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IL LIBRO DI RATZINGER, IL GESÙ STORICO E LE VERITÀ DELLA CHIESA

Rivela un affanno il nuovo libro su Gesù con cui papa Ratzinger si adopera a mostrare e dimostrare la storicità di Cristo e in particolare della morte-resurrezione di lui. Lo ammette chiaramente quando scrive: “la barca della Chiesa … spesso si ha l’impressione che debba affondare”. Ed ecco l’importanza della realtà pienamente divina e pienamente umana del Salvatore Gesù.
E’ Gesù Cristo l’unico salvatore e la chiave della salvezza universale. Ed è la Chiesa cattolica governata dal papa e dai vescovi uniti al papa la custode unica e universale per tutti i secoli della chiave affidatale da Gesù. Tutta la ricerca umana di senso della vita e di salvezza materiale e morale sarebbe completamente inutile senza il Dio che si fa uomo e offre in sacrificio la sua vita. Sono due millenni che queste “verità”, questi assoluti, vengono ripetuti identici, declinati in codici espressivi diversi tradotti in tutte le lingue del mondo ma sempre nella sostanza uguali a se stessi: è Gesù l’unico salvatore universale attraverso il suo sacrificio perenne.Di fatto del Gesù storico non si sa quasi nulla. Ormai è un dato acquisito nella teologia biblica non servile. I Vangeli non sono la storia di Gesù ma la riflessione teologica in forme narrative o rituali delle comunità cristiane del primo secolo in ambiente pagano. Inoltre è accertato ormai che le più antiche testimonianze scritte non sono i Vangeli canonici. Sono le tradizioni dei cosiddetti “loghia”, cioè dei “detti” di Gesù. Che prima sono stati tramandati oralmente nell’ambiente palestinese e poi sono stati inseriti nei Vangeli.
Quei “detti” di Gesù sono “il Vangelo prima dei Vangeli”. Poi il Vangelo dei detti di Gesù è andato perso perché gli scribi smisero di farne copie in conseguenza della fissazione autoritativa del canone. Oggi si direbbe sbrigativamente che ha subito una censura. E’ stato recuperato o riscoperto nel 1838, attraverso un delicato lavoro di filologia, incastonato nei Vangeli canonici. E’ stato pubblicato solo nel 2007 in italiano dalla Queriniana in un volume a cura di un grande specialista, James M. Robinson: I detti di Gesù. Questo ritardo di quasi due secoli la dice lunga sulle resistenze poste dall’autorità ecclesiastica alla pubblicazione di un testo storico che mette in crisi le certezze dogmatiche.
Perché è importante questo “Proto-Vangelo”? Perché l’immagine di Gesù che se ne ricava è molto diversa da quella fissata nelle narrazioni canoniche dei Vangeli. E soprattutto è diversa l’immagine che si ricava del cristianesimo nascente. Non ci sono che nel sottofondo racconti di miracoli e soprattutto non c’è notizia dei fatti della nascita, della morte e della resurrezione. Questa assenza di eventi così fondamentali per i Vangeli canonici e poi per il dogma è impressionante.
L’accento è posto non sulla persona di Gesù ma sul messaggio e sul movimento messianico di impegno per la realizzazione del “Regno di Dio”. Il quale tradotto in termini moderni si potrebbe definire come movimento per un “mondo nuovo possibile”.
Il Gesù del “Proto-Vangelo” è soprattutto un “figlio dell’uomo” che alla lettera può significare “Figlio dell’umanità”, parte di un movimento storico di liberazione radicale. C’è in quel documento solo un’eco flebile del processo di mitizzazione della persona di Gesù che è appena agli inizi e che però presto sfocerà nella divinizzazione. E’ assente l’essere divino-umano, il dio incarnato che si sacrifica per redimere l’umanità peccatrice. Il quale invece sarà poi offerto soprattutto dalla Chiesa di Paolo al mondo pagano avido di sacro e di salvezza mistica.
Ovviamente le persone all’origine di questo Proto-Vangelo, che di bocca in bocca si tramandavano i detti di Gesù, conoscevano la morte di Gesù. Ma per loro la morte del profeta non aveva il significato di sacrificio. Non si sentivano impegnati ad annunciare la morte. “Seguimi e lascia che i morti seppelliscano i loro morti” – è un’affermazione fondamentale del Proto-Vangelo. Non la morte né il sacrificio né il miracolo aveva cambiato la loro vita. Ma il messaggio culturalmente rivoluzionario di Gesù aveva dato un senso nuovo alla loro esistenza; in quello e non nel miracolo trovavano il senso della resurrezione; quel messaggio e l’esperienza di vita che c’era dietro si sentivano impegnati ad annunciare perché cambiasse la vita di molti e trasformasse radicalmente la società dando vita a un mondo nuovo.
La teologia sacrificale del Cristo che salva in quanto Figlio di Dio morto e risorto verrà dopo, quando il cristianesimo dovrà rivolgersi al mondo pagano. Sarà tale teologia la carta vincente, il fulcro del trionfo della nuova religione. Un trionfo però contestato da persone, anche sinceramente credenti, con senso critico, lungo tutta la storia, dall’antichità fino ad oggi, quale tradimento e devitalizzazione del Dna generativo del movimento di Gesù.

