due, una per Francesco e una per Domenico. Più probabilmente il Celano con questo episodio ha voluto rappresentare plasticamente l’interpretazione storica che l’Ordine ha dato di sé negli anni immediatamente successivi alla morte di Francesco e per far questo si è ispirato, diciamo così, al suo collega domenicano.

Pace e bene

Pietro Urciuoli




Francesco d’Assisi. Giullare, non trovatore [5^ parte]

E’ a tutti noto che Francesco nasce da un mercante di Assisi e che negli anni della giovinezza segue le orme paterne. Può essere utile quindi una riflessione sulla figura del mercante medievale.
Nel medioevo cristiano i mercanti costituiscono la classe emergente della società. Girano l’Europa in lungo e in largo per portare le loro mercanzie presso le principali corti; i più facoltosi hanno attività nelle più importanti città europee e frequentemente assumono un ruolo importante nei nascenti istituti bancari. Con la loro attività danno un impulso decisivo allo sviluppo economico delle città e alla diffusione della cultura laica.
Tuttavia, in linea generale, la figura del mercante non è vista di buon occhio. Il cristianesimo assume la povertà come uno stato eticamente preferibile alla ricchezza: non è certamente vietato al cristiano possedere ricchezze ma se vuole veramente percorrere il cammino della santità è preferibile che ne faccia quantomeno un uso distaccato. Il lavoro eticamente accettato è quello dei campi, visto come penitenza o come espiazione dei peccati: la mano dell’uomo semina e Dio si compiace di benedire il suo lavoro facendo crescere frutti e messi; la carestia è invece segno che l’uomo ha troppo peccato e Dio non lo ha ancora perdonato. La figura del mercante, quindi, viene vista sempre con sospetto quando non è addirittura chiaramente ed esplicitamente condannata: il mercante è colui il quale cerca la ricchezza, è avido e avaro, tendente inevitabilmente all’inganno e al raggiro, in qualche caso è addirittura usuraio. Non chiede a Dio attraverso la natura il suo sostentamento: se lo procura da solo togliendo agli altri uomini i frutti del loro lavoro. Si aggiunga poi che nel Medioevo il commercio sulla lunga distanza verte prevalentemente su beni di lusso, in contrasto con una esistenza semplice e virtuosa; anche se non manca il commercio di granaglie, la difficoltà dei trasporti e l’insicurezza generale rendono conveniente trattare soprattutto beni di lusso molto costosi come panni pregiati, spezie, seta, artigianato artistico. Il mercante, per quanto ricco possa diventare con i suoi commerci, non ha la dignità del proprietario terriero che pur non lavorando direttamente i campi trae da essi la sua forza. Di tale situazione i mercanti sono coscienti al punto che frequentemente non appena raggiunto un certo tenore di vita abbandonano la mercatura per diventare proprietari terrieri, acquistano ville in campagna o palazzi in città, cercando di acquisire così un nuovo e più elevato status sociale.

Pace e bene

Pietro Urciuoli




Francesco d’Assisi. Giullare, non trovatore [3^ parte]

