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SPIRITUALITÀ IGNAZIANA E CARISMA FRANCESCANO

papa Francesco
papa Francesco

Un figlio di sant’Ignazio di nome Francesco. Anche questo singolare accostamento fa parte della pacata sorpresa costituita dall’elezione del cardinal Bergoglio a vescovo di Roma. Un gesuita – il primo della storia – eletto successore di Pietro che sceglie come nome quello del santo di Assisi, con un’audacia evangelica che nemmeno i quattro papi francescani di un passato ormai lontano avevano osato intraprendere. Ma cosa accomuna spiritualità ignaziana e carisma francescano? Una risposta esauriente l’avremo certamente dal ministero petrino che si è inaugurato la sera del 13 marzo, ma qualcosa può già essere detto.
Innanzitutto credo che in Ignazio di Loyola come in Francesco d’Assisi ci sia l’esigenza e la capacità di andare all’essenziale, al cuore del messaggio evangelico: con l’adesione alla Parola di Dio, l’obbedienza alla sua autorità, al suo essere regola di vita e di comportamento. Tutto il resto – carismi, studi, strumenti, parole e gesti – le deve essere subordinato per poter imitare Cristo, per seguire Gesù ovunque lui vada e chieda ai suoi discepoli di andare. Da questo ascolto prioritario e amoroso della Scrittura, da questo rapporto quotidiano con il Vangelo nella sua nudità nascono la saldezza e il discernimento per andare ad annunciare la buona notizia a tutti: senza venir meno di fronte alle difficoltà e alle situazioni più estreme, senza lasciarsi distrarre da scopi secondari, senza confusioni tra volontà propria e volontà di Dio.
Poi, strettamente legata a questo, un’ardente passione per la missione, per farsi “Cristofori”, portatori di Cristo là dove egli desidera essere portato: tra i saraceni come agli estremi confini della terra d’oriente come d’occidente, accogliendo e capendo le diverse culture o parlando il linguaggio universale della semplicità disarmata. E, in questo andare verso i lontani, la capacità di restare saldamente radicati alla propria identità evangelica, al prezzo di una solitudine di frontiera per i figli di sant’Ignazio o della radiosa povertà dei discepoli mandati a due a due senza denaro né bisaccia per i seguaci del santo di Assisi.Ma un altro elemento, ancor più manifesto, unisce la spiritualità ignaziana al nome di Francesco, ed è Francesco Saverio, uno dei primi compagni di Ignazio di Loyola, missionario nelle estreme terre dell’Asia, capace di intuire la sfida appassionante che le genti di oriente portano alla corsa della Parola di Dio, uomo di frontiera disposto a morire come chicco di grano perché il seme del Vangelo potesse germinare anche in terre così feconde e lontane.
Sono tutti tratti che ritroviamo fin dai primi gesti di papa Francesco e, ancor prima, nella scelta del suo motto episcopale: “Miserando et eligendo”, avere compassione, chinarsi sui miseri e scegliere, chiamare alla sequela di Cristo. Così non sorprende che Francesco – l’unicità del suo nome da papa lo spoglia anche dell’attributo “regale” del numero ordinario – alla prima uscita nella chiesa di Santa Maria Maggiore chieda come prima cosa di “lasciare aperta la chiesa” perché possa entrare tutta la gente semplice, pellegrini come lui, e poi, rivolto a quanti vi esercitano il ministero della confessione, insista per ben tre volte a usare misericordia. Sì, sono questo camminare insieme con il popolo cristiano, questo fare syn-odos, “cammino insieme” vescovo e popolo, e l’uso della misericordia, la “medicina” indicata già da papa Giovanni per la chiesa, questo “cuore per i miseri”, questa elezione dei piccoli e dei poveri che paiono già caratterizzare inequivocabilmente il ministero del sorprendente gesuita di nome Francesco.

ENZO BIANCHI: La nuda missione – Avvenire, 15 marzo 2012

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IL CONCLAVE

conclaveQuesto pomeriggio, dopo la messa “pro eligendo” della mattina, è iniziato il Conclave che eleggerà il nuovo Pontefice. Possiamo, certamente, considerare questo come un evento eccezionale, non solo per noi fedeli, ma soprattutto per il mondo dell’informazione che ne trarrà i suoi benefici.
All’improvviso tutti sono interessati a quello che accade nella Chiesa, curiosando con telecamere e altre diavolerie, per setacciare gli “uomini” ai raggi X, giudicandoli secondo il personale metro di giudizio che propinano a un’opinione pubblica sempre più conformista e, quindi, incapace di farsi una propria idea.
Quando la Chiesa si affaccia sulla vita dell’uomo viene subito respinta nel suo recinto, perché la vita quotidiana non ha nulla a che fare con la preghiera, per questo la fede non può intralciare la vita sociale. Oggi inizia il Conclave per eleggere un nuovo Papa e, ne sono certo, a molti di noi saranno i mezzi d’informazione a dire se sarà un buon Pastore o meno. La sua “scheda” è già pronta in qualche archivio pronta ad essere lanciata in pasto alla massa.
Noi, però, non lasciamoci condizionare dai giudizi che altri possono dare sul nostro futuro Pastore. Amiamolo fin dal primo giorno, perchè lo Spirito santo ce lo avrà donato. Preghiamo per Lui, perchè Benedetto XVI ci ha aperto gli occhi sulla difficoltà a guidare la Chiesa di Cristo del terzo millennio.
In particolare noi, Francescani secolari, aiutiamolo a sorreggere, con le nostre spalle il peso della sua che, poi, è anche la nostra missione, certi che stiamo camminando tutti verso la stessa meta, accompagnati dalla luce dello Spirito Santo che raddrizza ogni nostra stortura.
Pace e Bene

