SIGNORE DA CHI ANDREMO?

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Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 6, 60-69)

In quel tempo, molti dei discepoli di Gesù, dopo aver ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?».
Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita. Ma tra voi vi sono alcuni che non credono».
Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. E diceva: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre».
Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui.
Disse allora Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?». Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio
».

Dall’ omelia di Mons. Vincenzo Paglia e dal commento di Don Romeo Maggioni.
Il brano evangelico di Giovanni (Gv 6, 60-69) chiude il “discorso sul pane” tenuto da Gesù nella sinagoga di Cafarnao.
Erano in molti ad ascoltarlo oltre i discepoli. Le parole di Gesù, tese a sostenere che Lui “era” il pane e non che “aveva” il pane, non furono accolte dalla folla, che quasi subito abbandonò la sinagoga.C’è ora la reazione dei discepoli, ossia di coloro che avevano una certa dimestichezza con Gesù per averlo seguito e quindi sentito parlare tante volte, oltre che essere stati testimoni di non pochi miracoli. Eppure, anch’essi si unirono all’incredulità della folla e non si vergognarono di affermare: “Questo discorso è duro. Chi lo può ascoltare?”.
Stando al testo greco, la reazione dei discepoli sottolinea l’aspetto dell’incomprensibilità delle cose dette, quasi un’offesa all’intelligenza.
In verità, la critica dei discepoli non si riferiva alle dichiarazioni relative al mangiare la carne e al bere il sangue di Gesù.
Il loro mormorio riguardava la sostanza del “discorso” di Cafarnao, ossia il fatto che l’intimità con Dio si sarebbe potuta raggiungere solo attraverso quel pane che era la vera carne di Gesù.
Il cibo che la folla ha gustato, quel cibo che ha risposto al suo bisogno profondo, quel cibo che ha lasciato dietro di sé un desiderio così forte da spingere a cercare di nuovo il donatore…quel cibo è una persona, è Cristo stesso che si dona per la vita e offre di partecipare al dono di sé: ecco la carità, che si svela a chi ha camminato nella verità.
È chiaro e noto lo sfondo pasquale del testo, così come il riferimento all’Eucaristia.
Mangiare la stessa carne che il Figlio offre è il culmine della comunione con Lui, il gesto con cui si aderisce a Lui, riconoscendolo come la fonte della vita, del sostentamento, come ciò che placa il desiderio che muove e rende inquieto il cuore dell’uomo.
Partecipare al suo corpo e al suo sangue significa assumere consapevolmente un certo stile di vita che fa del dono incondizionato di sé la nota distintiva, un dono che si manifesta in una continua “discesa” verso i fratelli (lui è il “pane disceso”), una discesa continua che è sia obbedienza al pane mangiato (così come il Pane vivente è obbediente al Padre), sia obbedienza alla relazione con i fratelli. Questa vita spesa per la relazione, per il dono, per la ricerca della comunione conduce l’altro a compiere lo stesso percorso che Gesù ha compiuto e giungere nella verità alla stessa sorgente della vita, che è la carità.
Quel giorno, di fronte ad un Vangelo così chiaro, i discepoli maturarono la decisione di abbandonarlo.
Senza dubbio, infatti, il discorso di Gesù spingeva gli ascoltatori verso una scelta da compiere.
Si trattava di scegliere da che parte stare, se con Gesù o no.
Ed era un momento cruciale anche per la missione stessa di Gesù. Insomma, nella sinagoga di Cafarnao si ripeteva, in un modo nuovo ma con la stessa radicalità, quel che accadde al popolo d’Israele quando giunse a Sichem, cuore della terra promessa e sede di un santuario nazionale legato alle memorie dei patriarchi. Giosuè radunò tutte le tribù e chiese loro: “Scegliete oggi chi volete servire”, se gli idoli pagani o il Dio liberatore dalla schiavitù dell’Egitto. E il popolo rispose: “Lungi da noi l’abbandonare il Signore per servire altri dèi! Anche noi vogliamo servire il Signore, perché egli è il nostro Dio!” Fu una scelta decisiva per Israele, mentre si accingeva a prendere il possesso della terra datagli da Dio. E, quel giorno, scelsero bene.
