E VENNE SENZA VISTO

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L’ anno in cui sua madre lo partorì non era santo. I suoi, gli ebrei, avevano per legge di consacrare un anno ogni sette lasciando in pace il suolo. Il suo anno di nascita non apparteneva al ciclo dei sabbatici, al rituale imposto dal verbo «shabbàt», cessare.
Non nacque in un momento di allegria, ma durante un viaggio, uno spostamento forzato. Il suo popolo amava i pellegrinaggi e si metteva in cammino volentieri per onorare qualche festività, Pasqua o altre, in Gerusalemme. Ma lui non nacque in un pellegrinaggio. I suoi si spostavano per un dovere triste e insidioso: obbedire a un censimento.
Oggi noi siamo abituati a essere contati, iscritti e arruolati in elenchi, a disporre di molti contrassegni numerici. Alcuni di noi stimano giusto, così per scrupolo di conoscenza, rilevare anche le impronte digitali di donne e uomini arrivati a noi da fughe senza fine. Perciò da moderni non possiamo intendere la paura degli ebrei di allora, la rovina che avevano già sperimentato quando un loro re aveva osato contare il popolo presso il quale Dio aveva piantato prima una tenda poi un tempio. Quel re ottenne cifre sbagliate o subì il castigo di un’ epidemia. Gli ebrei erano dunque già stati messi in guardia contro l’ arroganza di dare un numero agli esseri umani.
Quando nacque, il suo popolo era suddito della potenza militare romana e doveva perciò sottoporsi alla conta imposta dai conquistatori, come capi di bestiame. Non venivano marchiati, questo no, per sigillo sopra di loro bastava l’ aquila romana conficcata sui loro luoghi sacri.
I suoi genitori erano in viaggio verso Sud, andavano in Giudea a tappe forzate. Non erano ammesse eccezioni, anche una donna assai avanti nella gravidanza doveva raggiungere il suo luogo di conta, incolonnata insieme a tutti gli altri. Così partirono da Nazareth in due e a Betlemme diventarono tre. Era nato, sua madre aveva avuto le contrazioni proprio lì, i suoi muscoli espulsori obbedirono a un luogo predisposto e prescritto: a Betlemme di Giuda è tenuto a nascere il Messia, il più aspettato intruso del mondo.
Non era sabbatico quell’ anno, non di pellegrinaggio era il viaggio dei suoi genitori. Nacque sotto la coda e l’auspicio di una cometa, non un segno di buona fortuna secondo le credenze e le superstizioni antiche. Oggi sui presepi si appunta a medaglia la stellina con uno strascico d’ oro a conforto della notte, ma allora la cometa fu uno spietato riflettore che denunciava luogo e avvenimento. Scrive Matteo che tre stranieri vennero da un altro Oriente per registrare il prodigio già annunciato dai loro calcoli, portando offerte solenni degne di una nascita di re. Il re in carica, Erode, se ne risentì, ebbe timore di un’ usurpazione. Comandò una strage di bambini, tra due anni e zero, in Betlemme e in tutto il territorio circostante. Fu una misura estrema e inefficace: è dimostrato, da Mosè in poi, che ne scampa sempre uno, quello giusto, quello che è un riassunto di tutti gli altri uccisi. Chi si trova a essere resto di innumerevoli assenti, assume e contiene le energie di quelle vite impedite. Fare miracoli allora è solo un piccolo risarcimento.
Un angelo avvertì in sogno suo padre dell’ agguato, così fuggirono di notte senza aspettare l’ alba e questo spiega perché Giuseppe non avvertì nessuno del sogno e del pericolo. Non spiega perché l’ angelo non visitò anche qualche altro padre: aveva l’ autonomia di volo di un sogno solamente? E perché un angelo solo? È vano bussare a spiegazioni, se non sono state scritte. Doveva svolgersi uno dei molti massacri di bambini. Oggi pure ne avvengono, tra gli scugnizzi di strada dell’ America del Sud, tra le neonate delle campagne cinesi, tra i piccoli rapiti da orchi e da chirurghi clandestini che espiantano e trapiantano organi. Oggi siamo più tranquilli: sappiamo perché avvengono. Ma nel racconto di Matteo si agita in un lettore il dubbio sull’ onnipotenza di chi non mandò a salvare nessun bambino oltre quel suo Messia.
