UN’AVVENTURA CHE SI CHIAMA ROSETO – cap.3 – AL DI LÀ DELL’OCEANO CON LA MANO TESA

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Ingresso inferiore del Roseto

Erano le 18,30 del 24 maggio 1973 quando l’aereo, dopo il lungo volo oceanico, toccò il suolo d’America. A bordo ci fu uno scroscio di applausi. Reca veramente piacere, dopo nove ore di volo, sentire il rullìo delle ruote sulla pista di atterraggio.
Quella sera all’aeroporto Kennedy di New York ebbi il mio primo approccio con l’America.
Mi trovai in mezzo ad un vortice di persone che correvano in ogni direzione, mentre io non riuscivo a trovare la famiglia che doveva venire a prelevarmi. Quel via vai di persone acuiva il mio disagio; desideravo che qualcuno mi aiutasse. Mi avviavo verso l’uscita, quando sentìi chiamarmi per nome. Quel nome, lanciato in mezzo a tutta quella gente, fu come una scialuppa di salvataggio.
Erano il Signor Franco Bonito e la sua Signora che finalmente mi avevano scoperto.
In mezzo ad un carosello di altre macchine ci muovemmo alla volta di Jersey City. Qui ad attendermi v’era il Comm. Beniamino Bonito senior e la sua gentile consorte signora Carmela.
L’accoglienza fu cordialissima, la loro bontà e carità mi fecero sentire il calore e l’atmosfera di famiglia. Al mio arrivo la prima impressione che ebbi degli americani è che avessero una gran fretta, paura di perdere tempo.
In seguito capii che quel loro agitarsi scaturisce da una valutazione del lavoro che lo fa anteporre ad ogni cosa. Questa loro mentalità, se ha dato all’America il trionfo della tecnica, ha anche sacrificato diversi valori umani. Si sente nell’americano una certa insoddisfazione della vita nonostante la sua opulenza.
Sono andato in America non come turista, anche se questa è la qualifica segnata sul passaporto, ma per realizzare il “Roseto”.Volli fin dalla mia partenza dare al mio viaggio una nota religiosa.
La mia missione non si è svolta nelle chiese, bensì nelle officine, nei circoli, nelle case, sulle strade.
I nostri connazionali li ho visti curvi al posto del loro lavoro, lieti e sereni in una festa nuziale, tristi e affranti nella prova del dolore, fiduciosi e pazienti nella speranza. A tutti ho donato la parola della fede e del conforto. Nelle fabbriche ho fatto sospendere per un attimo il ritmo assordante dei motori e li ho esortati a dare al lavoro il carisma della preghiera. Mi hanno risposto con calda ed affettuosa dimostrazione; nello stringermi la mano deponevano in essa la loro offerta, mentre nei loro occhi appariva furtiva una lacrima.
Sono entrato in moltissime case ricche e povere, e spesso era presente il dolore.
– Venga a casa – mi diceva un papà – venga a benedire la mia bambina.
Il male aveva reso quella bimba come un filo di ferro contorto.
Pregai con un nodo alla gola e la benedissi. Il volto di quel padre divenne sereno, v’era nel cuore tanta speranza: “Signore esaudisci la sua preghiera!”. In un’altra casa una vecchia mamma inferma, l’assiste con delicato amore la sua giovane figlia.
La sua abnegazione e il suo sacrificio mi commossero. Alla mia meraviglia per sì generoso servizio, ella rispose: “Nessun sacrificio Padre, perché io, mia madre, l’amo”.
Ricordai allora quanto fossero vere le parole di S. Agostino: “Dov’è amore non c’è sacrificio”.
Il 24 giugno andai a Boston. Essa è una delle più belle città d’America, città dotta ed artistica per le sue rinomate università, per le sue chiese, per i suoi monumenti. A Boston si sente l’atmosfera delle nostre città italiane.
Quante persone ho incontrato, passarono sul mio cammino come battito d’ala! Sento il dovere di ringraziare tutti.
Un grazie speciale all’anonima e gentile signora di Boston. Avevo da poco rivolto dalla Radio un appello al popolo per il “Roseto” quando venne a trovarmi una donna.
– Sei tu, P. Innocenzo? – Sì!
– Ho sentito il tuo appello e sono venuta a darti la mia offerta. È modesta, ma non posso darti di più. Dio ti aiuterà!
Abbi fede. Coraggio!…
Grazie, gentile signora! Non ricordo più il tuo nome, andasti via in fretta, ma la tua immagine e l’eco dolce della tua voce sono rimaste nel fondo della mia anima come carezza di mamma.
“Abbi fede… coraggio!” Le ho sentite nel cuore mentre mi muovevo sulle lunghe e assolate strade d’America, nelle interminabili ore di attesa, nei scortesi rifiuti, nulle paurose ore di deludente sconforto.
Oggi però, dalla quiete del mio convento, ti invio un altro messaggio che certamente ti darà tanta gioia: l’8 settembre 1970, “Roseto” è nato alla vita!

