FRANCESCO E IL SULTANO NELLA LETTERATURA E NELLA LEGISLAZIONE FRANCESCANA

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La conversione del Sultano Melek-el-Kamel, chiesa di San Francesco, Montefalco.

A margine del contributo di Patrizia Mancini – che ringrazio per la benevola attenzione prestata a questo blog – mi permetto di aggiungere qualche considerazione personale sull’argomento  per uno scambio di cortesia con una consorella la cui conoscenza è appena iniziata e per un approfondimento a vantaggio dei francescani eventualmente interessati.

Mi permetto di aggiungere qualcosa, dicevo, attingendo alla letteratura e alla legislazione francescana.

Letteratura. L’incontro di Francesco col sultano è descritto nella Vita Prima di Tommaso da Celano al cap. XX, nei Fioretti al cap. XXIV e nella Legenda maior al cap. IX ma l’episodio dell’ordalia è riportato soltanto da san Bonaventura. La genesi della Legenda maior fornisce una spiegazione plausibile di questa circostanza. Il capitolo generale di Narbona del 1260 espresse la necessità di disporre di una biografia ufficiale di san Francesco e ne affidò la redazione a Bonaventura da Bagnoregio, ministro generale e teologo di chiara fama; il testo di Bonaventura nacque dunque con un intento dichiaratamente celebrativo, teso all’esaltazione mistica del santo delle stimmate e per tale motivo non è esente da una certa retorica. Questa retorica si manifesta in molti episodi, alcuni dei quali inventati di sana pianta dal Dottore Serafico: uno di questi è la descrizione dell’incontro di Francesco col sultano Malik-el-Kamil. Nella sua narrazione Bonaventura sostiene che durante tale incontro Francesco avrebbe lanciato un’ordalia al sultano; un passaggio attraverso il fuoco al quale avrebbero dovuto assoggettarsi Francesco stesso e i sacerdoti del sultano per dimostrare quale delle due religioni fosse quella vera. Questa narrazione falsa doppiamente la realtà; in primo luogo perché l’episodio è completamente inventato, in secondo luogo perché l’atteggiamento di Francesco verso il sultano e verso i musulmani in generale fu sempre di rispetto e di benevolenza non certo di competizione o di sfida. Non è un caso se lo storico Theophile Desbonnets, in un fondamentale saggio significativamente titolato Dall’intuizione all’istituzione, descrive la Legenda maior come «una magnifica sintesi di vita spirituale che però si rivela anche come l’operazione perfettamente riuscita di imbalsamazione di un morto al quale si vuole negare ogni interferenza con la vita reale».

Legislazione. Ma le considerazioni forse più interessanti derivano da un’analisi comparata del modo con cui l’argomento della missione presso i musulmani è trattato nelle due regole francescane. Com’è noto, benché fosse ostile a ogni forma di giuridicismo, negli ultimi anni della sua vita Francesco dovette rassegnarsi a scrivere una regola che presentò al capitolo del 1221. Si trattava sostanzialmente di una sistematizzazione di norme comuni di comportamento elaborate a partire dal 1210 nel corso degli incontri dei frati a Santa Maria degli Angeli. La regola non fu mai sottoposta all’approvazione pontificia perché considerata troppo lunga (ben ventiquattro capitoli) e disorganica, dal tono più spirituale che giuridico; non si presentava, infatti, come un testo legislativo ma come un insieme di accorate esortazioni e di sublimi preghiere che si alternavano senza un vero e proprio nesso logico intersecandosi con molte citazioni bibliche care a Francesco. Fu quindi costretto a scriverne un’altra, più breve (dodici capitoli) e dal taglio più normativo, coadiuvato – e controllato – dal cardinale Ugolino, futuro papa Gregorio IX. La nuova regola fu sottoposta a Onorio III il quale l’approvò con la bolla Solet annuere del 29 novembre 1223; è la cosiddetta Regola bollata. Non si trattava di una regola completamente nuova ma di una profonda revisione della prima della quale però non conservava né il calore né l’ispirazione, soffocati dai giuridicismi curiali.
Ciò premesso è interessante esaminare come le due regole trattano l’argomento.
La Regola non bollata dedica alla questione il cap. XVI titolato Di coloro che vanno tra i saraceni e gli altri infedeli che recita così:

Dice il Signore: «Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi. Siate dunque prudenti come serpenti e semplici come colombe». Perciò qualsiasi frate che vorrà andare tra i Saraceni e altri infedeli, vada con il permesso del suo ministro e servo. Il ministro poi dia loro il permesso e non li ostacoli se vedrà che sono idonei ad essere mandati; infatti dovrà rendere ragione al Signore, se in queste come in altre cose avrà proceduto senza discrezione.
I frati poi che vanno fra gli infedeli, possono comportarsi spiritualmente in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio a e confessino di essere cristiani. L’altro modo è che quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio perché essi credano in Dio onnipotente Padre e Figlio e Spirito Santo, Creatore di tutte le cose, e nel Figlio Redentore e Salvatore, e siano battezzati, e si facciano cristiani, poiché, se uno non sarà rinato per acqua e Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio.

Il testo dell’articolo prosegue con numerose citazioni evangeliche finalizzate a esortare i frati a rendere una testimonianza coraggiosa della propria fede, fino all’accettazione del martirio.
La Regola bollata tratta l’argomento all’ultimo capitolo, il cap. XII; il titolo è il medesimo ma il contenuto è ben diverso:

Quei frati che, per divina ispirazione, vorranno andare tra i Saraceni e tra gli altri infedeli, ne chiedano il permesso ai loro ministri provinciali. I ministri poi non concedano a nessuno il permesso di andarvi se non a quelli che riterranno idonei ad essere mandati.

È ben evidente un cambio di prospettiva riguardante sia le modalità di svolgimento della missione sia la possibilità di accedervi.
Nella Regola non bollata Francesco si premura di sollecitare i frati a un atteggiamento benevolo verso i saraceni: i frati non devono fare liti o dispute ma devono confessare di essere cristiani in primo luogo con l’esempio e annunziare la parola di Dio solo quando «vedranno che piace al Signore». Di queste esortazioni – e di questo atteggiamento di profondo rispetto che consente di qualificare Francesco come il primo missionario moderno – non c’è più traccia nella Regola bollata. Non poteva essere diversamente, trattandosi della regola canonica di un ordine che nelle intenzioni del pontefice avrebbe dovuto sostenere la Chiesa nella lotta agli infedeli e agli eretici.
Per quanto riguarda l’accesso alla missione si osserva che nella Regola non bollata il centro dell’azione è il frate o, per meglio dire, «qualsiasi frate» che abbia ricevuto l’ispirazione del Signore. Il ministro, di norma, concede; anzi, Francesco si premura di ammonirlo a non porre ostacoli arbitrari dei quali dovrà «rendere conto al Signore». Nella Regola bollata il centro dell’azione è invece il ministro che, di norma, non concede «se non a quelli che riterrà idonei ad essere mandati»; e non c’è più traccia del monito di cui al testo precedente.

Nel tema della missione tra gli infedeli si riverbera quindi quel sofferto processo che nell’arco di pochi anni portò il francescanesimo ad assumere, da movimento spontaneo e laico, la struttura di un ordine monastico e clericale.

Pietro Urciuoli, francescano
ecclesiaspiritualis.blogspot.it

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