Di Enzo Mazzi, il Manifesto, 13 marzo 2011




IL GESÙ’ STORICO SECONDO RATZINGER

di Vito Mancuso
in “la Repubblica” dell’11 marzo 2011

Nel primo libro su Gesù pubblicato nel 2007 Benedetto XVI chiedeva ai lettori quell’anticipo di simpatia senza il quale non c’è alcuna comprensione». Aveva ragione, perché occorre essere ben disposti verso l’autore di un libro o di una musica, come verso ogni persona che si incontra, per poter adeguatamente comprendere. È necessario però capire bene il senso della simpatia richiesta dal pontefice: nell’ambito teologico in cui si colloca non si tratta di un semplice sentimento, il quale peraltro c’è o non c’è perché nasce solo spontaneamente. Simpatia va intesa qui nel senso originario di patire-con, coltivando un comune pathos ideale. La domanda quindi è: qual è il pathos che ha mosso Benedetto XVI a pubblicare due volumi su Gesù di oltre 800 pagine complessive, di cui oggi arriva in libreria il secondo che riguarda, recita il sottotitolo, il periodo «dall’ingresso in  Gerusalemme fino alla risurrezione»? La preoccupazione del Papa concerne il problema decisivo del cristianesimo odierno, a confronto del quale i cosiddetti “valori non negoziabili” (scuola, vita, famiglia) sono acqua fresca: cioè il legame tra il Gesù della storia reale e il Cristo professato dalla fede. Senza scuole cattoliche il cristianesimo va avanti, senza leggi protettive sulla famiglia e la bioetica lo stesso, anzi non è detto che una dieta al riguardo non gli possa persino giovare. Ma senza il legame organico tra il fatto storico Gesù (Yeshua) e quello che di lui la fede confessa (che è il Cristo) tutto crolla, e alla Basilica di San Pietro non resterebbe che trasformarsi in un museo. Nella fondamentale premessa del primo volume, una specie di piccolo discorso sul metodo, il Papa si chiede “che significato può avere la fede in Gesù il Cristo (…) se poi l’uomo Gesù era così diverso da come lo presentano gli evangelisti e da come, partendo dai Vangeli, lo annuncia la Chiesa”, domanda retorica la cui unica risposta è “nessun significato” e da cui appare quanto sia decisiva la connessione storia-fede. Chiaro l’obiettivo, altrettanto lo è il metodo: «Io ho fiducia nei Vangeli (…) ho voluto fare il tentativo di presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale, come il Gesù storico in senso vero e proprio»; concetto ribadito nella premessa del nuovo volume dove l’autore scrive di aver voluto «giungere alla certezza della figura veramente storica di Gesù» a partire da «uno sguardo sul Gesù dei Vangeli». Il Papa fa così intendere che mentre l’esegesi biblica contemporanea perlopiù divide il Gesù storico reale dal Cristo dei Vangeli e della Chiesa, egli li identifica mostrando che la costruzione cristiana iniziata dagli evangelisti e proseguita dai concili è ben salda perché poggia su questa esatta equazione: narrazione evangelica = storia reale. Questo è l’intento programmatico su cui Benedetto XVI chiede la sua “simpatia”.