Il presente post ha per oggetto le Fonti Francescane. Com’è noto trattasi di una selezione di testi del primo secolo di storia francescana pubblicata per la prima volta nel 1977 dalle EFR. Il volume si divide in due parti, la prima relativa a san Francesco, la seconda a santa Chiara d’Assisi; le riflessioni che seguono si limitano alla prima parte.Scritti di Francesco d’Assisi
Gli scritti di Francesco non pongono eccessivi problemi di autenticità, anche se Francesco non è presente in essi in egual misura. Gli autografi di cui disponiamo sono due: la Benedizione a frate Leone con le Lodi di Dio altissimo (di incerta datazione) e la Lettera a frate Leone (1223/1224), conservate rispettivamente ad Assisi e a Spoleto. Altri testi, invece, non sono stati scritti materialmente da Francesco ma sono stati da lui dettati a un frate che ha svolto mansioni di mero segretario: è il caso delle Lettere circolari (A tutti i chierici, Al capitolo generale e a tutti i frati, A tutti i fedeli, Ai reggitori dei popoli) che coprono un arco temporale che va dal 1220 agli ultimi anni della sua vita quando ormai si muoveva con difficoltà e del famosissimo Testamento (1226). Altrove il materiale estensore del testo ha svolto un ruolo più importante: è il caso delle Ammonizioni (1216/1221); le idee sono di Francesco, probabilmente esposte oralmente in varie occasioni, ma il testo vero e proprio è da attribuire al redattore che tali idee ha raccolto e organizzato. Ancora diverso, infine, è il caso delle due Regole (1221 e 1223) che sono frutto del lavoro collettivo di un gruppo di frati; Francesco faceva parte del gruppo ma la sua voce non era sempre preponderante.
Biografie di Francesco d’Assisi
In questo caso la questione si fa molto più controversa. Il dato da cui bisogna partire è il seguente. Alla morte di Francesco nel 1226 era ormai netta nell’Ordine dei Minori la contrapposizione tra una maggioranza, indicata come i frati della comunità, che premeva per una stabilizzazione e istituzionalizzazione dell’Ordine, e una minoranza, i cosiddetti spirituali, che aspiravano a un ritorno alle primitive origini del movimento francescano. All’interno di questa conflittualità si inserivano altre tensioni più o meno sotterranee: ad esempio, tra frati italiani e frati stranieri, tra frati laici e frati chierici. Questi conflitti interni durarono circa un secolo e si intrecciarono con altre vicende non meno dolorose che videro l’Ordine coinvolto in aspri contrasti con le istituzioni ecclesiastiche: gli anni dal 1252 al 1257 furono contrassegnati dallo scontro con il clero secolare dell’Università di Parigi; gli anni dal 1322 al 1328 dal conflitto con il papa Giovanni XXII riguardo alla povertà di Cristo e degli apostoli. Pertanto, l’arco temporale in cui si collocano le biografie di Francesco inserite nelle Fonti Francescane coincide con quello che è sicuramente il periodo più tormentato della storia dell’Ordine dei Minori; un corretto approccio a tali testi non può non tener conto di questo fattore.