Ciro

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SENZA PASTORE

papa_benedetto_xvi_a_milanoSanto Padre, quando il mio collega di lavoro, dall’altra parte della parete che separa il mio ufficio dal suo, mi annunciava delle tue dimissioni, ho creduto fosse uno scherzo.
Nonostante ciò, ho avviato internet, per avere una conferma che fosse solo una bufala e, riprendere, così, il mio lavoro dove l’avevo lasciato.
Mi sono collegato al sito www.repubblica.it e ho avuto come un tuffo al cuore, nel verificare che, invece, era tutto vero.
Tante sono state le ipotesi di chi, come me, cercava di spiegarsi il perché di questo gesto così “grave”: gli scandali, lo stato di salute del papa, la corruzione nella Chiesa …
La mia prima reazione, però, non è stata quella di indagare, per capire il perché, ma di condivisione per il dolore che stava dietro a quella decisione.
Un papa che si dimette non si vede tutti i giorni, anzi, con l’esempio di Giovanni Paolo II ero sempre più abituato all’idea che il papa rimane pastore della sua Chiesa, fino all’ultimo giorno della sua vita.
Da quel giorno, ogni volta che pensavo a Benedetto XVI, sentivo un senso di sofferenza nel cuore, come sapere di una persona cara che vive tra la vita e la morte, nella stanza di un ospedale.
Chissà da quanto tempo si portava questo dolore nel cuore e come ha fatto a convivere con questa sua sofferenza?
Noi siamo abituati ad apprezzare solo la sofferenza esteriore – per noi Giovanni Paolo II è stato un grande testimone, perché ha servito Cristo, anche quando non ne aveva più le forze, – e la sofferenza di Benedetto XVI?
Quante volte avrà chiesto al suo e nostro “Datore di lavoro”: Signore cosa vuoi che io faccia?
E chi lo avrebbe aiutato o compreso? Chi avrebbe potuto consigliarlo?
Ha vissuto tutto questo tempo, solo, con la sofferenza nel cuore, senza poterla condividere con nessuno.
Qualche tempo fa ho visto il film di Nanni Moretti: “Habemus Papam” che qualche giornalista ha subito collegato a questi ultimi eventi.Questo film mi è piaciuto, perché raccontava l’umanità di un papa che non si sentiva adeguato al ruolo di guida della Chiesa e già allora ho provato tanta tenerezza, per quello che, in fondo, era solo un uomo.
In questi ultimi giorni, ho pregato tanto per Benedetto XVI, ma anche per tutti noi.
Credo, infatti, che quanto accaduto sia un segno di Dio che ci chiede di ravvederci, perché in quella “barca” ci siamo anche noi e, se facessimo un profondo esame di coscienza, forse tutti noi dovremmo dimetterci dal nostro ruolo di “cristiani”, perché inadeguati, o, perché stiamo sbagliando direzione.
Le dimissioni del “nostro” papa non devono ridursi a un grande fenomeno mediatico, ma un’occasione di profonda riflessione per tutta la Chiesa, come istituzione e come popolo di Dio; non può tutto finire nel detto: “Morto un papa se ne fa un altro”.
Forse è proprio questa la differenza: se questo papa fosse arrivato alla fine dei suoi giorni, naturalmente, non sarebbe successo nulla di particolare, se non l’avviarsi di determinate procedure, per eleggere un nuovo pontefice. Con le sue dimissioni, invece, niente più sarà uguale a prima.
Ratzinger ha aperto una porta che alti papi attraverseranno? E che influenza avrà il mondo esterno nel condizionare un papa, per indurlo a dimettersi?
Solo il tempo, forse, potrà darci delle risposte, la cosa certa, però, è che da ieri sera, siamo tutti un po’ più soli; siamo come pecore senza pastore.
Preghiamo, allora, perché da questo tempo di profonda sofferenza possa rinascere una Chiesa rinnovata, testimone più credibile dell’amore di Cristo per l’umanità.

Pace e bene.
Ciro d’Argenio

 




I DUE PONTEFICI IN VATICANO

Benedetto-XVILa scelta laica di Benedetto XVI. Con le sue dimissioni il Pontefice segna la distinzione tra “fare” ed “essere” Papa.

A partire da Pasqua la Chiesa cattolica avrà due papi, uno solo de facto, ma tutt’e due de iure? A parte il celebre caso di Celestino V e Bonifacio VIII alla fine del Duecento, una situazione del genere non si era mai verificata in duemila anni di storia, senza considerare che papa Celestino passò il tempo da ex-papa prima ramingo e poi imprigionato a molta distanza da Roma, mentre Benedetto XVI continuerà ad abitare in Vaticano a poche centinaia di metri dal successore.
Costituirà per lui un’ombra o una sorgente di luce e di ispirazione? Ovviamente nessuno lo sa, neppure lo stesso Benedetto XVI, il quale certamente è una persona discreta e assai rispettosa delle forme, ma il cui peso intellettuale e spirituale non può non esercitare una pressione su chiunque sarà a prendere il suo posto. Una cosa però deve essere chiara: a Pasqua non ci saranno due papi, ma uno solo, perché Joseph Ratzinger non sarà più vescovo di Roma ed essere papa significa prima di tutto ed essenzialmente essere “vescovo di Roma”…
L’inedita situazione determinata dalle dimissioni di Benedetto XVI è di grande aiuto per comprendere che cosa significa veramente fare il papa. Fino a ieri “essere papa” e “fare il papa” era la medesima cosa. Fino a ieri la persona e il ruolo si identificavano, non c’era soluzione di continuità, ed anzi, se tra le due dimensioni doveva prevalerne una, era certamente quella di “essere papa” a prevalere, facendo passare in secondo piano il fatto di avere o no le piene possibilità di poterlo fare. Tutti ricordano, ai tempi della conclamata malattia di Giovanni Paolo II, le ripetute assicurazioni della Sala stampa vaticana sulle sue condizioni di salute. Giovanni Paolo II non poteva più fare il papa, ma lo era, e ciò bastava. Prevaleva la dimensione sacrale, legata all’essenza, al carisma, allo status, all’essere papa a prescindere anche dal proprio corpo. E non a caso Giovanni Paolo II, quando qualcuno gli prospettava l’ipotesi delle dimissioni, era solito ripetere che «dalla croce non si scende». Benedetto XVI vuole forse scendere dalla croce? No, si tratta di altro, semplicemente del fatto che egli ha prima riconosciuto dentro di sé e poi ha dichiarato pubblicamente che il calo progressivo delle forze fisiche e psichiche non gli permette più di “fare il papa” e quindi intende cessare di “essere papa”. La funzione ha avuto la meglio sull’essenza, il ruolo sull’identità. Io aggiungo che la laicità ha avuto la meglio sulla sacralità.
Si è trattato infatti di una decisione laica, perché opera una distinzione, e laddove c’è distinzione, c’è laicità. La distinzione tra la persona e il ruolo introdotta ieri da Benedetto XVI con le sue dimissioni si concretizza in queste parole dette in latino ai cardinali: «Le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino». C’è un ministero, una funzione, un ruolo, un servizio, che ha la priorità rispetto all’identità della persona.
La parola decisiva nell’annuncio papale di ieri è però un’altra, la seguente: «Nel mondo di oggi». Ecco le sue parole: «Nel mondo di oggi per governare la barca di san Pietro è necessario anche il vigore sia del corpo sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito». Nel mondo di ieri, fa intendere Benedetto XVI, la distinzione tra persona e ruolo poteva ancora non emergere e un Joseph Ratzinger indebolito avrebbe ancora potuto continuare a svolgere il ruolo di Benedetto XVI. Nel mondo di oggi, invece, non è più così. Io considero queste parole non solo una grande lezione di auto-consapevolezza e di laicità, ma anche una grande occasione di ripensamento per il governo della Chiesa. Le dimissioni di Benedetto XVI possono condurre a una riforma della concezione monarchica e sacrale del papato nata nel Medioevo, e riprendere la concezione più aperta e funzionale che il ruolo del papa aveva nei primi secoli cristiani?
È difficile che ciò avvenga, ma rimane l’urgenza di rimettere al centro del governo della Chiesa la spiritualità del Nuovo Testamento, passando da una concezione che assegna al papato un potere assoluto e solitario, a una concezione più aperta e capace di far vivere nella quotidianità il metodo conciliare. Non si tratta infatti solo delle condizioni di salute di Joseph Ratzinger che vengono meno. Occorre procedere oltre e giungere a porsi l’inevitabile interrogativo: “nel mondo di oggi” è in grado un unico uomo di guidare la barca di Pietro? Si obietterà che il papa non è solo, ma è circondato da numerosi collaboratori. Ma si tratta di collaboratori ossequienti, spesso scelti tra plaudenti yes-men e senza capacità di istituire un vero confronto e una serrata dialettica interna, condizioni indispensabili per assumere decisioni in grado di far navigare la barca di Pietro “nel mondo di oggi”. All’inizio però non era così. San Pietro aveva certamente un ruolo di guida nella prima comunità, come si apprende dal libro degli Atti, ma non esercitava tale funzione con potere assoluto, perché altrimenti non si capirebbe il concilio tenutosi a Gerusalemme verso l’anno 50 e l’aperta opposizione di San Paolo verso di lui nell’episodio di Antiochia.
L’annuncio papale di ieri è avvenuto nel contesto di alcune canonizzazioni, una delle quali riguardava i Martiri di Otranto, gli 800 cristiani uccisi dagli ottomani nel 1480 per non aver rinnegato la fede. Martirio è testimonianza. La tradizione della Chiesa però oltre al martirio rosso del sangue versato conosce il martirio verde della vita itinerante per l’apostolato e il martirio bianco per l’abbandono di tutti i propri beni. Nel caso di Benedetto XVI abbiamo a che fare con un martirio-testimonianza di altro colore, quello del riconoscimento della propria debolezza, della propria incapacità, del proprio non essere all’altezza. È la fine di una modalità di intendere il papato, e può essere la nascita di qualcosa di nuovo.