Non fu così per i discepoli di Gesù nella sinagoga di Cafarnao. Essi non avevano compreso che quella “carne” era “spirito”, che quell’uomo parlava il linguaggio del cielo, che veniva da Dio e a Dio conduceva.
L’intimità con lui era davvero l’intimità con Dio. Ma proprio questa proposta, cuore del Vangelo, unitamente all’assumere il suo stesso stile di vita, essi consideravano inaccettabile.
Avrebbero assentito a un Dio potente, ma lontano.
Mai avrebbero accettato un Dio così vicino al punto da farsi cibo per gli uomini.
“Da quel momento molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui”, nota con amarezza l’evangelista.
Per Gesù l’annuncio di quella intimità e quello stile radicale di vita era il Vangelo, ossia la buona notizia da divulgare a tutti, sino ai confini della terra. E, ovviamente, non poteva rinunciarvi. Era venuto esattamente per questo, ossia per liberare gli uomini dalla schiavitù del Male e del peccato, della solitudine e della morte. Se avesse taciuto questo annuncio avrebbe tradito la missione stessa datagli dal Padre.
Possiamo immaginare quali pensieri traversassero la mente di Gesù in quei momenti! Forse avrà pensato anche al fallimento della sua opera.
Si voltò quindi verso i Dodici (è la prima volta che compare questo termine nel quarto Vangelo) con uno sguardo tenero e deciso che dovette colpire quello sparuto gruppo e chiese loro: “Volete andarvene anche voi?”.
Questo momento è tra i più gravi della vita di Gesù. Egli sarebbe potuto rimanere solo, nonostante l’estenuante lavoro fatto per radunare attorno a sé il primo nucleo del nuovo popolo.
Tuttavia Gesù non poteva rinnegare il cuore del suo Vangelo. E neppure poteva addomesticarlo.
Non c’è alternativa all’esclusività di un rapporto d’amore con Dio. “Non si possono servire due padroni”, dice Gesù in altra parte del Vangelo.
Nella sinagoga forse sono andati tutti via, eccetto i Dodici. Non sappiamo quali fossero i loro sentimenti, le loro paure, i loro dubbi; certo furono commossi dall’appassionato discorso di quel maestro che avevano imparato a seguire e a capire.
Pietro prese la parola a nome di tutti e disse: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna”.
Non disse “dove”, ma “da chi” andremo. Pietro, con queste sue parole, sottolineava quel rapporto di intimità con Gesù che specifica la fede del discepolo, anzi l’intera sua vita.
Per loro Gesù era un punto di riferimento senza paragone alcuno; era superiore ad ogni altro maestro; solo lui aveva parole di vita eterna.
A nome dei presenti, ed anche di quelli che verranno, Pietro rispose a Gesù che era il loro salvatore. Per questo resteranno con lui, e lo seguiranno.
Non hanno compreso tutto, ma hanno intuito l’unicità e la preziosità del rapporto con Gesù.
Nessuno aveva mai parlato come lui, nessuno li aveva amati con tanto coinvolgimento, nessuno li aveva toccati così profondamente nel cuore, nessuno aveva dato loro il compito e l’energia che Gesù aveva donato. Come potevano abbandonarlo?
A differenza dei discepoli che “non andarono più con lui”, Pietro e gli altri undici continuarono a seguirlo, ad ascoltarlo, a volergli bene, come ne erano capaci.
Non scomparvero le loro meschinità. La salvezza per quei Dodici, come per i discepoli di ogni tempo, non era nell’essere senza difetti e senza colpe, ma unicamente nel seguire Gesù.
Dove, del resto, avrebbero potuto trovare un altro maestro come lui?