La prima biografia di cui disponiamo è la Vita prima scritta da Tommaso da Celano nel 1229 su incarico di Gregorio IX; si trattava di offrire all’intera cristianità il volto di un santo segnato dal prodigio delle stimmate e canonizzato l’anno precedente. Gregorio IX scelse Tommaso sia per le sue note capacità letterarie sia perché aveva conosciuto Francesco personalmente, pur non essendo stato tra i suoi primissimi compagni; era entrato nell’Ordine nel 1215, forse accolto da Francesco stesso. Il Celano per adempiere al compito affidatogli dal papa attinse certamente ai suoi personali ricordi e a quelli dei primi frati nonché agli atti del processo di canonizzazione. Il testo è diviso in tre parti: la prima riguarda la giovinezza di Francesco e i primissimi anni della fraternitas, la seconda gli ultimi due anni della sua vita e il suo transito, la terza la sua canonizzazione. Il testo è ricco di luci e ombre: per un verso è debitore della tradizione agiografica del tempo – si legga la tenebrosa descrizione della giovinezza di Francesco –, per un altro se ne distacca rivelando tratti di sorprendente modernità – notevole è l’analisi dell’evoluzione psicologica di Francesco durante il suo cammino di conversione. In ogni caso, indipendentemente da valutazioni di carattere letterario, la Vita prima costituisce una fonte insostituibile per la conoscenza di Francesco sia perché è la prima in ordine di tempo sia perché è basata su fonti ed esperienze dirette.
L’opera di Tommaso non riscosse unanimi consensi: scontentava gli assisani di cui evidenziava la durezza di cuore; il ceto mercantile di cui deplorava la ricerca di guadagno; umiliava i genitori di Francesco, ritraendoli come genitori insensibili e preoccupati solo del loro ruolo sociale; l’Ordine stesso, del quale non evidenziava lo sviluppo prodigioso; e scontentava anche il papa perché non esaltava adeguatamente una Chiesa che aveva canonizzato il santo a tempo di record. Infine, anche dal punto di vista della ricostruzione biografica si presentava piuttosto lacunosa. E così il ministro generale Crescenzo da Jesi nel Capitolo di Genova del 1244 impegnò Tommaso in una nuova biografia e chiese a tutti i frati di inviare eventuali ricordi e testimonianze scritte. Questi documenti giunsero a Crescenzo nel 1246 accompagnati da una lettera a firma di Leone, Angelo e Rufino – la cosiddetta Lettera di Greccio del 11 agosto 1246 – che si fecero in un certo senso garanti del materiale. Tommaso nel 1248 licenziò la cosiddetta Vita seconda che si componeva di due parti di diversa lunghezza: la prima, di 17 capitoli, completava il racconto della biografia di Francesco fatto nella Vita prima; la seconda, di 166 capitoli, era concepita come una sorta di florilegio delle virtù del santo. Normalmente in questi casi le cartelle preparatorie, le minute e le bozze vengono eliminate una volta terminata l’opera; in questo caso non fu così e molti documenti inviati a Crescenzo rimasero in circolazione. È questa una vicenda di importanza fondamentale in quanto tali documenti furono utilizzati negli anni successivi per l’elaborazione di altri testi.
Anche questa biografia non riuscì a soddisfare tutti i frati – divisi, come si è detto, in varie fazioni – ma soprattutto essa si dimostrava carente in un punto: il Capitolo di Genova del 1244 aveva stabilito che la nuova biografia avrebbe dovuto anche alimentare la venerazione di san Francesco offrendo il racconto dei miracoli che aveva operato e che continuava a operare e questo aspetto non era stato per nulla preso in considerazione dal Celano. E così il ministro generale Giovanni da Parma commissionò a Tommaso una terza opera. Tommaso si rimise al lavoro e nel 1252 scrisse il Trattato dei miracoli.
Col passare degli anni l’Ordine era cresciuto enormemente in numero e in prestigio e si sentì il bisogno di una biografia che presentasse ai frati ormai sparsi in tutta Europa non tanto il frate Francesco quanto il santo Francesco, l’alter Christus, l’uomo insignito delle sacre stimmate che Dio aveva inviato per sostenere la sua Chiesa. Il Capitolo di Narbona del 1260 affidò l’incarico di redigere una nuova biografia a Bonaventura da Bagnoregio, allora ministro generale dell’Ordine nonché illustre teologo. Bonaventura non aveva conosciuto né Francesco né i primi compagni; nato intorno al 1221 si era recato a studiare a Parigi nel 1235 – dove era rimasto fino al 1257 – e nel 1243 era entrato nell’Ordine; non poteva quindi basarsi su fonti dirette o su ricordi personali. Per scrivere la sua biografia attinse essenzialmente alla trilogia del Celano che rielaborò in chiave teologica utilizzando le sue eccelse doti di filosofo e di teologo; nacquero così nel 1262 la Leggenda maggiore e un suo sunto a uso liturgico, la Leggenda minore. La Leggenda maggiore piacque tanto che il Capitolo di Parigi del 1266 dispose la distruzione di tutte le precedenti biografie di Francesco in modo che non vi potesse essere confusione sulla corretta interpretazione della sua figura e delle sue volontà. Così la Legenda nova (il blocco di Bonaventura) diventava la biografia ufficiale di Francesco e andava a sostituire quella che assunse il nome di Legenda antiqua (il blocco del Celano).
La drastica decisione del Capitolo di Parigi incontrò l’ostilità di molti frati e in special modo degli spirituali, contrari alla piega clericale che l’Ordine ormai aveva assunto. Essi cercarono di recuperare tutto il materiale scampato alla distruzione – in particolare ciò che era rimasto delle bozze inviate a Crescenzo da Jesi nel 1246 – e lo rielaborarono dando vita a nuove legendae il cui scopo era presentare il vero spirito delle origini del movimento francescano. Si trattava quindi di biografie che non avevano il carattere dell’ufficialità – non erano scritte, cioè, su commissione come le biografie di Tommaso e Bonaventura – ed erano destinate a un circuito limitato se non addirittura clandestino. Sono testi molto disomogenei: vi riconoscono parti che sono la trascrizione fedele delle cartelle preparatorie del 1246, parti che costituiscono una rielaborazione di vari frammenti documentali e parti aggiunte ex novo. In alcuni casi gli autori inserirono nel testo la pericope «nos qui cum eo fuimus» [noi che fummo con lui] a significare polemicamente che il loro scritto, a differenza della biografia di Bonaventura, non era frutto di una operazione a posteriori svolta tavolino ma si basava sulle testimonianze dirette dei primi frati; una sorta di sigillo d’autenticità. La più nota tra queste biografie non ufficiali è certamente la Leggenda dei tre compagni, così detta perché nei manoscritti giunti fino a noi è preceduta dalla lettera di Leone, Angelo e Rufino del 1246; trattasi però di una denominazione impropria in quanto, come si è detto, questa lettera accompagnava tutto il materiale inviato a Crescenzo; nessuno dei tre è quindi il reale estensore del testo. L’importanza della Leggenda dei tre compagni risiede nel fatto che i primi 17 capitoli provengono sicuramente dal materiale del 1246 e quindi sono stati fonte diretta della Vita seconda; gli altri capitoli sono frutto di una aggiunta successiva, avvenuta in epoca post-bonaventuriana. Un’altra biografia non ufficiale è quella del cosiddetto Anonimo perugino; il titolo è dovuto al fatto che l’autore di questo manoscritto, ritrovato in un’unica copia a Perugia, è ignoto e si presenta come un discepolo di Francesco. Il testo presenta notevoli affinità con la Leggenda dei tre compagni anche se non è chiaro se sia stato scritto prima o dopo di essa.
Ma non è ancora finita. Il Capitolo di Padova del 1276, constatato che l’editto di Parigi aveva acuito i contrasti più che appianarli, ordinò una nuova ricerca di notizie su Francesco. Tra la fine del 1200 e l’inizio del 1300 si ebbe così una nuova produzione di scritti biografici, perlopiù anonimi che però vennero attribuiti ai primi compagni e in particolare a frate Leone. Quasi tutto questo nuovo materiale biografico fu incorporato in due compilazioni. La prima è la Leggenda perugina, databile verso il 1310; come per la Leggenda dei tre compagni la sua importanza risiede nel fatto che parte di essa – per la precisione i numeri dall’1 al 97 – proviene sicuramente dal pacchetto inviato a Crescenzo nel 1246 o è ad esso addirittura anteriore. La seconda è lo Specchio di perfezione che fu pubblicata nel 1898 da Paul Sabatier come «Leggenda antichissima di san Francesco» e attribuita a frate Leone che l’avrebbe scritta nel 1227, prima ancora, quindi, delle opere del Celano (da cui il nome di Leggenda antichissima). Si trattava però di un errore di datazione del grande storico francese; oggi tutti gli studiosi concordano sul fatto che sia stata scritta verso il 1318. Il testo ha molto in comune con la Leggenda perugina rispetto alla quale ha sicuramente un’importanza secondaria.
Altri testi, scritti da frati appartenenti alla corrente degli spirituali, completano il quadro. Due di essi hanno un carattere aneddotico/leggendario: si tratta degli Actus beati Francisci et sociorum eius e dei famosissimi Fioretti. Il primo è una raccolta di 76 aneddoti tramandati oralmente e risalente al 1330, il secondo una selezione di 53 capitoli degli Actus scritta in volgare nel 1390. Vi è poi un poemetto allegorico il Sacrum commercium sancti Francisci cum domina Paupertate, di autore e datazione ignoti.  Infine sono da citare l’Albero della vita crocifissa di Gesù di Ubertino da Casale e la Cronaca delle sette tribolazioni dell’Ordine dei Minori di Angelo Clareno, due importantissimi esponenti della corrente degli spirituali.

