POVERTÀ, LIBERTÀ, LAICITÀ – Un filo d’oro nella spiritualità di Francesco d’Assisi

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Introduzione
Ricorre in questi anni l’ottavo centenario della nascita del movimento francescano. Numerose e significative manifestazioni sono state sinora svolte in ricordo dei principali avvenimenti che ne hanno scandito gli inizi: nel 2007 si è fatta memoria della conversione di san Francesco, ricorrenza sottolineata personalmente da Benedetto XVI in visita pastorale ad Assisi ; nel 2009 è stata la volta dell’anniversario della approvazione da parte di Innocenzo III della cosiddetta proto-regola francescana, avvenimento celebrato con un incontro tenutosi ad Assisi dal 15 al 18 aprile 2009 sul modello del Capitolo delle stuoie del 1221, al quale hanno partecipato oltre 2.000 frati provenienti da tutto il mondo; ulteriori elementi di riflessione, infine, proverranno sicuramente dalle celebrazioni previste nei prossimi anni.
P. Raniero Cantalamessa, OFM Cap., nel discorso tenuto in occasione del «Capitolo delle stuoie 2009» ha invitato i francescani a cogliere queste occasioni per ritornare alle proprie origini così da rileggere e riattualizzare gli aspetti fondamentali della primitiva esperienza francescana che definisce come le tre «P» di san Francesco: predicazione, preghiera, povertà .
È proprio su quest’ultima che si concentrano le riflessioni che seguono.
La disputa sulla povertà
Quella che per Francesco era stata forse la più eccelsa tra le virtù per i suoi seguaci cominciò ben presto a costituire un problema: sulla povertà i frati si divisero subito dopo la morte del loro fondatore. Il motivo del contendere era evidente: l’Ordine disponeva di numerosi beni – case, chiese, beni mobili, libri, ecc. – frutto di donazioni e lasciti di laici devoti; come si conciliava ciò con il divieto assoluto imposto dalla Regola di possedere alcunché? La maggioranza dei frati, denominata come i frati della comunità, riteneva legittimo che l’Ordine disponesse dei mezzi necessari per far sentire meglio la sua presenza nella Chiesa e nella società; una minoranza di essi, i cosiddetti spirituali, riteneva invece indispensabile una applicazione rigorosa della Regola e valutava ogni cedimento in materia di povertà come un gravissimo tradimento della volontà di Francesco.Per placare gli animi fu necessario l’intervento di Gregorio IX che indirizzò ai frati una lettera, la Quo elongati del 1230, finalizzata a dirimere questa e altre questioni che tormentavano l’Ordine. Riguardo alla povertà il pontefice osservava che la Regola, a un esame rigorosamente testuale, proibiva ai frati di possedere beni mobili o immobili ma non ne vietava l’utilizzo se di proprietà altrui; pertanto, assumendo che essi fossero nella disponibilità dei frati a titolo di «uso» e non di «proprietà» il rispetto formale della Regola era salvo.
Questa lettera segna l’inizio di un atteggiamento speculativo e teorizzante rispetto alle prescrizioni contenute nella Regola, conseguenza del fatto che ormai a dirigere l’Ordine erano i frati chierici e colti, provenienti dagli ambienti universitari e formati alla filosofia scolastica. Come afferma Grado Giovanni Merlo, essa segna il passaggio da una povertà vissuta a una povertà pensata, da un comportamento povero a una serie di interpretazioni della povertà; interpretazioni che da questo momento in poi saranno essenzialmente di tipo giuridico e teologico .
Tra i più importanti provvedimenti del primo tipo vi è la Ordinem vestrum emanata nel 1245 da Innocenzo IV, ai sensi della quale ogni bene mobile o immobile donato ai frati veniva acquisito al patrimonio della Chiesa e da essa concesso all’Ordine; è la formalizzazione giuridica della distinzione tra proprietà e uso già avanzata nella Quo elongati.