La risposta di Pietro manifesta tutta la forza attrattiva di Gesù e l’adesione affettuosa dell’apostolo che si arrende …
Si, perché in sostanza “credere” è una RESA, un arrendersi alla scoperta dell’amore di Dio, alla esperienza che di Dio si ha bisogno e ci si può fidare, alla consapevolezza che Lui ha fatto proprio di tutto per conquistarci, e ci offre molto di più di quello che noi stessi possiamo sognare.
Ma è una resa, cioè un arrendersi che ci costa, proprio perché la nostra libertà – stranamente – vi ha resistito fino in fondo, perché fino alla fine di Dio abbiamo un po’ paura e sospetto, fino all’ultimo vogliamo tenere altre sicurezze e appoggi, o il piede in due scarpe.
E’ resistenza anche della nostra intelligenza che non “vede” e non capisce fino all’evidente verità e a scelte talvolta sconcertanti di Dio su noi e sulla storia.
Gesù oggi ce lo conferma: “E’ lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla”.
La carne significa la nostra condizione umana di uomini ribelli verso Dio, incapaci con la sola nostra buona volontà di giungere fino a Dio e affidarvisi.
Solo l’opera di Cristo, la grazia di Dio, l’azione interiore dello Spirito Santo rafforzano quell’iniziale nostro anelito e lo maturano fino alla resa: “Per questo vi ho detto – ci dice Gesù – che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre”.
Dono offerto a tutti, ma che deve essere accolto come tale, al di là della presunzione di fare da sé.
“Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito”.
Chi cioè si apriva al dono e chi vi avrebbe resistito.
Divenire discepoli veri di Gesù allora significa anzitutto riconoscerlo come l’inviato di Dio: “Noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”. E più profondamente che Egli è Dio stesso.
Gesù vi allude quando dice: “E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima?”, salire al cielo risorto, d’onde era venuto come Dio!
Primo contenuto della fede è appunto aderire alla persona di Gesù come al Dio fattosi carne, cioè vicino a noi e nostro salvatore.
“Le parole che io vi ho detto – prosegue Gesù – sono spirito e sono vita”. E Pietro lo riconosce: “Tu hai parole di vita eterna”.
Secondo contenuto della fede è credere che Gesù dice una parola di vita, ha un progetto di riuscita umana, che è l’unico vero perché è quello di Dio Creatore.
Il secondo passo per essere veri discepoli di Gesù è crederlo l’unico modello di umanità da seguire, sul quale misurare ogni altra scelta di valore.
Non è atto da poco, perché significa scartare e svalutare tutti i modelli così insistentemente propostici dalla nostra cultura.
L’esperienza fallimentare di umanità che ci sta attorno e le nostre stesse illusioni dovrebbero spingerci a dire: “Signore, da chi mai andremo?”… se non da Te!
Alla fine, dunque, essere discepoli veri di Gesù è rimanere fedeli e gelosi custodi del deposito di fede che Gesù ci ha comunicato.
Il contenuto della fede ha contorni ben precisi, e Gesù non cede neppure quando la gente dice: “Questa parola è dura, chi può ascoltarla?”, e lo abbandona. Proprio ai più vicini Gesù non fa complimenti: o è così, o.. andatevene anche voi, se volete!
Non annacqua la fede per aver più gente.
“Quanto a me e alla mia casa, serviremo il Signore”, dichiara Giosuè davanti a tutto il popolo.
C’è bisogno anche da parte nostra di una professione di fede esplicita – con le opere più che con le parole -, c’è bisogno di testimoni entusiasti del cristianesimo che si vive, proprio per sostenere e dare coraggio ai molti che sono alla sincera ricerca di Dio.
C’è da tirarsi fuori da questo grigiore borghese che caratterizza la nostra cristianità di tradizione, con una fede più consapevole e missionaria.
Le parole di Pietro ai vv. 68-69 “tu hai parole di vita eterna; tu sei il santo di Dio” sono una risposta che segnala l’accoglienza della persona di Cristo e con lui della sua proposta, della discesa, del dono incondizionato, in una parola della carità che contemporaneamente deve essere modalità di vita e di relazione ai fratelli.

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