Da questa sia pur sintetica descrizione si evince che siamo di fronte a un groviglio di fonti documentali dirette e secondarie, un intricato puzzle di cui neanche si conoscono tutte le tessere; un complesso e articolato campo di indagine che va sotto il nome di «questione francescana», avviato sul finire del 1800 da Paul Sabatier e che ancora oggi si arricchisce di nuovi contributi di storici e filologi.
A noi che abbiamo esigenze di tutt’altra natura basta avere cognizione che le biografie di Francesco non costituiscono affatto un insieme omogeneo di testi e che ognuno di essi risente in maniera più o meno marcata di vari fattori: le contingenze storiche, l’appartenenza dell’autore a una corrente piuttosto che a un’altra, gli scopi che questi voleva raggiungere con il suo lavoro, ecc.. Conseguentemente, nessuna di queste biografie può considerarsi quella giusta, quella che restituisce il vero Francesco: ogni biografia può darci informazioni giuste o sbagliate, dipende da cosa vi cerchiamo; e neanche è corretto utilizzare indifferentemente l’una o l’altra biografia, magari adoperando in maniera acritica l’indice tematico in calce alle Fonti Francescane. Valga come esempio quanto afferma l’illustre storico Theophile Desbonnets a proposito della Leggenda maggiore: «una perfetta sintesi di vita spirituale ma che rappresenta anche l’operazione perfettamente riuscita di imbalsamazione di un morto al quale si vuole negare ogni interferenza con la vita reale (T. Desbonnets, Dall’intuizione all’istituzione, Ed. Biblioteca Francescana, Milano 1986, p.176); a significare che il testo bonaventuriano costituisce sicuramente una eccelsa interpretazione mistico-teologica di san Francesco d’Assisi ma che non è affatto attendibile da un punto di vista biografico e storico, trattandosi del lavoro di un teologo che non aveva conosciuto Francesco e che intendeva presentare il santo non l’uomo.
In definitiva, il vero Francesco non lo fornisce né una singola biografia né tutte le biografie messe insieme. Ciò però non deve costituire motivo di scoraggiamento. Certamente non siamo storici o filologi di professione né ci viene chiesto di diventarlo; ma è necessario essere coscienti dell’importanza di una ricerca personale e di fraternità che sappia coniugare la sincera devozione con l’onestà intellettuale; una ricerca nella quale nessuna sintesi chiuda le porte a nuove ipotesi.