Una specifica menzione merita anche la Virtute conspicuos, emanata da Alessandro IV nel 1258, meglio nota con l’appellativo di mare magnum per l’ampiezza dei benefici e delle esenzioni elargite o confermate. Ma questo documento ha anche un’altra particolarità. Questa lettera, unitamente ai detti privilegi, assegnava all’Ordine dei Minori l’ufficio inquisitoriale; in effetti, tale incombenza era stata già conferita quattro anni prima – da Innocenzo IV, con la Licet ex omnibus – ma non era stata accolta con molto favore; Alessandro IV, quindi, confermava la disposizione del suo predecessore accompagnandola con la concessione di numerosi privilegi probabilmente allo scopo di ammorbidire la posizione dell’Ordine .
Ma le tensioni tra spirituali e comunità in materia di povertà non si placavano e furono necessari altri interventi pontifici. Tra questi la Exiit qui seminat di Nicolò III del 1279 con la quale – nel ribadire che i frati avevano un «uso di fatto» (usus facti) dei beni necessari al vitto, al vestito e al culto la cui proprietà restava della Chiesa – si assegnava ai superiori il compito di controllare che l’uso di tali beni fosse fondato su criteri di effettiva necessità.
Una estensione teologica del concetto giuridico di usus facti può essere considerata la teoria del cosiddetto «uso povero» (usus pauper) elaborata da Pier Giovanni Olivi; per uso povero non si intendeva una norma giuridica ma un modo di comportamento che lasciava al singolo frate la libertà – e anche la responsabilità – di un uso moderato e distaccato dei beni materiali.
Queste continue interpretazioni giuridico-teologiche della Regola finirono col rendere del tutto fittizia l’originaria povertà raccomandata da Francesco e accentuarono ulteriormente la distanza che ormai separava comunità e spirituali. Nel 1294 si giunse alla rottura: alcuni frati spirituali si rivolsero direttamente a Celestino V e sotto la sua protezione nacque una nuova congregazione di francescani, i Poveri eremiti di Celestino; a segnare questo nuovo percorso i due principali referenti del gruppo, Pietro da Macerata e Pietro da Fossombrone, cambiarono anche il nome rispettivamente in frate Liberato e frate Angelo Clareno.
Il nuovo pontefice, Bonifacio VIII, che non aveva in simpatia i Minori, revocò le disposizioni del suo predecessore e prese a perseguitare gli spirituali. Alcuni di essi furono imprigionati, altri si diedero alla fuga, altri ancora opposero fiera resistenza; è il caso, ad esempio, di Jacopone da Todi, che nel 1297 partecipò con i Colonna al Manifesto di Lunghezza che accusava Bonifacio VIII di aver usurpato il seggio di Celestino V.
Con Clemente V le polemiche si placarono un poco; il nuovo pontefice ebbe un atteggiamento più equilibrato e con la bolla Exivi de paradiso del 1312, da un lato condannava il rilassamento dei costumi in materia di povertà e riabilitava gli spirituali, dall’altro confermava l’impianto normativo e interpretativo già consolidato e cioè la distinzione uso/proprietà e la teoria dell’usus pauper.