Vito Mancuso, La Repubblica 12 Febbraio 2013

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CREDO IN UN SOLO DIO …

“Credo in un solo Dio” è il video tratto dall’incontro di formazione tenuto da p. Gianluca Manganelli alla Fraternità Ofs di Avellino – Roseto. L’argomento è il “Credo”, analizzato nella sua parte iniziale, fino all’incarnazione che sarà trattata nell’incontro del 15 dicembre. Anche se la qualità e l’audio non sono eccezionali, con un po’ di attenzione, si riesce comunque a seguire bene. In seguito ci organizzeremo meglio, per migliorare la qualità video e, soprattutto, audio, affinché anche da casa si possa comunque coltivare la propria fede, anche quando gli impegni della vita non ci lasciano un attimo di tregua per dedicarci alla nostra anima, l’unica parte di noi che non si corrompe e che nessuno può rubarci.

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COME ANDÒ A FINIRE LA QUINTA CROCIATA?

Il 5 novembre 1219 la città di Damietta venne conquistata dai cristiani; fu un massacro. Il vescovo Oliver von Paderborn scrisse che, quando la città cadde, su 80.000 abitanti, solo 3.000 vennero lasciati in vita. I corpi vennero lasciati ovunque, a nutrimento dei cani.
I crociati saccheggiarono e cominciarono subito a litigare tra loro per la spartizione del bottino, poi il cardinal Pelagio impose l’ordine prospettando la marcia verso il Cairo. Altri scontri armati, devastazioni e saccheggi. Il sultano ripeté l’offerta di pace in cambio della Terrasanta, nuovamente respinta dai crociati, i quali proseguirono la guerra a oltranza, avvicinandosi al Cairo. Allora il sultano fece aprire le dighe del Nilo, impantanando i carri e i pesanti armamenti dell’esercito crociato. Fu la disfatta totale. I guerrieri erano ormai bloccati e impotenti, alla mercé dei saraceni. A quel punto il sultano offrì ai crociati una tregua di otto anni. Essi accettarono.
Il comandante crociato Giovanni di Brienne disse a Pelagio: “Ah, signor legato, se solo ve ne foste rimasto in Spagna! Siete stato Voi a precipitare la cristianità in rovina!”Il cronista Oliviero di Colonia, parlando della generosità degli arabi dopo la firma del trattato col sultano al-Kamil, scrisse: “…Quegli stessi egizi di cui noi avevamo appena ucciso le famiglie, che avevamo rapinato e cacciato da casa e beni, vennero ora a curarci e salvarci, noi che eravamo in loro balìa, dalla morte per fame…”
Lo stesso sultano, nell’anno 1229, offrirà di nuovo la Terrasanta all’imperatore Federico II, il quale aveva giurato di impegnarsi nella crociata, ma con il continuo rimandare s’era trovato scomunicato. L’imperatore otterrà Gerusalemme tramite negoziati amichevoli con il sultano, evitando la guerra, ma invece di vedersi levare la scomunica, egli si vedrà piombare addosso la collera del papa, fino all’incredibile proclamazione di una crociata contro di lui. L’imperatore sarà sollevato dalla scomunica e dalla persecuzione nel 1231, ma solo al prezzo di porre alcuni suoi territori sotto il dominio della Chiesa.
Si calcola che nel corso delle crociate (un paio di secoli) abbiano perso la vita circa due milioni di esseri umani, in un’epoca nella quale l’Europa contava al massimo 18 milioni di abitanti.
Gerusalemme, lasciata senza difese, finirà assalita e conquistata nel 1244 da bande nomadi di un oscuro popolo asiatico, i Corasmi, scacciati dalle loro terre dall’orda dei mongoli di Gengis Khan.
Le crociate successive avranno altri obiettivi, l’Egitto e perfino Tunisi. La Terrasanta non interessava più alle grandi potenze cristiane; i principati Franchi di Siria vennero lasciati al loro destino. I sultani d’Egitto completarono in pochi decenni la riconquista del territorio. L’ultima fortezza crociata, Acri, cadde nel 1291 dopo un’eroica difesa condotta dai Templari.
Nessuno venne loro in aiuto.