Pietro Urciuoli, OFS Avellino Roseto




Francesco d’Assisi. Giullare, non trovatore [2° parte]

Dopo aver indicato, nel primo post, metodo e merito della rubrica occorre spiegarne innanzitutto il titolo. Cosa significa dire che Francesco è stato un giullare e non un trovatore? Chi erano i giullari e chi i trovatori? Perché è necessaria questa precisazione?

Occorre in primo luogo vedere in quale circostanza Francesco si associa – o, per meglio dire, viene associato dai suoi biografi – alla figura del giullare. Il principale riferimento è la Leggenda perugina al n. 43 (FF 1592); dopo aver composto le Laudi del Signore Francesco volle che i suoi frati le cantassero al popolo al termine dei loro sermoni, come «giullari di Dio» [ioculatores Domini, nel testo latino]: «Cosa sono i servi di Dio se non i suoi giullari che devono commuovere il cuore degli uomini ed elevarlo alla gioia spirituale?». Un riferimento sostanzialmente analogo lo offre lo Specchio di perfezione al n. 100 (FF 1799). Il Celano, infine, nella Vita seconda al Cap. XC (FF 711) ci dice che quando Francesco era particolarmente lieto in spirito si esprimeva con «parole francesi» e alla «maniera giullaresca», spesso utilizzando legni raccolti da terra a mo’ di archetto e di viola.

Generalmente questi atteggiamenti di Francesco vengono ricondotti alla sua inclinazione per il canto e per la musica manifestata sin dall’età giovanile. Si tratta, però, di una interpretazione piuttosto riduttiva: il termine «giullare» è infatti carico di significati molto forti, non è verosimile che sia stato usato dai suoi biografi in maniera distratta e superficiale o come sinonimo di altri termini.