Ma i problemi non erano finiti, anzi, addirittura conobbero un vistoso peggioramento; infatti, se finora si era trattato sostanzialmente di questioni interne all’Ordine – anche se per dirimerle era stato pur sempre necessario l’intervento del papa – sotto il pontificato di Giovanni XXII il problema della povertà fu alla base di un violento scontro dell’Ordine dei Frati Minori con la Santa Sede che nel periodo avignonese versava in una profonda crisi di decadenza morale. Da anni ormai tutta l’Europa era attraversata da una forte tensione pauperistica e all’insegna del nudus nudum Christum sequi ovunque nascevano movimenti al limite dell’ortodossia che condannavano apertamente la ricchezza e lo sfarzo della Chiesa. Ma la questione della povertà apostolica era più pericolosa sul piano teologico che su quello pratico. Dal punto di vista teologico la questione era la seguente: Cristo e gli apostoli erano stati realmente poveri sia individualmente che collettivamente o avevano avuto qualche possesso? I fautori della povertà assoluta si appoggiavano a numerosi passi evangelici: ad esempio, quello in cui Gesù afferma: « Le volpi hanno le loro tane, gli uccelli del cielo hanno i loro nidi; ma il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» . I sostenitori dell’opposta tesi si appellavano al fatto che Giuda gestiva la cassa comune, segno che qualcosa Cristo e gli apostoli dovevano pur possedere per far fronte alle esigenze più immediate. La questione era spinosa perché affermare che Cristo e gli apostoli avevano vissuto nella povertà più assoluta individuale e collettiva significava, indirettamente, affermare che i vertici della Chiesa non rappresentavano la perfezione evangelica. Si capisce, quindi, come la questione della povertà apostolica preoccupasse non poco la Santa Sede in quanto dietro le accuse di una eccessiva ricchezza rivolte alla curia romana si celavano pericolose correnti di pensiero che osavano mettere in discussione il suo stesso ruolo e la sua stessa autorità.
Quella della assoluta povertà di Cristo e degli apostoli era un’idea che circolava da sempre in casa francescana – sostenuta sia dalla comunità che dagli spirituali – e nel corso del Capitolo generale di Perugia del 1322 l’Ordine si schierò decisamente a favore di tale tesi. La reazione di Giovanni XXII fu decisa e immediata; l’anno seguente, nel 1323, promulgò la Cum inter nonnullos in cui affermava che Cristo, pur essendo povero, aveva posseduto dei beni e, soprattutto, dichiarava eretica la tesi della assoluta povertà di Cristo e degli apostoli . Il ministro generale dell’Ordine, Michele da Cesena, fu convocato ad Avignone dal pontefice. L’incontro avvenne nel 1328 ma fu tutt’altro che chiarificatore: il rifiuto del francescano ad accettare la Cum inter nonnullos fu così risoluto che Giovanni XXII lo fece arrestare. Fuggito insieme ad altri frati minori prigionieri ad Avignone Michele da Cesena riparò presso l’imperatore Ludovico il Bavaro; forte della sua protezione accusò apertamente il papa di eresia e schierò l’Ordine dei Frati Minori con l’antipapa, il francescano Nicolò V fatto eleggere proprio dall’imperatore . La prevedibile risposta di Giovanni XXII non si fece attendere e nello stesso anno Michele da Cesena venne scomunicato e deposto dal suo incarico di ministro generale. Il francescano non accettò né l’una né l’altra sanzione; dalla corte imperiale continuò tenacemente la sua battaglia ideologica contro Giovanni XXII intrecciando le sue idee sulla povertà apostolica con i temi ecclesiologici e politici sviluppati da Guglielmo da Ockham e Marsilio da Padova. Si trattava, tuttavia, dei colpi di coda di un conflitto che si sarebbe spento definitivamente intorno alla metà del XIV secolo.

Regola vs Testamento
Si è detto che sul modo di interpretare e applicare la povertà i frati si divisero subito dopo la morte di Francesco e che per risolvere la questione dovette intervenire direttamente Gregorio IX con la Quo elongati del 1230; ma, a ben vedere, il vero conflitto tra spirituali e comunità non riguardava tanto la povertà in sé quanto il rapporto tra Regola e Testamento.