Aggiunta storica personale di
Patrizia Mancini

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SAN FRANCESCO E IL SULTANO – parte prima

Appunti dalla giornata di studio “SAN FRANCESCO E IL SULTANO”
25 settembre 2010 – “sala delle laudi”, convento San Francesco, Via A. Giacomini 3, Firenze.

Appunti di Patrizia Mancini, Ordine Francescano Secolare (Siena). Questi appunti non pretendono di essere completi, ho semplicemente annotato le cose che mi hanno colpito di più. Li fornisco come condivisione per tutti quelli a cui l’argomento può interessare.

***
Giuseppe Ligato, La crociata a Damietta tra legato papale, profezie e strategie.

Appunti:
1219 – L’esercito crociato, per scelta strategica, invece di dirigersi verso la Terrasanta invade l’Egitto e assedia la città di Damietta sul Delta del Nilo. Il sultano Malik-al Kamil, che ha già difficoltà interne al suo regno e non vuole altre seccature, offre Gerusalemme purché i crociati se ne vadano. Alcuni comandanti crociati sarebbero favorevoli, ma la pace viene respinta del legato pontificio, cardinal Pelagio. Il sultano allora offre l’intera Terrasanta, riservando per sé l’Egitto e qualche castello in Giordania. Si impegna persino a ricostruire le mura di Gerusalemme a proprie spese. Anche questa offerta viene respinta dal legato pontificio. Il papa avallò quel rifiuto (proposta non grata vel accepta) perché tenendo la situazione in stallo voleva mettere fretta all’imperatore Federico II, che si coinvolgesse anche lui nella crociata. Previsione e scopo: non il semplice recupero della Terrasanta, ma il ripristino della cristianità in tutto l’oriente. Delta del Nilo: voluto perché utile ai commerci pisani e genovesi. Idem l’Egitto intero.
La V crociata fu sospinta da profezie fasulle, o tradotte in modo astuto, o semplicemente male interpretate a causa dell’incomprensione di uno stile letterario: nel genere “profetico”, eventi già accaduti sono narrati col tempo verbale del futuro. Era lo stile tipico di queste composizioni, ma gli esegeti non lo sapevano. Nella cristianità si parlava di profetica certitudine; veniva fatta girare una profezia attribuita a un povero vagante (mai identificato) che dava l’assoluta garanzia dal Cielo che Gerusalemme sarebbe stata cristiana sotto il papa allora vivente (Onorio III). Paradossalmente, tale profezia si sarebbe realizzata davvero, se solo i cristiani avessero accettato l’offerta di pace del sultano. Ma la disponibilità dei capi crociati all’accordo si infranse contro l’intransigenza del legato pontificio e delle alte sfere della gerarchia ecclesiastica.
In realtà, quel che si voleva era l’annientamento dell’islam, sia in senso politico (Stato) sia in senso religioso.
***
Anna Ajello, I Frati Minori e i Saraceni agli inizi del XIII secolo.

Appunti:
L’incontro tra San Francesco e il Sultano ebbe una fortissima risonanza, deducibile dal numero altissimo di citazioni del fatto, nelle fonti (sia crociate sia laiche) e nell’iconografia. Per logica, quell’incontro probabilmente è accaduto davvero, perché cos’è accaduto dopo? La missione verso gli infedeli diventò il tratto distintivo e la vocazione specifica francescana. In Francesco c’era un aprirsi al mondo, “ad gentes”. Oggi potremmo dire che fu un inizio di globalizzazione. Fu un fatto storico: nei francescani c’era questa spinta verso sentieri sconosciuti e luoghi nuovi.Ma san Francesco, perché andò a predicare il Vangelo ai saraceni? voleva convertire il sultano o perseguiva il martirio? Difficile dirlo. Di sicuro la realtà che san Francesco si trovò davanti deve averlo lasciato stupefatto. Non solo l’accoglienza amichevole. Alla corte del sultano Malik-al-Kamil c’erano 5000 cristiani, perlopiù copti, ma anche operatori commerciali europei. Il papa di allora aveva lanciato la scomunica per chi, cristiano, commerciava coi musulmani. Le scomuniche venivano ripetute, segno che il fatto continuava. In pratica, questi rapporti commerciali venivano considerati “rapporti con il nemico”. Malik-al-Kamil era invece aperto, come si è appena detto. Roma cercherà di frenare i francescani nella loro missionarietà e originalità apostolica perché spesso il loro agire va in contrario alla politica papale. I francescani di fronte a questi ostacoli avranno varie reazioni: ansia di rinnovamento spirituale, missione per “recuperare la cristianità”; progetto culturale per recuperare i nemici con un colloquio (incontro tra San Francesco e il sultano visto come idea, come modo di agire).
La missione ad gentes, tra infedeli e in terre lontane, per san Francesco e i suoi frati significa:
I FRATI NON HANNO NEMICI. Neanche in quelli che tutti gli altri considerano nemici. Pensare a tutti gli uomini come potenziali amici. Uno specifico dell’ordine: andare in giro per il mondo, predicare la conversione (la penitenza) e la pace.
Le prime missioni francescane non danno frutti immediati ma danno frutti di conoscenza.
Francesco scoraggiò l’imitazione degli euforici per desiderio di martirio. Francesco non ama l’esaltazione.
I frati primi predicatori portavano con sé un bagaglio culturale con visione dell’islam negativa (leggende, canzoni, ecc.) ma cultura vera, poca. Anche dopo, partivano più o meno ignoranti e sospettosi, non certo per colpa loro, ma perché dipendenti da un corpus di testi classici (cluniacensi, arcivescovo di Toledo, bizantini) concepiti come polemistica anti-islamica (che comunque è sempre una via alternativa allo scontro).
Risultati dei contatti con i musulmani: ci fu conoscenza chiara del loro monoteismo assoluto, del loro concetto di rivelazione divina, e delle loro accuse al cristianesimo. I frati si accorgono della prossimità di islam e cristianesimo. Nasce l’idea di colloqui per alleanza intellettuale, armonia almeno filosofica. Scoprono che il saraceno è prossimo. Infine scoprono che l’islam non è un’eresia del cristianesimo, come gli avevano detto, è proprio un’altra cosa, a sé. I frati nel vedere le persone professare l’islam si interrogano su quanto nelle proprie terre ci sia la stessa sincerità e devozione. Pensano a come sono i cristiani (tiepidi). Scoprono che le minacce a volte vengono più dai cristiani locali che dai musulmani stessi. (Frate Egidio venne cacciato da Tunisi proprio dai mercanti cristiani, perché il suo predicare faceva danno agli affari). Inoltre imparano a predicare come insegnava san Francesco: non verbo ma exemplo. Le fonti francescane ci mostrano che riguardo alle missioni tra gli infedeli i frati oscillano tra paura e attrazione. Il fatto storico è che nasce un contatto, una via d’incontro. A volte dialogo, a volte scontro, ma è sempre un contatto. Anche quando i frati si convincono che è impossibile convertire i saraceni, sentono che è possibile viverci in mezzo mantenendosi cristiani. I frati così restano in Terrasanta anche dopo, in pace.
***