I giullari erano mimi, saltimbanchi, giocolieri, acrobati, cantastorie. Erano considerati personaggi ambigui in quanto non appartenevano a alcuno dei tre ordini nei quali, secondo una classificazione introdotta dal vescovo Adalberone da Laon tra X e XI secolo, si considerava divisa la società: oratores, bellatores, laboratores. Girovaghi e vagabondi, qualità ritenute all’epoca molto riprovevoli, venivano considerati come un rifiuto della società e per questo erano disprezzati e perseguitati dalle autorità ecclesiastiche e civili. Per le prime, i giullari erano immondi personaggi al servizio del diavolo: inducevano gli uomini a un riso facile e volgare con discorsi frequentemente sconci e blasfemi né si facevano scrupolo di utilizzare finanche le proprie deformità per procurarsi il denaro. Per le seconde erano invece una sorta di pericolosi sovversivi giacché nelle loro giullarate – spettacoli improvvisati nelle piazze e nei mercati cittadini – sbeffeggiavano nobili e potenti locali. A volte erano tollerati, altre no: Federico II in persona nel 1221 promulgò un editto, Contra jogulatores obloquentes [etimologicamente ob-loquentes significa uno che sotto-parla, quindi un cialtrone, sparlatore, rozzo, volgare], che vietava ai giullari il permesso di entrare in città e consentiva a chiunque di malmenarli fino a ucciderli. In molte città era proibito assistere ai loro spettacoli anche se spesso tale divieto veniva eluso. Del resto molti nobili – non esclusi vescovi e cardinali – avevano l’abitudine di ospitare giullari alla propria corte per allietarne le serate; erano questi i cosiddetti buffoni di corte ai quali il signore per dar prova di magnanimità concedeva ampia libertà di parola, anche se non erano infrequenti i casi di giullari condannati a severe punizioni e finanche alla morte per essersi spinti troppo oltre con i loro sberleffi. Di tutt’altro genere, infine, erano i trovatori. Essi erano un prodotto tipico della società aristocratica; di stirpe nobile – principi, cavalieri e a volte anche chierici con la passione dell’arte e della poesia – presso le grandi corti europee cantavano i valori preminenti della loro classe sociale: le gesta degli eroi e l’amore delle dame e dei cavalieri. Nella maggior parte delle canzoni di gesta si trovano degli «oiez, seigneurs», oppure «oiez, barons» (cioè «udite, signori» o «udite, baroni») che dimostrano a quale ambiente queste opere fossero destinate. Il più famoso trovatore in lingua d’oc è Guglielmo IX d’Aquitania (1071-1127), duca d’Aquitania e di Guascogna nonché conte di Poitiers e Tolosa.

È quindi oltremodo riduttivo vedere nel Francesco «giullare» soltanto il cantore innamorato di Dio; Francesco certamente è stato anche questo ma l’accostamento alla figura del giullare è carico di ben altri significati. Francesco assegna ai suoi frati l’appellativo di ioculatores Domini per indicar loro una precisa scelta di campo: devono avere la forza di porsi coscientemente e deliberatamente dalla parte sbagliata della società, al di fuori degli schemi culturali e istituzionali, civili ed ecclesiastici del tempo. Non devono rivolgere le proprie attenzioni ai signori, indirizzando a essi dotti sermoni alla maniera dei chierici dei capitoli cattedrali, quanto piuttosto al popolo minuto, agli esclusi e agli emarginati, utilizzando un linguaggio per loro comprensibile arricchito se necessario anche dalla musica e dalla gestualità, alla «maniera giullaresca», appunto. Insomma, il suo sentirsi simile ai ioculatores è molto vicino al suo sentirsi parte dei minores.

Alla luce di tutto ciò, cosa significa per noi francescani di oggi stare nella Chiesa e nella società da ioculatores Domini? Sicuramente tante cose. Non c’è un unico modo di essere francescani e ciascuno di noi è legittimato a sviluppare questo tratto della spiritualità e della personalità di Francesco secondo il proprio sentire. Per quel che può interessare, chi scrive guarda con scetticismo e preoccupazione a quella ricerca di visibilità di impronta ruiniana che sembra caratterizzare anche l’operato dei nostri vertici e che si concretizza in quelle periodiche manifestazioni nazionali nelle quali noti conduttori televisivi moderano preziosi dibattiti tra giornalisti, filosofi, scrittori, esponenti del mondo della politica e delle istituzioni; veri e propri salotti intellettuali che però vengono proposti come importanti momenti di incontro e di confronto a una base, per la verità, un po’ troppo ingenua e accondiscendente. Lasciamo che siano altri movimenti cattolici a organizzare meeting nei quali ostentare la propria organicità all’Italia che conta; noi dovremmo essere estranei a certe logiche, dovremmo farci beffe di certe manifestazioni; siamo nati come giullari, non come trovatori.