In effetti i due testi non recavano esplicite ed evidenti contraddizioni reciproche ma nel Testamento Francesco insisteva non solo sull’importanza della povertà assoluta ma anche sul divieto altrettanto assoluto di chiedere privilegi alla curia romana . Dal Testamento emergeva nitida l’idea di Francesco: una fraternità che fosse di supporto alla gerarchia ecclesiastica senza però farne parte. Per Francesco la povertà assoluta, oltre che espressione di un mistico desiderio di conformità a Cristo, era funzionale alla conservazione della più ampia libertà evangelica e la sua ostinata resistenza ad accettare i privilegi che la Sede Apostolica era ben lieta di offrirgli era finalizzata a tenere l’Ordine fuori dalle logiche del potere ecclesiastico; al riparo, quindi, dagli intrighi politici della corte papale e dalle pretese degli ambiziosi vescovi locali. La descritta vicenda della Virtute conspicuos emanata da Alessandro IV nel 1258 dimostra come privilegi ed esenzioni venissero frequentemente utilizzati dai pontefici quale merce di scambio per accattivarsi il favore degli ordini religiosi; analogo discorso va fatto per il conferimento delle cariche ecclesiastiche . Insomma, Francesco voleva che i frati fossero a servizio della Chiesa ma non servi della curia. Per Francesco, quindi, povertà assoluta individuale e collettiva significava anche, se non soprattutto, libertà assoluta individuale e collettiva.
Per gli spirituali la possibilità di accettare privilegi e benefici al pari di altri ordini monastici e clericali avrebbe vincolato l’Ordine alle politiche ecclesiastiche, accelerato il processo di clericalizzazione e affievolito i costumi in materia di povertà; per questi motivi gli spirituali difendevano tenacemente il Testamento cui assegnavano un valore superiore alla Regola in quanto espressione della più genuina intenzione di Francesco. I frati della comunità, al contrario, vedevano nelle esigenti disposizioni del Testamento un ostacolo al potenziamento dell’Ordine e non volevano esservi obbligati; le norme della Regola, con opportune acrobazie giuridiche, potevano essere adattate alle necessità, lo spirito del Testamento no.
Ecco, quindi, che la questione principale che Gregorio IX fu chiamato a dirimere con la citata bolla Quo elongati del 1230 non fu tanto la pratica della povertà quanto il valore giuridico da assegnare al Testamento. La soluzione adottata coincise con la tesi sostenuta dalla comunità: il Testamento era da intendersi solo come una esortazione morale, non era vincolante dal punto di vista giuridico e andava considerato subordinato rispetto alla Regola.

Ordo vs fraternitas
La questione della povertà si innestava, quindi, sul conflitto tra Regola e Testamento, carico dei significati descritti. Ma questo conflitto, a sua volta, ne rifletteva uno ancora più profondo e sostanziale: il modo stesso di concepire l’Ordine.
Francesco, com’è noto, non fu un vero e proprio fondatore e la sua idea originaria di fraternitas era molto sopra le righe. La sua era una fraternitas trasversale rispetto ai modelli di vita ecclesiale esistenti: anche se fu certamente una espressione del rinnovamento penitenziale del laicato del XII e XIII secolo – I penitenti di Assisi fu la sua prima provvisoria denominazione – essa non si configurava come una forma di vita propriamente laica giacché si trattava comunque di uomini che avevano deciso di uscire dal secolo per abbracciare la vita religiosa, sebbene la maggior parte di essi non avesse ricevuto gli ordini canonici e neanche vi aspirasse; tuttavia, i frati non si presentavano né come dei monaci, benché conducessero uno stile di vita cenobitico, né come dei canonici secolari o regolari, anche se alcuni erano chierici, né come degli eremiti, benché amassero trascorrere lunghi periodi in isolati romitaggi; in sostanza, il gruppo aveva molti tratti in comune con le varie forme di vita ecclesiale all’epoca esistenti ma, a stretto rigore, non si conformava appieno a nessuna di esse. Era una fraternitas nella quale non vi erano regole scritte: le norme che disciplinavano la vita comune non erano frutto di una elaborazione giuridica ma di una esperienza condivisa, stabilite di volta in volta, collettivamente, nel corso delle riunioni periodiche dei membri; riunioni che, come testimonia Jacopo da Vitry, non avevano carattere normativo ma erano più che altro raduni nei quali i frati si ritrovano per «rallegrarsi nel Signore e mangiare insieme» . Era una fraternitas nella quale il concetto di potere era sconosciuto; inizialmente il piccolo gruppo era governato direttamente da Francesco ma questi godeva di un primato affettivo e carismatico, non di un vero e proprio potere legislativo o esecutivo e anche successivamente, quando la fraternità crebbe di numero, non si svolse mai un capitolo che lo eleggesse come ministro generale; inoltre, nei periodici capitoli dei frati a Santa Maria degli Angeli, non furono mai stabilite norme che in qualche modo istituissero gli organi direttivi, definissero le relative competenze nonché i requisiti e le modalità di accesso ai ruoli di comando. In definitiva, la primitiva fraternitas francescana non era assimilabile ad alcuna forma di vita ecclesiale canonicamente riconosciuta, non disponeva di una regola ufficialmente approvata né di una struttura gerarchica dirigente; per questi motivi potrebbe essere definita atipica, anomica e anarchica. Era quindi un qualcosa di totalmente «altro» per la Chiesa del tempo. Probabilmente non è errato affermare che è proprio questa alterità a costituire il suo carattere specifico molto più che altri elementi – quali, ad esempio, la povertà, la minorità, la vita fraterna, la laicità – presenti anche in altre forme di vita penitenziale sviluppatesi in quegli anni . Occorre anche osservare che una certa alterità rispetto agli schemi mentali e culturali del suo tempo fu una delle caratteristiche più evidenti della personalità di Francesco che non a caso Tommaso da Celano definì homo alterius saeculi, uomo di un altro mondo .
Francesco rimase sempre fermamente legato al suo originario modello di fraternitas che descrive con struggente malinconia nella parte centrale del suo Testamento e con tutte le sue forze si adoperò affinché la sua famiglia nonostante la prodigiosa crescita numerica ne conservasse integro lo spirito. Per lunghi anni, nonostante le forti pressioni cui fu sottoposto, si rifiutò di scrivere una regola poiché nella sua purezza di cuore considerava i formalismi giuridici come pericolosi nemici del libero e spontaneo fluire della vocazione . Dovette cedere solo negli ultimi anni della sua vita, a prezzo di una profonda sofferenza interiore, per evitare lacerazioni interne e conflitti con la Sede Apostolica; era un passaggio ormai obbligato per un Ordine in continua espansione nel quale la Chiesa di Roma riponeva grande fiducia.
In definitiva, nel conflitto tra Regola e Testamento si riflettevano due modi profondamente differenti di concepire il movimento francescano: doveva essere la fraternitas laica sognata da Francesco o un ordo clericale come tanti altri che lo avevano preceduto ?

Storia monumentale
Questa, dunque, in estrema sintesi, è la storia della vivace e sofferta dialettica interna all’Ordine dei Frati Minori in materia di povertà. Ma si sa che la storia, anche quella religiosa, la scrivono i vincitori e in questo caso la storia con la «S» maiuscola l’ha scritta Bonaventura da Bagnoregio. Il Capitolo generale del 1263 gli assegnò, nella sua qualità di ministro generale dell’Ordine, il compito di scrivere la biografia ufficiale di Francesco. Bonaventura interpretò il compito assegnatogli da raffinato teologo qual era e compose un testo che voleva essere più una esaltazione mistica del «santo» che un profilo storico dell’«uomo»; occorre anche considerare che Bonaventura non aveva conosciuto direttamente né Francesco né i primi frati in quanto era andato giovanissimo a studiare a Parigi alla scuola di Alessandro di Hales. Il lavoro di Bonaventura piacque talmente che il successivo Capitolo del 1266 dispose la distruzione di tutte le altre legendae composte anteriormente, ossia tutte quelle biografie scritte spontaneamente – in genere da frati della prima ora – e destinate a un circuito privato e limitato, se non clandestino, diffuse particolarmente tra gli spirituali . Si deve quindi al doctor seraphicus se colui che aveva amato definirsi «pazzo» e «giullare» è divenuto per sempre l’alter Christus e una vita vissuta tra poveri ed emarginati d’ogni tipo un itinerarium ascetico verso Dio. Non è un caso se la Legenda maior è stata definita come un testo che «se costituisce una magnifica sintesi di vita spirituale rappresenta anche l’operazione perfettamente riuscita di imbalsamazione di un morto al quale si vuole negare ogni interferenza con la vita reale» .