Padre Pacifico Sella, ofm – L’incontro tra frate Francesco e il Sultano

Appunti:
Il sultano d’Egitto, Malik-al-Kamil, era nipote (di zio) del Saladino. Naturalmente ci fu un uso ideologico del fatto e ci furono anche gli scettici (incontro storicamente avvenuto e poi stop). Invece Francesco aveva un piano operativo apostolico: uscire dallo “stretto” della cristianità di allora e cercare il contatto con chi è lontano e diverso. Inoltre, farlo persino in tempo di crociata, quando c’era sterminio di prigionieri da ambo le parti.
In missione di pace
Era il settembre del 1219, durante l’assedio di Damietta, città sul Delta del Nilo. Vi era una breve tregua nei combattimenti. Il Sultano era noto come persona mite. Da dati storici si deduce che probabilmente Francesco, più che convertire, sperava di ottenere la pace o almeno una tregua lunga; che in Gerusalemme e in Terrasanta ci fosse libertà di passaggio per i pellegrini, senza fargli pagare gabelle, in cambio del ritiro dei crociati dall’Egitto. Il sultano era in difficoltà, pronto ad accettare pur di salvare la città di Damietta e il suo trono. Offrì persino più del previsto: l’intera Terrasanta purché la guerra finisse. Purtroppo alcuni capi crociati e soprattutto il legato pontificio dissero di no. Perché questo no che a noi sembra assurdo? Perché con la pace interessi economici saltavano e guadagni previsti sfumavano. Se la proposta di accordo fosse stata accettata, ciò avrebbe completamente svilito la crociata rispetto alle sue motivazioni portanti. Essendo il fine della crociata la conquista della Terrasanta per via militare (con tutto ciò che implicava sul piano finanziario), l’ottenere tale scopo mediante un accordo diplomatico avrebbe comportato la conclusione della crociata stessa (e il fallimento di tutti coloro che in essa avevano finanziariamente investito…)
Nell’impresa di Francesco che oltrepassa le linee nemiche in cerca del comandante dell’esercito avversario, c’è la ricerca della pace attraverso il confronto dialogico. Francesco prevede il rischio di morte, ma non la cerca in se stessa.
Interpretazione della prova del fuoco di fronte al sultano, spesso raffigurata da Giotto in poi. Innanzitutto nessun fuoco è mai stato acceso: l’unica fonte che riporta tale prova (legenda maior di San Bonaventura) dice che essa era solo una proposta, oltretutto respinta dal sultano stesso.
Altro falso storico grave: i cosiddetti Verba Fratri Illuminati, nel Liber Exemplum ecc. [Fonti Francescane 2690-2691]. Si trovano nel Codice Ottoboniano Vaticano. Ora si è visto che questi Verba sono falsi, ma erano fatti così bene che hanno ingannato anche gli esperti (“e anche me”, aggiunge Padre Sella umilmente. “Lo riconosco, c’ero cascato anch’io”). Che c’era scritto? I Verba riportano presunte conversazioni tra san Francesco e il Sultano, in cui Francesco polemizza e dà ragione ai crociati. Detto in breve, prima il Sultano lo accoglie facendolo camminare su un tappeto tessuto a croci, e gli dice con scherno: ma come, tu calpesti la croce? E Francesco gli risponde: ma queste son le croci vostre, noi abbiamo la croce del Signore, voi avete le croci dei ladroni. Poi il sultano gli chiede: perché voi cristiani ci attaccate? È forse nell’insegnamento di Gesù? E lui gli risponde: sì, perché Gesù dice “se il tuo occhio ti scandalizza, cavalo, se il tuo piede ti scandalizza, taglialo”; voi ci siete d’impedimento nella religione e dunque noi vi eliminiamo.
Ora sappiamo che questo dialogo è stato copiato da altre polemiche tra musulmani e cristiani. Il discorso è stato riscoperto di recente in una cronaca risalente alla prima crociata, cent’anni prima di san Francesco. Quindi chi aveva pronunciato quelle frasi non era lui. Il falso puntava a trasformare san Francesco in un sostenitore della guerra santa, invece che nell’uomo del dialogo che era stato. Purtroppo il falso funzionò. I futuri frati arrivarono a essere sostenitori delle crociate.
***

Alcune precisazioni del Prof. Franco Cardini.

Appunti:
Nonostante quel che si raccontava in Europa, i musulmani non avevano MAI impedito ai pellegrini cristiani di raggiungere i luoghi santi, purché pagassero un tributo. Prima che cominciassero le crociate era consentito anche il commercio. Durante la crociata, tutto sospeso. Legislazione eccezionale. Per chi pagava l’obolo c’era la scomunica. Guerra totale, senza pietà. Più che guerra di religione, era una guerra e basta.
Quando san Francesco partì, lui che ne sapeva dell’islam? Probabile una sorpresa sul credo islamico. Per loro Gesù è un grande profeta, viene detto SIGNORE Gesù, un titolo che non viene dato neanche a Maometto. Credono che il Signore Gesù tornerà dal cielo alla fine dei tempi per sconfiggere satana. Gesù è definito Spirito di Dio. Poi hanno anche il culto di Maria. Ovvero. Francesco scopre con sorpresa che esistono anche i punti di unione.
Il modus operandi dei frati martiri del Marocco è completamente diverso dal modus operandi prescritto da Francesco nella Regola non Bollata. Francesco proibisce la lettura di quel martirio. Oltre al motivo riportato dalle Fonti (non gloriarsi dell’eroismo altrui), l’avrà proibita anche per evitare un’imitazione del loro agire?
– Precisazione di un vescovo francescano: secondo la tradizione dell’Egitto, che là viene ancora insegnata nelle scuole, nella visita al sultano i due frati vengono a DISSOCIARSI dalle crociate e dicono che la loro fede (Gesù Cristo) non le approva.
Altri:
– Sulla prova del fuoco e la falsa polemica riportata nei Verba Fratri Illuminati:
La vera opinione di Francesco si ricava da ciò che lui ha scritto nel cap. 16 della Regola non Bollata. “I frati evitino contese e dispute di parole”. Questo avrebbe già proibito a Francesco di fare una disputa e la prova del fuoco.
– Francesco deve essere rimasto colpito dalla prassi dell’islam: nella lettera ai reggitori dei popoli chiede che un banditore, dall’alto di una torre, a ore fisse inviti alla lode di Dio: un muezzin. Nella ad universo populo – ovvero a tutti, cristiani e non – per dire Dio dice “l’Altissimo” che è una parola che possono accettare sia cristiani sia musulmani.
– Chiediamoci: chi è per noi il sultano oggi?
– Quando Francesco parla di stare tra i saraceni, il verbo stare presuppone una presenza fissa. Nella Regola non Bollata non c’è nessun accenno esplicito al martirio, nella Bollata nemmeno, anche se il rischio c’era e si sapeva: quindi Francesco non vuole che si vada là allo scopo di diventare martiri, ha in progetto lo stare, l’obiettivo di vivere insieme nella speranza di evangelizzare.
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Chiara Frugoni, L’iconografia dell’incontro tra san Francesco e il sultano.