Pace e bene

Pietro Urciuoli, OFS Avellino Roseto




Francesco d’Assissi. Giullare non trovatore … [1^ parte]

L’inaugurazione di questa rubrica richiede due precisazioni; l’una di merito, l’altra di metodo.
Cominciamo dal merito. Nelle nostre fraternità la figura di Francesco d’Assisi viene affrontata essenzialmente da due distinte angolazioni: le tappe salienti della sua vita da un lato, le sue virtù mistico/morali dall’altro. Per quel che è la mia esperienza – dieci anni di Gi.Fra. e venti di O.F.S. – in entrambi i casi la trattazione non è esente da limiti e difetti: nel primo caso, difficilmente ci si riesce ad affrancare da un approccio sostanzialmente aneddotico e miracolistico; nel secondo, si eccede sovente in una retorica esaltazione della sua personalità e della sua santità. Ne risulta un’immagine di Francesco facilmente accessibile ma anche vistosamente banalizzata. Non voglio sminuire oltremisura un approccio col quale si sono formate intere generazioni di francescani secolari – tra cui anche la mia – ma ritengo che ai tempi di oggi ci voglia altro; bisogna formarsi e informarsi con modalità ben diverse se si vuole essere laici pensanti oltre che devoti, animati da profonde convinzioni oltre che da buoni sentimenti; insomma, quel che si dice essere «cattolici adulti». In questa rubrica si tenterà di rileggere l’esperienza umana e spirituale di Francesco non in chiave agiografico/celebrativa bensì in una prospettiva principalmente storica per rinvenirne gli effettivi caratteri di novità per la sua epoca e di attualità per la nostra. È un approccio sicuramente più impegnativo ma anche necessario: non per nulla Paul Sabatier, il primo biografo moderno di Francesco d’Assisi, nella sua fondamentale biografia del 1894 affermava: «Se grande fu il Francesco della leggenda, immenso fu quello della storia».
Veniamo al metodo. La rubrica è ispirata a un mio libro, Francesco d’Assisi. Giullare, non trovatore, Edizioni Messaggero, Padova 2009; ne riprenderà l’approccio e, con i necessari adattamenti, i contenuti. La libertà che è stata concessa a me nella gestione di questo spazio è concessa anche ai lettori: la rubrica si propone infatti di stimolare un dibattito nel quale ciascun francescano secolare possa intervenire liberamente. Non che nelle nostre fraternità non ci sia dialogo ma l’impressione è che esso risenta di quell’unanimismo conformista che caratterizza la Chiesa in cui viviamo. Ci interroghiamo spesso sulle «iniziative coraggiose» a cui ci esorta la nostra Regola al capitolo 15; ma forse la più importante di tutte è pensare con la nostra testa per essere voce libera e coscienza critica nella Chiesa e nella società, singolarmente e come Ordine. L’unitarietà ormai faticosamente realizzata non può ridursi a una mera sommatoria di novizi e professi, a un ridisegno di confini geografici, a una fusione a freddo di consigli provinciali; al contrario, va interpretata come occasione storica per promuovere un cambio di mentalità, per sviluppare una maggiore autocoscienza, per dare inizio a un nuovo modo di fare e di sentirsi O.F.S.. Questa rubrica vuole essere una iniziativa in questa direzione: uno spazio di libero confronto che sia come una finestra aperta sulla vita dell’Ordine e della Chiesa. Ma ciò dipenderà anche da quanti la seguiranno e come.

Pace e bene

Pietro Urciuoli, OFS Avellino Roseto