UN’AVVENTURA CHE SI CHIAMA ROSETO – CAP.2 – PRIME DIFFICOLTA’ DELL’OPERA

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Il mattino dell’8 maggio 1968, la Presidente della Fraternità del Terz’ordine Francescano di Avellino, signora Francesca Ferrante ved. Agosta firmava il contratto di compravendita del suolo per l’erigenda Opera “Roseto” per un valore di L. 6.300.000.
La Fraternità aveva in cassa soltanto L. 17.000. Bisognava estinguere il debito, ma dove reperire i fondi?
Era una sera d’inverno, decisi di scendere dal mio convento in città per chiedere delle offerte.
Iniziai il mio cammino in via Matteotti.
Salii all’ultimo piano di uno dei palazzi di quella strada. Bussai alla prima porta. Alla famiglia esposi il mio ideale e il mio programma. Parlai con fervore del “Roseto” che non esisteva ancora. La famiglia mi ascoltò con molta attenzione, ma quando fummo al momento di dare un’offerta, si scusò dicendo che non poteva contribuire in alcun modo.
Dovette scambiarmi per uno dei tanti sognatori che passano talvolta per le case.
Me ne uscii con una certa amarezza.
Bussai ad una seconda porta. Anche qui la stessa perorazione con lo stesso risultato della prima famiglia. Questo secondo diniego mi fu più amaro del primo. Incominciai a sentire uno scoraggiamento che mi sollecitò a desistere dalla ricerca. Pensai che se fossi tornato indietro quella sera, “Roseto” non sarebbe più nato.
Decisi di andare ad un’altra famiglia.
Busso, sono accolto con entusiasmo, espongo il motivo della visita e con una perorazione più accorata parlai del “Roseto” e delle sue finalità. La terza risposta fu uguale alle due precedenti. Per me fu il colpo di grazia che mi impedì di osare ancora. Ne esco umiliato e frastornato. Decido di ritornare in convento. Il sole era al tramonto ed era pallido e freddo, mi raccolsi nel mio mantello e rifeci la salita del convento. Nell’interno c’era un tumulto. Ero convinto di aver sbagliato a credere agli ideali umanitari del popolo. Incominciavo a dare ragione a coloro che tentavano di dissuadermi. Sentivo la loro voce alle mie orecchie: “Chi te lo fa fare… vedrai che sarà solo un sogno… su quel terreno vi porterai a pascolare le pecore”.Quella sera in convento non parlai, avrei dato ragione a coloro che dissentivano. La notte la passai insonne, in un monologo lungo e silenzioso, aspettavo con ansia l’alba per liberarmi da un incubo che mi opprimeva.
Al mattino vado dalla Signora Agosta per decidere il recesso del contratto dell’acquisto del suolo.
Esposi alla Signora l’insuccesso della sera e conclusi: “Sarà difficile raccogliere i sei milioni, perciò annulliamo il contratto. La signora Agosta mi interruppe dicendo:
— Quanto ha chiesto alle famiglie?
— Nessuna cifra, risposi.
— Ed ella: è qui l’errore.
— Anche un errore? – risposi. Quale?
— Veda Padre — mi dice la Signora — l’Opera è grande… quale offerta potevano darle? Un’offerta generosa? Chi può sottrarre dal suo bilancio una somma così grossa?
Una piccola offerta? sarebbe stato ugualmente umiliante.
Il discorso aveva una sua logica, ma che a me non convinceva.
Domani — concluse la Signora Agosta — andremo insieme a chiedere ad ogni famiglia una mille lire al mese. Anche quella soluzione non mi convinse. Tuttavia accettai svogliatamente e passivamente.
All’indomani la Signora insieme ad una sua amica ed io, siamo andati in un’altra strada di Avellino. Bussammo ad otto porte, quattro famiglie accettano l’impegno e quattro no. Era la soluzione giusta. Da quella sera continuammo a girare per le case in cerca di adesioni. Andavo con due terziarie che denominammo “collettrici”, le quali ritornavano ogni mese a raccogliere l’offerta promessa. Il sistema non è che sia stato facile, anche esso presentava la sua difficoltà. Ricordo che un giorno due collettrici, alla mia presenza, chiesero ad una signora un’offerta per il “Roseto”. L’interpellata, rivolgendosi verso di me, dice: — come sono seccanti queste sue collettrici. Le due si rivolsero verso di me ed aspettavano una loro difesa. Signora — le dissi — se dare è difficile, chiedere è ancora più difficile.
Le due collettrici sorrisero e la Signora capì la lezione.
Non tutte le terziarie si sentirono di fare la “collettrice”, soltanto 20 collaborarono e perseverarono; altre invece vennero meno lungo il difficile cammino.
Un grazie, comunque, va a tutte le collettrici, esse impararono a divenire povere per amore dei fratelli.

LE COLLETTRICI DEL “ROSETO”
Firmato il contratto di acquisto del suolo, bisognava ora trovare i fondi per saldare il debito.
Nacquero le collettrici. Le prime ad aderire furono le francescane.
Il compito delle collettrici è quello di passare di casa in casa, ogni mese a raccogliere le offerte. Non è un lavoro facile.
Se dare è difficile, più difficile è chiedere. Agli inizi fu un lavoro duro e sofferto. Bisognava sfondare un muro di prevenzioni e di pregiudizi. Ci scambiavano per fanatici sognatori o per importuni che andavano turbando la quiete domestica, gente comune, che bisognava lasciar fuori la porta o tenere alla larga. Accanto, però, a questi gesti, altre porte si aprivano in fraterna ed ospitale accoglienza che ci ricompensava delle umiliazioni subite e ci sosteneva a continuare il cammino.
Oggi il compito delle collettrici non è così duro come allora. “Roseto”, oggi, è conosciuto ed amato. Alla primitiva fase di scetticismo e di dubbio è subentrata quella di stima e di simpatia. Le collettrici si presentano con il saluto di “Pace e Bene” di S. Francesco.
Oggi sono attese! Non sono degli agenti fiscali, ma apostole che portano una gioia ed un sorriso, ed offrono agli altri la possibilità di compiere un’opera buona. Che sia così lo dimostrano le molteplici telefonate che ci giungono quando una collettrice non è andata per qualche mese alla loro casa.
Oggi vorremmo allargare il quadro delle collettrici. Alcune hanno desistito dal loro impegno; vorremmo che il loro posto fosse preso da altre donne che intendono dare alla loro vita l’esaltante esperienza di divenire povere per arricchire gli altri.

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