Attraverso la proiezione di numerose immagini di tavole dipinte, affreschi e quadri, la professoressa mostra come sia sempre stata rappresentata la sfida del fuoco acceso, in realtà mai avvenuta, oppure un incontro rigido tra avversari, e non il dialogo amichevole tra i due. Ovviamente il motivo di tali raffigurazioni sta nell’esaltare il santo come eroe e gli altri come arroganti (il sultano in trono) o vigliacchi (i sacerdoti islamici in fuga). Solo in una raffigurazione dei primi tempi, la tavola della cappella Baldi in Santa Croce a Firenze, si vede san Francesco che predica al sultano e a una folla di saraceni, tenendo nella mano sinistra il libretto del Vangelo, con la mano destra alta che pare accennare un segno di benedizione verso di loro. In questa raffigurazione, Francesco viene ascoltato con attenzione e con rispetto (persone comodamente sedute, occhi rivolti verso di lui). Un paio di saraceni hanno perfino la mano tesa verso Francesco. Naturalmente una simile immagine non tornava comoda per rappresentare il nemico infedele, quindi non ne fecero più.

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Fine prima parte.

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“VOI SIETE LA SPERANZA DELLA CHIESA! VOI SIETE LA MIA SPERANZA!”

Sin dall’inizio del suo pontificato, Giovanni Paolo II ha rivolto una particolare attenzione ai giovani che lui riteneva la speranza sua e di tutta la Chiesa.
Frutto di questa fiducia nei giovani, sono state le ormai famose Giornate Mondiali della Gioventù (GMG), la cui prima edizione si svolse a Roma, il 23 marzo 1986.
In quell’occasione, il papa si rivolse ai giovani, accorsi in piazza San Pietro, con la lettera “Sempre pronti a testimoniare la speranza che è in Voi”, con cui diede inizio al suo pellegrinaggio, per incontrare i giovani di tutto il mondo.
Alle nove edizioni internazionali, intervallate da quelle svoltesi a carattere diocesano, sono accorsi circa tredici milioni di giovani (oggi ormai adulti) che hanno testimoniato, al mondo intero, la disponibilità ad accogliere il messaggio di Cristo, se, chi glielo trasmette, riesce a toccare le corde del loro cuore, amandoli, valorizzandoli e responsabilizzandoli.
Questo è uno degli aspetti che vorrei oggi mettere in risalto della “Santità” di Giovanni Paolo II: l’amore per i giovani!
Ieri, tra i tanti servizi televisivi che hanno commosso tutti noi, mi ha fatto molto piacere rivivere le emozioni, attraverso le immagini e le parole, di questi grandi raduni in cui i giovani incontrano il Vicario di Cristo.Due episodi, tra gli altri, mi hanno commosso più di tutti.
Il primo ritrae un Giovanni Paolo II, ancora giovane, che, impugnando il crocifisso, intona un ritornello, in risposta alla folla che lo aveva acclamato e che recita così: “John Paul two, he loves you! –John Paul II he loves you! ” (Giovanni Paolo II ama voi!).
In questa circostanza si è manifestato tutto l’amore del papa per i “suoi” giovani, i famosi “papaboys”. Un amore che si lascia coinvolgere che coinvolge e che, il giorno dopo, ti fa essere una persona nuova (non è quello che accadeva ogni volta che un peccatore incontrava il Cristo?).
La Chiesa, però, secondo il mio modesto avviso, oggi ha perso gran parte di quell’entusiasmo che coinvolgeva tanti giovani e questo è un aspetto su cui meditare.
Nel secondo episodio che mi ha commosso ancora di più del primo, è stato ripreso Giovanni Paolo II, più anziano e già molto acciaccato, quando, alla GMG di Roma, nel Giubileo del 2000, tradusse un proverbio polacco che recitava così, all’incirca: “quando stai con i giovani, devi diventare anche tu giovane”.
Questa frase ha suscitato in me grande emozione, per il suo profondo significato e perché ha portato la mia mente a rivivere emozioni che, ormai, custodisco gelosamente nel mio cuore, ma che, ogni tanto, mi fa piacere spolverare e condividere con qualcuno.
Quella sera, nella grande spianata di Tor Vergata, c’ero anch’io!
Non è possibile sintetizzare in due righe le emozioni che ho provato in quella settimana e che ho condiviso con quella che poi sarebbe diventata mia moglie e con parte della mia fraternità.
Ho vissuto emozioni fortissime, dal disagio di dormire sul pavimento, all’entusiasmo di pregare insieme sotto un milione di stelle; dal risveglio in un sacco a pelo bagnato dall’umidità, all’incontro casuale con la jeep del papa, mentre, alle otto del mattino, ero andato, a una fontanella lontano, a lavarmi i denti.
E, quando tutto questo è finito, io, giovane di trentuno anni, mi sentivo una persona diversa, perché, grazie a papa Giovanni Paolo II, avevo incontrato Cristo e non volevo più lasciare quella spianata (proprio come i discepoli che non volevano scendere dal monte Tabor).
Due anni dopo, a Toronto, in Canada, ho rivissuto le stesse emozioni e, visto che sono stato lontano di casa per quindici giorni, quello che ho potuto sperimentare, più di tutto, è stata l’accoglienza.
Ho incontrato persone eccezionali sulla mia strada che mi hanno accolto, senza farmi sentire in terra straniera e lontano da casa, senza farmi mancare l’affetto di una famiglia e tutto questo in nome di Cristo, portato fino ai confini del mondo da quel papa, il cui nome, da ieri, è stato aggiunto alla schiera dei santi.
E mi piace concludere con le parole di papa Benedetto XVI che, ieri, ha così terminato la sua omelia:
«Beato te, amato Papa Giovanni Paolo II, perché hai creduto! Continua – ti preghiamo – a sostenere dal Cielo la fede del Popolo di Dio. Tante volte ci hai benedetto da questa piazza. Santo Padre oggi ti preghiamo, ci benedica! Amen».