Peccato per lui però che in questo nuovo volume egli stesso sia stato costretto a trasformare il segno uguale dell’equazione programmatica nel suo contrario: narrazione evangelica ? storia reale. Il nodo è la morte di Gesù, precisamente il ruolo al riguardo del popolo ebraico, questione che travalica i confini dell’esegesi per arrivare nel campo della storia con le accuse di “deicidio” e le immani  tragedie che ne sono conseguite. Chiedendosi “chi ha insistito per la condanna a morte di Gesù”, il Papa prende atto che “nelle risposte dei Vangeli vi sono differenze”: per Giovanni fu l’aristocrazia del tempio, per Marco i sostenitori di Barabba, per Matteo “tutto il popolo” (su Luca il Papa non si pronuncia, ma Luca è da assimilare a Matteo). E a questo punto presenta la sorpresa: dicendo “tutto il popolo”, come si legge in 27,25, “Matteo sicuramente non esprime un fatto storico: come avrebbe potuto essere presente in tale momento tutto il popolo e chiedere la morte di Gesù?”. Sono parole veritiere e coraggiose (per le quali sarebbe stato bello che il Papa avesse fatto il nome dello storico ebreo Jules Isaac e del suo libro capitale del 1948 Gesù e Israele, purtroppo ignorato), ma che smentiscono decisamente l’equazione programmatica che è il principale obiettivo di tutta l’impresa papale, cioè l’identità tra narrazione evangelica e storia reale.
Alle prese con uno dei nodi più delicati della storia evangelica, il Papa è stato costretto a prendere atto che i quattro evangelisti hanno tre tesi diverse, e che una di esse «sicuramente non esprime un fatto storico». Se questa incertezza vale per uno degli eventi centrali della vita di Gesù, a maggior ragione per altri. Ne viene quello che la più seria esegesi biblica storico-critica insegna da secoli, cioè la differenza tra narrazione evangelica e storia reale.
Significa allora che tutta la costruzione cristiana crolla? No di certo, significa piuttosto che essa è, fin dalle sue origini, un’impresa di libertà. Non è data nessuna statica verità oggettiva che si impone alla mente e che occorre solo riconoscere, non c’è alcuna “res” al cui cospetto poter presentare solo un’obbediente “adaequatio” del proprio intelletto, non c’è nulla nel mondo degli uomini che non richieda l’esercizio della creativa responsabilità personale, nulla che non solleciti la libertà del soggetto. La libertà di ciascun evangelista nel narrare la figura di Gesù è il simbolo della libertà cui è chiamato ogni cristiano nel viverne il messaggio. Se persino di fronte ai santi Vangeli la libertà del soggetto è chiamata a intervenire discernendo ciò che è vero da ciò che “sicuramente non esprime un fatto storico”, ne viene che non esiste nessun ambito della vita di fede dove la libertà di coscienza non debba avere il primato (compresa la libertà di non prendere così tanto sul serio l’etichetta “valori non-negoziabili” apposta dal Magistero alla triade scuola-famiglia-vita).
Affrontare seriamente la figura di Gesù, come ha fatto Benedetto XVI in questo suo nuovo libro, significa essere sempre rimandati alla dinamica impegnativa e responsabilizzante della libertà.