La Legenda maior, in virtù della decisione del Capitolo del 1266, è stata per lunghi secoli l’unica biografia disponibile di Francesco e ancora oggi in casa francescana si risente del suo approccio alquanto celebrativo e misticizzante. Difatti, quel «ritorno alle origini» sovente raccomandato ai francescani per rinvigorire e purificare la propria vocazione avviene più nel segno di una riflessione sulle virtù mistiche di Francesco che sotto la forma di una lucida analisi delle vicende storiche dei primi decenni dell’Ordine. Ma un movimento non è mai riducibile soltanto al suo fondatore e anche il francescanesimo non è il solo Francesco. Le «origini del francescanesimo» non possono essere certo limitate all’epopea della proto-fraternità, ma vanno estese almeno fino alla stabilizzazione dell’Ordine operata da Bonaventura se non alla definitiva chiusura della disputa sulla povertà sotto il pontificato di Giovanni XXII; in sostanza, quell’arco temporale – un secolo circa – in cui si consumò il processo di trasformazione della fraternitas laica nell’ordo clericale. Raramente, invece, viene dato il giusto risalto alle controverse vicende che caratterizzarono questo delicato periodo storico, col rischio gravissimo di perdere traccia di importanti e preziosi passaggi tematici .
Un esempio in tal senso è offerto proprio dalla riflessione sulla povertà che si sofferma molto più sulla sua valenza di virtù particolarmente cara a Francesco che sui drammatici conflitti che la ebbero per protagonista. Orbene, questa lettura corre il rischio di risultare alquanto limitativa poiché da essa non emerge l’intima relazione che lega la povertà alla libertà e alla laicità, valori che gli furono altrettanto cari e che difese con altrettanta forza. Povertà, libertà e laicità nella spiritualità di Francesco si presentano senza soluzioni di continuità e probabilmente non è errato considerarli anche come veicoli attraverso i quali egli esprimeva la sua innata alterità.
A sostenere questa ipotesi viene in soccorso un poemetto allegorico di incerta datazione e di autore ignoto – il Sacrum commercium Sancti Francisci cum Domina Paupertate – che descrive un ipotetico incontro tra i frati e Madonna Povertà e che si chiude con queste parole: «E quando della gloria di tanta penuria si furono saziati più che se avessero avuto abbondanza di ogni cosa, [i frati] condussero la Povertà al luogo del riposo, perché era stanca. E così si adagiò ignuda sopra la nuda terra. Chiese inoltre un guanciale per il suo capo. E quelli subito portarono una pietra e la posero sotto il capo di lei. Ed ella, dopo un sonno placidissimo e non appesantito da cibo né da bevanda si alzò alacremente, chiedendo che le fosse mostrato il chiostro. La condussero su di un colle e le mostrarono tutt’intorno la terra fin dove giungeva lo sguardo, dicendo: “Questo, signora, è il nostro chiostro”» . Il filo d’oro che lega povertà, libertà e laicità emerge con chiara evidenza: nelle intenzioni dell’autore la più assoluta povertà e la rinuncia a un chiostro fatto da mani di uomo è funzionale alla riappropriazione di un mondo nel quale vivere con la libertà dei figli di Dio, in un ribaltamento di mentalità rispetto al monachesimo tradizionale che solo dei laici potevano operare .

Conclusione
La povertà è sicuramente una tra le virtù meglio incarnate da Francesco d’Assisi ma non meno significativo è ciò che essa rappresentò nella Chiesa della prima metà del XIV secolo e cioè il terreno di scontro di differenti concezioni teologiche, ecclesiologiche, giuridiche e politiche. A distanza di ottocento anni la disputa sulla povertà è ampiamente consegnata al passato; non così l’aspirazione di una minoranza di francescani a un francescanesimo povero nel senso di libero e laico .

Pietro Urciuoli
Ordine Francescano Secolare d’Italia

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