Ciro d’Argenio




EDUCARE ALLA VITA BUONA DEL VANGELO – Incontro della fraternità OFS con S.E. Mons. Francesco Marino, Vescovo della Diocesi di Avellino

Sabato 9 aprile, in occasione del 4° incontro Zonale, oltre ottanta Francescani Secolari, provenienti dalle Fraternità dell’Ofs di Atripalda, Avellino [Cuore Immacolato di Maria], Avellino [Roseto], Mercogliano, Salza Irpina e Serino, appartenenti alla Diocesi di Avellino, si sono ritrovati, presso il convento dei frati minori cappuccini di S. Maria delle Grazie (Avellino), per incontrare S.E. il vescovo, Mons. Francesco Marino.
Nell’ambito di quest’appuntamento, il cui tema è stato: “EDUCARE ALLA VITA BUONA DEL VANGELO”, S.E. il Vescovo ha presentato, ai seguaci di Francesco d’Assisi, gli Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano, per il decennio 2010 – 2020, per rilevare l’esigenza educativa di un mondo in continua evoluzione.L’incontro è stato aperto con la celebrazione dei vespri, animata da p. Gianluca Manganelli, per proseguire con i saluti di p. Davide Panella, Assistente Regionale dell’Ofs che ha rivolto a S.E. il vescovo, il saluto, in nome di tutta la fraternità del Primo Ordine, e l’invito a prendere in considerazione l’opportunità di stabilire, una volta l’anno, un appuntamento fisso con la fraternità dell’Ofs, in particolare durante il “tempo forte” della Quaresima.
Dopo p. Davide, c’è stato l’intervento del Delegato di Macro Zona, Domenico Fiore, [LEGGI] che ha presentato la fraternità dell’Ofs nella sua struttura e organizzazione territoriale, successiva all’unificazione, avvenuta dapprima a livello nazionale e poi, dopo diversi anni, regionale.
È stata, quindi, presentata la realtà zonale, con i suoi obiettivi, stabiliti dal Consiglio Regionale, e con il suo percorso formativo, incentrato, in quest’anno sociale, sull’impegno del francescano secolare nell’ambito sociale e politico.
A conclusione del suo intervento, il Delegato di Macro Zona ha manifestato, a S.E. il vescovo, la disponibilità delle fraternità Ofs, appartenenti alla zona di Avellino, a mettersi a servizio della Chiesa locale, in continuità con la missione ereditata dal serafico Padre S. Francesco.
Dopo i suddetti interventi, ha preso la parola Mons. Francesco Marino che, all’inizio del suo discorso, riferendosi alla vocazione specifica dei francescani a passare dal “Vangelo alla vita e dalla vita al Vangelo”, ha sottolineato che dove c’è accoglienza della Parola, non può che esserci un buon frutto; poi ha proseguito il suo intervento, presentando il documento dell’Episcopato italiano nelle sue linee essenziali.
Nella prima parte, S.E. il vescovo ha illustrato le tappe che hanno portato alla scelta del tema per il decennio 2010 – 2011, dal “Grande Giubileo del 2000”, fino ad arrivare al Convegno Ecclesiale di Verona del 2006, che ha fornito l’occasione per riflettere sul cammino della Chiesa e per proporre un rinnovamento nel comunicare il Vangelo nella storia dell’uomo, mediante nuovi percorsi formativi.
La Chiesa universale, durante il “Grande Giubileo del 2000”, ha meditato il mistero dell’Incarnazione di Dio che si è fatto uomo, grazie al “si” di Maria, manifestandosi al mondo intero, senza distinzioni tra credenti e atei, esortando, così, la Chiesa a fare altrettanto e a dialogare, quindi, con tutte le realtà terrene.
Frutto del Giubileo del 2000, è stato il tema, approfondito nel decennio 2000 – 2010, “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia” che ha avuto l’obiettivo di calare il Vangelo nella storia dell’uomo che non è più la stessa di ieri, ma è in continua evoluzione.
Il IV Convegno Ecclesiale di Verona del 2006, oltre ad essere un’occasione di verifica, per il decennio in corso, è stato l’opportunità per riflettere sul futuro della Chiesa, suggerendo ai vescovi un rinnovamento diretto alla ricerca di nuovi percorsi formativi.
Nel 2008, poi, il Santo Padre, papa Benedetto XVI, in una lettera inviata alla Diocesi di Roma, ha evidenziato la necessità urgente di dedicarsi al compito dell’educazione, con particolare sollecitudine verso le nuove generazioni.
In questo senso, afferma Mons. Francesco Marino, la famiglia deve riappropriarsi del suo ruolo educativo, orientato, in particolare, all’incontro con Cristo, “Maestro di verità e vita”, e con tutti gli uomini.
Il relativismo e lo scetticismo, sempre più diffuso nella cultura contemporanea, manifestano, come ha più volte ribadito papa Benedetto XVI, un’“emergenza educativa” e la difficoltà di trasmettere i valori fondamentali da una generazione all’altra.
Il relativismo, di cui ci parla il papa, mette in risalto il fatto che ci sono tante verità, una vicina all’altra, ma non c’è un’unica verità che possa orientare la vita dell’uomo e se non c’è una verità da ricevere e da trasmettere, è difficile educare.
Il documento della Chiesa, invece, afferma che non solo è possibile educare, trasmettendo la Verità che è Cristo, ma è doveroso.
Fondamentale, afferma S.E. il vescovo, è il contributo della famiglia che deve educare all’incontro col Cristo e con tutti gli uomini.
Questo perché, l’uomo di oggi vive nella falsa convinzione di poter agire autonomamente, senza la necessità di far riferimento agli altri, mentre l’autonomia di una persona nasce da un “tu” che si completa, quando si relaziona agli altri.
Da ciò nasce anche la distorsione di un’educazione considerata autoritaria, da cui proviene la ricerca di un’educazione anti-autoritaria che, poi, è la negazione dell’educazione, perché non ci si auto-educa, ma ci si educa a vicenda.
Queste considerazioni – aggiunge S.E. il vescovo – costituiscono il punto di partenza per il ruolo educativo della Chiesa che, vivendo tra la gente, deve saperne cogliere le istanze.
Nel suo ruolo di educatrice, la Chiesa deve far maturare l’uomo alla fede, come Dio educa il suo popolo, cioè senza imposizioni, attraverso una catechesi particolarmente rivolta ai sacramenti dell’iniziazione cristiana (Battesimo, Comunione, Cresima).
Dopo una breve panoramica sui vari punti del documento, Mons. Francesco Marino ha concluso il suo intervento rilevando come il tema degli Orientamenti pastorali è rivolto alla ricerca del “buono” che, poi, è “ciò che è vero e bello”, mediante il recupero delle virtù umane (la prudenza, la giustizia, la temperanza …) che si riassumono tutte nell’amore verso l’uomo, ma, soprattutto, verso Dio, Unico, Sommo Bene.
L’incontro si è concluso con la preghiera dell’Absorbeat, preceduta dall’invito di p. Davide Panella ad approfondire questi temi all’interno delle nostre fraternità.