Così nacque e fu vivo per il solo prodigio di cui non fu lui stesso autore. Per tutta la vita, poca, cercò di pareggiare il conto di quell’ ingiustizia, fino a farsi appiccare sopra l’ osceno patibolo romano che esponeva la morte in alto, in vista, a manifesto. Non avrebbero mai potuto immaginare, quei conquistatori, che razza di icona stavano montando sopra il Golgota. Avrebbero preteso l’ esclusiva dei diritti di riproduzione.
Per tutta la vita, poca, fu abitato da una folla di bambini mancati, dal dolore delle loro madri. Così poté sopportare quello della sua ai piedi della croce.
Molti dei suoi prodigi erano scherzi di bambini che giocavano a fare i dottori, a salvare la natura curando d’ improvviso lebbre e storpiature. Erano miracoli, ma non colossali, non inceppò la macchina del cielo come Giosuè che fermò il sole in Gabaòn e la luna sulla valle di Aialòn. Non aprì le acque come Mosè, però ci camminò sopra senza bagnarsi. Non creò il frutto della vite, ma seppe provvedere, in una festa, a vendemmiare vino dall’ acqua. Non creò il sole, il fuoco, né luna, né stelle già create, ma diede vista ai ciechi e questo è un modo di inventare luce. Non ebbe figli, non procurò una sua discendenza, ma litigò con sua sorella Morte e le strappò di mano un corpo già in sepolcro, riportandolo indietro a rivivere, certo, ma anche a rimorire.
Fu battezzato in acqua dolce, amò la pesca, frequentò pescatori, ne riempì le reti, placò le ondate di una tempesta sul Lago di Tiberiade, che i suoi chiamano Mare di Cetra. Delle Scritture Sacre preferì Isaia; di Davide gustò più i Salmi che le imprese. Discendeva da lui, così vuole la legge del Messia. Nella sua linea di antenati c’ era una genitrice cananea, Tamàr, e una moabìta, Rut, perché il Messia è meticcio, non un purosangue.
Chiese all’ offeso di esporre l’ altra guancia, mettendo l’ offensore al rischio del ridicolo, ma pure stabilendo un termine alla prova: in numero di due, non più, sono le guance. Non scrisse, non dettò, le sue parole facevano il viaggio delle api sopra i petali aperti delle orecchie. Salvò una donna dalla condanna di lapidazione chiedendo ai suoi accusatori che il primo di loro, se puro da peccati, si facesse avanti con la prima pietra. Sapeva che gli uomini tirano volentieri le seconde. Diverse donne lo seguivano di luogo in luogo alla pari degli apostoli. Non pretese astinenze, il celibato venne dopo, a chiese fatte.
Sudò sangue, morì con tutto il corpo resistendo alla morte con nervi, fiato, febbre, piaghe, mosche intorno all’ agonia. Resuscitò per intero, carne, ossa e promessa di essere solo il primo dei destinati alla resurrezione.
Nascesse oggi, sarebbe in una barca di immigrati, gettato a mare insieme alla madre in vista delle coste di Puglia o di Calabria. Forse continua a nascere così, senza sopravvivere, e il venticinque dicembre è solo il più celebre dei suoi compleanni. Dopo di lui il tempo si è ridotto a un frattempo, a una parentesi di veglia tra la sua morte e la sua rivenuta. Dopo di lui nessuno è residente, ma tutti ospiti in attesa di un visto. Siamo noi, pasciuti di Occidente, la colonna di stranieri in fila fuori all’ ultimo sportello.

Erri De Luca

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