ALLA SCUOLA DELLA POVERTA’
All’indomani del mio arrivo in America, insieme all’amico Beniamino Bonito siamo andati al Bronx. La prima visita l’abbiamo fatta ad una fabbrica di manufatti, ove lavoravano duecento donne italiane e portoricane. Proprietario il Signor Scardino di origine siciliana. Ci rivolgemmo a lui perché ci autorizzasse a compiere una colletta tra le operaie. Lo pregai inoltre di far sospendere per pochi minuti il lavoro perché io potessi spiegare il motivo di quella raccolta. La sospensione non fu concessa, ed allora fui costretto ad avvicinare ogni singola operaria e tendere la mano. Le prime tre operaie non risposero al mio gesto, erano troppo impegnate nel loro lavoro. Passai oltre, sempre con quella mano tesa, ma in essa non cadevano se non piccoli spiccioli e molti rifiuti. A metà del giro la mia resistenza crollò ed ebbi manifesti segni del mio disagio: qualche lacrima apparve sui miei occhi. Questa apparve anche ad una italiana, la quale alzandosi dal suo posto di lavoro e facendomi coraggio con delicata affettuosità mi costringe a completare il giro. Al termine, ella stessa contò le offerte. Erano otto dollari. Mi strinse la mano, abbozzò un sorriso e poi aggiunse: “Coraggio!”. Il Signore Bonito era rimasto a guardare la scena. Mentre insieme scendevamo le scale di quella fabbrica, il Signor Bonito con tono forte e deciso, come quando si riprende un suddito e come antichi maestri di morale mi dice: – Padre Innocenzo, anche Gesù ha tanto sofferto! Confesso che non mi sarei mai aspettato dal Signor Bonito un tale richiamo ascetico. Quella parola scese sulla mia anima aspra e stimolante. Fu come una scudisciata su carne viva, che se pur mi ferì mi sollevò dall’angoscia nella quale stavo per affogare. Facemmo un lungo cammino in silenzio. Meditavo come ero lontano dall’essere povero, e quanto è duro esserlo.
Confesso che ciò che maggiormente mi colpì fu quella mano tesa senza giustificare il mio gesto. Se avessi potuto spiegare a quelle operaie il motivo della mia richiesta, esso certamente non sarebbe stato per me tanto grave e così umiliante. Il Signore, quel giorno ha voluto farmi capire che significa essere povero e quanta sofferenza si nasconde nella richiesta di un fratello.

ALLA SCUOLA DELLA UMILTÀ
Per realizzare l’Opera si tentavano tutte le strade. Un giorno alcune Terziarie proposero di far costruire delle cassette per le offerte da collocare nei vari negozi della città (di Avellino). L’idea piacque, ma divenne meno gradita quando mi spiegarono la sua dinamica. – “Noi faremo costruire le cassette e voi le porterete per i vari negozi”.
A questa distinzione di compiti il mio consenso fu meno entusiasta: avrei preferito io il primo compito. Il secondo compito, in forza di una logica, non poteva spettare a delle signore, ma soltanto ad un frate che ha fatto professione di povertà.
Finalmente le cassette furono pronte e bisognava ora piazzarle.
Era d’inverno, portavo il mantello. Quel giorno lo indossai non solo per difendermi dal freddo ma soprattutto per nascondere i segni di quella povertà. Misi in macchina le cassette e iniziai il giro dalla periferia, da dove cioè, potevo incontrare persone più povere. Il primo negozio dal quale volli iniziare fu quello di un’amica. Pensavo mi sarà più facile, ed invece mi fu più duro. Quando esposi la ragione della mia visita, la donna si sofferma per un attimo e poi mi dice: “È inutile, tanto qui nessuno vi metterà dentro un’offerta”.
Mi sentii bruciare le guance. Me ne uscii come se avessi tentato un’azione illecita. Sentii l’insorgere del mio orgoglio che mi invitava a desistere dall’impresa. Ma come fare? Alla mia mente tornavano quelle benedette signore. Cosa avrei detto loro? Quale giustifica alla mia superbia? Lottai duro con il mio orgoglio e tentai di portarmi sul campo più difficile della città – Corso Vittorio Emanuele, al caffè Lanzara più qualificato. Fermai la macchina a pochi metri. Stavo per entrare, vidi tanta gente e sentii come una forza che mi spingeva dietro.
Ritornai alla macchina.
Sentivo all’interno lacerarmi da due forze opposte: il mio orgoglio e la mia ascetica. Finalmente prevalse la seconda ed entrai. La cassetta era accuratamente nascosta dal mantello. Mi misi in fila come gli altri acquirenti. Speravo che sfollassero, ma ad un tratto il padrone mi chiede: “Lei, Padre, cosa vuole?”
– Io? – risposi impacciato e sudato – non chiedo nulla! Ed avvicinandomi di più al banco, perché mi sentissero di meno – dissi: Vorrei che Lei – e qui, finalmente, estrassi dal mantello la cassetta, come se fosse stato il corpo di un reato – collocasse qui sul banco questa cassetta per raccogliere le offerte per il “Roseto”.
Il padrone, uomo intelligente, capì il mio disagio e togliendomela di mano la depose sul banco.
Cosa ha dato all’Opera il sistema delle cassette? Pochissime offerte, ma molta rinuncia, necessaria alla crescita dell’Opera.

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