Ciro d’Argenio

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IL GESÙ’ STORICO SECONDO RATZINGER

di Vito Mancuso
in “la Repubblica” dell’11 marzo 2011

Nel primo libro su Gesù pubblicato nel 2007 Benedetto XVI chiedeva ai lettori quell’anticipo di simpatia senza il quale non c’è alcuna comprensione». Aveva ragione, perché occorre essere ben disposti verso l’autore di un libro o di una musica, come verso ogni persona che si incontra, per poter adeguatamente comprendere. È necessario però capire bene il senso della simpatia richiesta dal pontefice: nell’ambito teologico in cui si colloca non si tratta di un semplice sentimento, il quale peraltro c’è o non c’è perché nasce solo spontaneamente. Simpatia va intesa qui nel senso originario di patire-con, coltivando un comune pathos ideale. La domanda quindi è: qual è il pathos che ha mosso Benedetto XVI a pubblicare due volumi su Gesù di oltre 800 pagine complessive, di cui oggi arriva in libreria il secondo che riguarda, recita il sottotitolo, il periodo «dall’ingresso in  Gerusalemme fino alla risurrezione»? La preoccupazione del Papa concerne il problema decisivo del cristianesimo odierno, a confronto del quale i cosiddetti “valori non negoziabili” (scuola, vita, famiglia) sono acqua fresca: cioè il legame tra il Gesù della storia reale e il Cristo professato dalla fede. Senza scuole cattoliche il cristianesimo va avanti, senza leggi protettive sulla famiglia e la bioetica lo stesso, anzi non è detto che una dieta al riguardo non gli possa persino giovare. Ma senza il legame organico tra il fatto storico Gesù (Yeshua) e quello che di lui la fede confessa (che è il Cristo) tutto crolla, e alla Basilica di San Pietro non resterebbe che trasformarsi in un museo. Nella fondamentale premessa del primo volume, una specie di piccolo discorso sul metodo, il Papa si chiede “che significato può avere la fede in Gesù il Cristo (…) se poi l’uomo Gesù era così diverso da come lo presentano gli evangelisti e da come, partendo dai Vangeli, lo annuncia la Chiesa”, domanda retorica la cui unica risposta è “nessun significato” e da cui appare quanto sia decisiva la connessione storia-fede. Chiaro l’obiettivo, altrettanto lo è il metodo: «Io ho fiducia nei Vangeli (…) ho voluto fare il tentativo di presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale, come il Gesù storico in senso vero e proprio»; concetto ribadito nella premessa del nuovo volume dove l’autore scrive di aver voluto «giungere alla certezza della figura veramente storica di Gesù» a partire da «uno sguardo sul Gesù dei Vangeli». Il Papa fa così intendere che mentre l’esegesi biblica contemporanea perlopiù divide il Gesù storico reale dal Cristo dei Vangeli e della Chiesa, egli li identifica mostrando che la costruzione cristiana iniziata dagli evangelisti e proseguita dai concili è ben salda perché poggia su questa esatta equazione: narrazione evangelica = storia reale. Questo è l’intento programmatico su cui Benedetto XVI chiede la sua “simpatia”.
Peccato per lui però che in questo nuovo volume egli stesso sia stato costretto a trasformare il segno uguale dell’equazione programmatica nel suo contrario: narrazione evangelica ? storia reale. Il nodo è la morte di Gesù, precisamente il ruolo al riguardo del popolo ebraico, questione che travalica i confini dell’esegesi per arrivare nel campo della storia con le accuse di “deicidio” e le immani  tragedie che ne sono conseguite. Chiedendosi “chi ha insistito per la condanna a morte di Gesù”, il Papa prende atto che “nelle risposte dei Vangeli vi sono differenze”: per Giovanni fu l’aristocrazia del tempio, per Marco i sostenitori di Barabba, per Matteo “tutto il popolo” (su Luca il Papa non si pronuncia, ma Luca è da assimilare a Matteo). E a questo punto presenta la sorpresa: dicendo “tutto il popolo”, come si legge in 27,25, “Matteo sicuramente non esprime un fatto storico: come avrebbe potuto essere presente in tale momento tutto il popolo e chiedere la morte di Gesù?”. Sono parole veritiere e coraggiose (per le quali sarebbe stato bello che il Papa avesse fatto il nome dello storico ebreo Jules Isaac e del suo libro capitale del 1948 Gesù e Israele, purtroppo ignorato), ma che smentiscono decisamente l’equazione programmatica che è il principale obiettivo di tutta l’impresa papale, cioè l’identità tra narrazione evangelica e storia reale.
Alle prese con uno dei nodi più delicati della storia evangelica, il Papa è stato costretto a prendere atto che i quattro evangelisti hanno tre tesi diverse, e che una di esse «sicuramente non esprime un fatto storico». Se questa incertezza vale per uno degli eventi centrali della vita di Gesù, a maggior ragione per altri. Ne viene quello che la più seria esegesi biblica storico-critica insegna da secoli, cioè la differenza tra narrazione evangelica e storia reale.
Significa allora che tutta la costruzione cristiana crolla? No di certo, significa piuttosto che essa è, fin dalle sue origini, un’impresa di libertà. Non è data nessuna statica verità oggettiva che si impone alla mente e che occorre solo riconoscere, non c’è alcuna “res” al cui cospetto poter presentare solo un’obbediente “adaequatio” del proprio intelletto, non c’è nulla nel mondo degli uomini che non richieda l’esercizio della creativa responsabilità personale, nulla che non solleciti la libertà del soggetto. La libertà di ciascun evangelista nel narrare la figura di Gesù è il simbolo della libertà cui è chiamato ogni cristiano nel viverne il messaggio. Se persino di fronte ai santi Vangeli la libertà del soggetto è chiamata a intervenire discernendo ciò che è vero da ciò che “sicuramente non esprime un fatto storico”, ne viene che non esiste nessun ambito della vita di fede dove la libertà di coscienza non debba avere il primato (compresa la libertà di non prendere così tanto sul serio l’etichetta “valori non-negoziabili” apposta dal Magistero alla triade scuola-famiglia-vita).
Affrontare seriamente la figura di Gesù, come ha fatto Benedetto XVI in questo suo nuovo libro, significa essere sempre rimandati alla dinamica impegnativa e responsabilizzante della libertà.